Da: Gilberto Zorio, Mostra alla Galleria Franca Mancini di Pesaro, Danilo Montanari Editore, Ravenna, 2006.
Enigma della “macchina” di Zorio. Spettacolare e misteriosa, piena di senso ma di arduo significato, inspiegabile e pur comprensibile, ci invita ad una strana complicità. Un gioco a mosca cieca in cui è superflua la benda e che non ci chiede penetrazione, ma iniziazione. Come la dadaista “macchina a tritare cioccolata” di Duchamps, la patafisica “trappola e macchina a scervellare” di Jarry o il complesso surrealista “macchina da cucire – ombrello e tavola anatomica”, fa parte di quel “fantastico trascendentale” che è destinato a lasciarci sovrappensiero.
Un modo, tra gli altri, di iniziarsi a quest’opera è descriverla, per lasciar decantare il linguaggio al suo contatto, come piace al suo costruttore. Non si tratta di una esegesi – termine che mal nasconde la sua radice: egemonia – ma di rifigurare nel linguaggio, senza pretese di esaustività, un “composto” di muri e di luce, di sostanze e di suoni. Non un’installazione, che comporta la stasi dello “stallo”, ma un Composto di materie e diagrammi, di oggetti e di forze. Un bricolage “alchemico” di montaggi e missaggi che non rappresenta “qualcosa”, ma che compone e decompone energie e sensazioni.
Comincerò allora col distinguere un Dispositivo e un Congegno: (i) un Dispositivo costruito, cioè un costrutto, (ii) un Congegno, luminescente e sonoro. Aggiungerò qualche osservazione supplementare: sono un professore ed insegnare è questione di segni.
(i)
Cominciamo dalla componente muraria che traccia, in alzata, una stella a cinque punte, dove cinque triangoli prolungano i lati di un pentagono: uno dei lati della forma isoscele si prolunga, indica e si perde fuori dalla galleria di Franca Mancini. La muratura chiude quindi un spazio “astrale”, a cui abbiamo un accesso soltanto visivo, attraverso le commessure dei materiali di costruzione. Sul vano a forma di stella, è posata una lunga lancia tribale le cui doppie punte sporgono dalla parete, come le lancette d’uno srumento di misurazione. Appeso al mezzo della lancia, all’altezza dei nostri occhi, un solido filo di rame sostiene, agganciato per il becco, un “alambicco”, dove sono deposti o precipitati fosforo e chinino.
Osservazioni:
1.
La muratura – che Zorio pratica dal 1976, è uno dei modi per realizzare il segno-diagramma della stella. Sigillo, cioè etimologicamente, unicum signum dell’autore, firma del suo privato firmamento. Per una fontana (La Fontana arbitraria, 2006), Zorio ha usato dei tubi che disegnano la stella pentagonale senza il supporto murario, come la città invisibile di Armilla, che Calvino ha costruito linguisticamente con le sole condutture dell’acqua e come abitazione di ninfe. Il materiale impiegato, blocchi di Gasbeton in gesso soffiato, è quindi rilevante per il nostro composto. Non solo per la sua leggerenza e portanza, per la versatilità e rapidità di posa in opera, ma anche per la precisione dimensionale, l’omogeneità, lo spessore costante. Per la capacità di carico dinamico, isolamento termico e soprattutto per il colore “naturale” che consente di formare una grotta verticale in forma astrale, un contenitore di lume e riverberi, un antro-laboratorio di tramutazioni.
2.
La vita intera è un processo alchemico
(A. Koyré, su Paracelso)
Il rischio delle spiegazioni semiotiche è di rimuovere il sentimento del fantastico, ma nel caso di Zorio serve solo a spostarlo. Prendiamo il rischio: il crogiolo alchimico, l’atanor, aveva talvolta la forma di una torre e un’occhiata all’interno permetteva di sorvegliare dalle feritoie, la cottura dell’uovo filosofale, l’aludel. Questo era un alambicco di forma ovoidale, in terracotta oppure di vetro o cristallo, dove si svolgevano le fasi di tutte le operazioni fondamentali: solutio (dissoluzione), ablutio (purificazione), congelatio (solidificazione) e fixatio (indurimento).
Perché no? Anche se il riferimento non è esplicito. Zorio è un (al-)”kemico” naturale, così come l’uomo di Paracelso era “un firmamento costellato di astri”. Astri a cinque punte, stelle irradianti della quintessenza, centri di azione dove confabulare con l’anima del mondo. Sappiamo infatti da Bachelard che “…non c’è alchimia unitaria. Ci vorrebbe un grande apparato dialettico per esplorare in tutte le sue sottigliezze l’immaginazione materiale dell’alchimista”1.
Zorio è in inter-materialista, come altri sono inter-soggettivi. Tratta la pluralità delle sostanze del mondo come modi dell’energia: per lui l’opera non ha, è energia. Mentre altri artisti sono presi dai circuiti della mente o dai meandri della psiche, sono i piani misteriosi della materia ad interrogare Zorio. La sua libera attività – parola che preferisco ad arte o lavoro – giunge ad una tale pregnanza d’immagine, perché è due volte vera: nell’esperienza delle sostanze e nello slancio onirico. Artisti o scienziati sanno bene che la natura non può insegnarci direttamente i suoi sogni, ma ci consente di percepirli usando una immaginazione felice. Sperimentando un gioco metamorfico di similitudini e analogie e costruendo un composto esoterico di affinità e simpatie che ha, nel caso di Zorio, una sua forma e firmamento.
Baudelaire ci aveva già insegnato a vivere la fisiologia degli utensili che popolano l’antro dell’alchimista e non solo a divertirsi con la loro forma. Sappiamo che per essere più significativi, gli oggetti devono essere di forme e sostanza antagoniste: come la lancia e l’alambicco che sono iscritti in due diversi dispositivi ludici e diagnostici, di gioco e di misura.
Le punte della lancia Masai, che sporgono dalla stella, sono come lancette di un “orologio stellare”, come quelli detti “notturnali “che avevano al centro la Stella Polare e usavano come puntatori le due stelle Dubhe e Merak dell’Orsa Maggiore. Il Composto è forse il simulacro di un astrolabio: non èun solarium, ma uno stellarium!
Quanto all’alambicco sospeso nel cuore del dispositivo a stella, sappiamo che è un modello spaziale ridotto delle operazioni sulla materia: il “duomo” (o cucurbita) per riscaldare e evaporare e il “capitello” (o serpentina) per raffreddare e condensare. E che ha in valore cosmico e filosofale: se nel laboratorio della natura la pianta è un alambicco e lo stomaco una storta, ” ci sono immaginari prescientifici in cui il mondo è concepito come un immenso alambicco, che ha il cielo come capitello e la terra come cucurbita. L’alambicco del distillatore sarà allora un alambicco del micromondo, e la più piccola delle distillazioni sarà una operazione d’universo. L’alchimista vive un sogno cosmico” (Bachelard).
E quando Zorio distilla, nel suo aludel, la luce?
(ii)
Il Composto astrale può sembrare astruso, se non descriviamo il Congegno di luci e suoni che sembra emesso dall’abitacolo verticale a stella e che trapela, come un barlume e una pulsazione, dalla commessura dei blocchi di gesso soffiato. All’alternanza di luci stroboscopiche (la lampada di Wood a raggi ultravioletti) si alterna una fosforescenza. Uno spettro di vibrazioni: condizioni dinamiche della materia. Insieme alla luce, dallo stellarium emana il suono rossiniano del Guglielmo Tell, che si iscrive come notazione musicale sulla fosforescenza dello spazio circostante: motivo-ritornello che si diffonde nell’aria ed è scritto sulla parete luminescente.
Osservazioni:
1.
Come articolare il Congegno al suo effetto perturbante di allucinazione (e di fascinazione)? Intanto, come la parola ci suggerisce, con le modalità della luce. La fosforescenza, aura di Zorio, non è la luce coerente dell’illuminismo ma quella iniziatica dell’illuminazione. La sua visione non richiede chiarezza, ma visibilio. È luminescenza.
Il fosforo è l’esito di una comunicazione energetica. Come la fluorescenza infatti, la fosforescenza è un fenomeno di transizione: la restituzione di un prestito luminoso. Quando un raggio di luce (visibile o invisibile) eccita un materiale, gli elettroni di quest’ultimo assorbono parte dell’energia e accedono brevemente a livelli più elevati, per restituirla poi rapidamente come raggi visibili. La luminescenza naturale del fosforo – dalle lucciole alle aurore boreali, dagli scorpioni alla nebulosa di Orione – è l’effetto di una dis-eccitazione lenta e diffusa. Per un ritardo nella resa dell’energia l’emissione di luce, il fotone, dura quindi più a lungo: il materiale fosforescente, caricato dalla luce delle lampade, una volta che questa è spenta, restituisce con calma quanto ha assorbito. Il suo strano chiarore può servire allora come memoria delle sue eccitazioni energetiche. Un sensore molecolare, lume rivelatore di altre luci: come le lancette degli strumenti di misurazione, gli astrolabi o i pentagrammi dell’opera rossiniana.
2.
A parte (Affetti miei, tacete.)
(Dal “Guglielmo Tell”)
La torre di Zorio il (al-)Kemico, il vano del suo atanor, mescola pozioni di luce e porzioni di suoni. Il pentagramma è scritto al fosforo sul pentagono della stella. Non c’è timore di pietrificazione, di una “solidificazione politica dell’arte”2. L’antro è come gli otri, gli elastici “marrani” di altri suoi Composti che emettevano, come alambicchi fonici, fischi stridenti e suoni non consonanti. Questa volta il soffio spirato – un motivo di famiglia? – è il motivo del Guglielmo Tell, sensore della memoria privata dell’artista. Nella storia dell’eroe elvetico, – il rischio e il successo nella storia famigliare e collettiva – Zorio ritrova duplicata una relazione alla paternità. Le simmetrie esistenziali sono sempre irregolari e sbilenche, ma il nostro drammatico Composto dimostra che nell’enciclopedia dei sogni più “materialisti” si colgono insospettati dettagli intimi. Come nell’a parte del libretto, nel Dispositivo e nel Congegno di Zorio si esprimono e tacciono gli affetti. La memoria e la speranza, passioni del tempo passato e futuro, sono iscritte nella vibrazione del ciclo luminescente. Il Composto opera sulle durate: non è primitivo né trans-storico. Nel ritornello dell’energia prestata, “trattenuta”, restituita dal fosforo della macchina “filosofale” il tempo è perduto e ritrovato. Le reminiscenze diventano scoperte: è la trasmutazione alchemica del tempo.
3.
Il titolo d’Arte povera – mutuata dal teatro di Grotowski – è ormai un nome proprio, privo d’ogni valore descrittivo. Riflettendo ai numeri di Fibonacci in Merz, alle (al-)Kemìe di Zorio, ai cosmogrammi di Mattiacci, ai composti minerali e vegetali di Kounellis e Penone, viene piutosto alla mente la Taumatologia di Della Porta, la magia naturalis o la “disciplina dello stupore” che vedeva, al culmine dei saperi, il Potere dei numeri, la Criptologia e l’Alchimia. Una storia di lunghe durate quella degli artisti “taumaturghi” che è inaccessibile all’attualità critica, la quale trapassa, sconvolta, dal presente al presente.
(iii)
Quel che forza a pensare è il segno
(Deleuze)
Anche le mie parole, che descrivono e osservano, vorrebbero partecipare alla riuscita dell’esperimento, all’irraggiamento della stella, all’irradiazione del fosforo e del suono. Per riuscire dovrei però diventare “egittologo”, come proponeva Deleuze. “Né fisici né metafisici […] apprendisti, iniziati all’opera nelle cui zone oscure penetriamo come in cripte per decifrarvi geroglifici…”3.
Difficile è cogliere il segno, come sanno Gilberto Zorio e Guglielmo Tell. E non vale neppure la pena di sbagliar meno. Meglio sbagliare meglio.
Note