La vita profonda delle nature morte


Da: (con Lucia Corrain) AA.VV., La natura della natura morta. Da Manet ai nostri giorni, a cura di Peter Weirmair, Electa, Milano, 2001.


 

Quanta vanità nella pittura che suscita ammirazione per la rassomiglianza con cose di cui non ammiriamo affatto gli originali.
Pascal, Pensieri

1. Natura morta

Le riflessioni che seguono si propongono fondamentalmente due obiettivi di indagine. Il primo, riguardante gli oggetti delle nature morte. Il secondo, relativo alla costruzione e funzione della spazialità in questo genere pittorico.
Oggetti, che pur nelle trasformazioni cui sono sottoposti dai diversi movimenti pittorici, conservano nella lunghissima tradizione della natura morta pressoché sempre un grado di iconicità, di denominabilità e riconoscibilità. Spazialità che, al contrario, negando la profondità, in nome di un universo che si proietta sempre più in avanti, e generando un eccesso delle apparenze del reale, mette l’osservatore in condizioni di “presenza”.
Più precisamente, la natura morta si muove nella geografia del mondo contornando oggetti che, pur essendo sotto gli occhi di tutti, sarebbero consegnati al silenzio e che, invece, l’irruzione della finzione spaziale pone sotto l’occhio dello spettatore.
E poiché come sostiene con molta efficacia Gombrich, “l’opera comunica un significato soltanto dentro una tradizione articolata” (Gombrich 1961, 152), avrà dunque un effettivo significato portare avanti il lavoro nell’ottica dell’intertestualità, nel tentativo di far interagire le nature morte del passato con quelle più vicine a noi, con la finalità di individuare le persistenze, le eventuali trasformazioni e le possibili aperture di un genere pittorico che, con maggiore o minore intensità, attraverso tutto l’arco della storia dell’arte.

È cosa risaputa che fino a circa la metà del XVII secolo, della natura morta si parlava e si scriveva come di pittura di fiori, di frutta, di animali, di oggetti, non essendo stata ancora coniata una precisa denominazione. Solo alla metà del secolo d’oro di questo genere, dopo la sua avvenuta autonomizzazione, il gergo delle botteghe olandesi forgerà il termine Still-leven, che costituirà l’origine per le altre lingue germaniche (Vorenkamp 1933), mentre l’espressione nature morte va attestandosi in ambito francese a partire dal 1750, dunque circa un secolo dopo quella olandese, e sarà prontamente adottata dalle altre lingue neolatine1.

2. L’interoggettività: motivi e rebus

3. La vita silente degli oggetti

Marcel Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore

Da quando ne avevo veduti negli acquarelli di Elstir, cercavo di ritrovare nella realtà, amavo come qualcosa di poetico, il gesto interrotto dei coltelli ancora di traverso; la gonfia rotondità di un tovagliolo disfatto in cui il sole intercala un pezzo di velluto giallo; il bicchiere mezzo vuoto che rivela meglio così le sue nobili forme svasate e, in fondo al suo vetro translucido e simile a una condensazione della luce, un resto di vino scuro, ma scintillante di riflessi; lo spostamento dei volumi, il trasmutarsi dei liquidi per effetto dell’illuminazione; l’alterazione delle prugne che passano dal verde all’azzurro e dall’azzurro all’oro nella fruttiera già mezzo spoglia; la passeggiata delle sedie vecchiotte, che due volte il giorno vanno a ordinarsi intorno alla tovaglia stesa sulla tavola come su di un altare su cui si celebrino i festini della ghiottoneria e sulla quale, in fondo alle ostriche, resta qualche goccia d’acqua lustrale come in piccole acquasantiere di pietra; cercando di trovare la bellezza dove non mi ero mai immaginato che fosse, nelle cose più usuali, nella vita profonda delle “nature morte” (pp. 473-474).
Émile Zola, Il ventre di Parigi

Lui era solito aggirarsi tutta la notte in quegli spazi, fantasticando nature morte gigantesche, quadri mai veduti. Anzi, ne aveva persino cominciato uno; aveva fatto posare il suo amico Marjolin e quella sguaiatella della Cadine; ma sí, ci voleva altro! Era troppa la bellezza di quegli accidenti di ortaggi! E la frutta! E i pesci, e la carne! […] era chiaro che a Claude, in quel momento, non passava nemmeno per il capo che tutte quelle bellezze fossero da mangiare. Lui non ne amava che il colore.
4. L’aggetto o la natura enunciante

La natura morta, dopo una discreta fortuna nel mondo greco e romano, ha vissuto una fase di marginalità per poi fare la sua ricomparsa come parergon e finalmente come genere autonomo solo nella grande stagione dei generi moderni: il Seicento. Se già Plinio ne evidenziava alcuni caratteri (la presentazione illusionistica, l’idea di vanità delle cose, il carattere metapittorico della rappresentazione), i tratti salienti andranno maggiormente a delinersi quando la natura morta si autonomizzerà, divenendo a tutti gli effetti un vero e proprio genere, diventerà, cioè, ergon, affrancandola da un più vasto contesto figurativo, e facendole venir meno quel ruolo di completamento cui era stata relegata.
Pochissimo si conosce sulle regole pratico-teoriche che guidavano la realizzazione pittorica di una natura morta; e questo perché nella pittura del passato la dimensione pratica è predominante su quella teorizzante. Scorrendo trattati e descrizioni sulla natura morta dal XVII secolo in avanti, però, è possibile rintracciare qualche regola che, se opportunamente interpretata, permette di ricostruire il sistema fondante la natura morta; quell’apparato di norme che contribuisce a far perdere importanza all’oggetto rappresentato, in nome della costruzione illusionistica.
In un testo anonimo del primo quarto del XVII secolo, un pittore di storia che si è esercitato anche nella pittura di “piccole cose” dà il seguente consiglio sul modo di comporre una natura morta:

Durante la stagione della frutta, riempite dei piatti di maiolica, mettendovi sotto delle foglie di vite […]. Ponete il piatto pieno di frutta all’altezza di circa un piede più basso del vostro occhio, così ritrarrete la frutta il più simile al naturale2.
Si viene così a costruire un rapporto particolare tra l’oggetto e lo spazio nel quale è rappresentato, accentuando il tratto della monumentalità dell’oggetto stesso, specie in relazione al formato sempre di contenute dimensioni. E anche Vincenzo Giustiniani, annoverando la natura morta come undicesimo modo di dipingere, avverte che degli oggetti “non basta farne il semplice ritratto”, ma è necessario da parte del pittore mettere in atto tutta la sua consumata perizia.
Ma l’oggetto (la cosa) protagonista – come dice molto bene Lotman – assolve ad altri e ben più articolati compiti:

[…] la cosa in un quadro a soggetto si comporta come la cosa a teatro, la cosa nella natura morta come la cosa nel cinema. Nel primo caso recitano con lei, nel secondo è lei che recita. Nel primo caso non ha un significato indipendente, bensì lo riceve dal significato dell’azione scenica: è un pronome. Nel secondo caso essa è un nome proprio, è munita di un significato proprio ed è come se venisse inclusa nel mondo intimo dello spettatore (Lotman 1986, 59).
Secondo quali modalità l’immagine di natura morta viene inclusa nello spazio intimo dello spettatore?
Moltissimi quadri sono pieni di oggetti inanimati, che tuttavia non sono nature morte. E che per diventarlo devono essere allestiti secondo precise regole illusionistico-spaziali. Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova e Taddeo Gaddi nella chiesa di Santa Croce a Firenze3, additati come esempi di incipit, inseriscono alcuni oggetti all’interno di una nicchia e la nicchia sarà proprio l’elemento fondantivo della natura morta. È proprio la nicchia, infatti, a conferire agli oggetti un ruolo singolare, essendo l’unico spazio tridimensionale limitato, “dove si possono collocare gli oggetti rapportandoli sempre alla superficie di rappresentazione” (Stoichita 1993, 31). La nicchia è l’unico spazio di contenuta profondità che, qualora vi si inseriscano oggetti, esercita un’azione esattamente opposta: quella dell’aggetto; è un incavo nel muro che concorre a sollecitare una forma di “intrusione” degli oggetti nello spazio esterno al quadro, quello dell’osservatore4. In mostra, il perdurare della nicchia è presente nell’opera scultorea di Luca Patella, Et jam humida nox declinat (1990-96), dove nell’incavo di un “altare” è collocata una rosea e profana conchiglia.
Alla dimensione dell’aggetto si aggiunge il fatto che, molto spesso, gli oggetti attraversano illusionisticamente la superficie del quadro per addentrarsi in quella dello spettatore; fuoriescono, cioè, dalla frontiera estetica. Ma l’oggetto che aggetta e che valica la soglia estetica deve essere reso necessariamente nella sua interezza e completezza e, soprattutto, in scala pressoché simile al vero, come raccomanda Jean Brueghel, uno dei massimi esempi nella natura morta di fiori5. Insomma, a ben guardare si tratta di una situazione spaziale che presenta molte analogie con quella propria della rappresentazione di una riflessione speculare. Uno specchio, o più in generale una superficie riflettente, se da un lato amplia, estende la visione di ciò che il punto di vista scelto non permetterebbe (ad esempio ciò che è situato alle spalle del soggetto enunciatore), contemporaneamente “blocca” l’effetto di profondità, iscrivendo entro lo spazio in cui si trova un effetto circoscritto di aggetto, o quantomeno di negazione della profondità.
Questa omologia spaziale troverà una forma di concreto incontro/scontro proprio nella natura morta seicentesca. In molti dipinti, infatti, accanto ai più diversi oggetti (libri, teschi, vasi, fiori, etc), si trovano sfere di cristallo, bolle di sapone, specchi, vetri riflettenti, che, oltre a creare, in quello già presente, un ulteriore aggetto dovuto alla salienza luministica, riflettono, raddoppiano sia la stessa natura morta che l’osservatore vede, sia il pittore al cavalletto mentre sta dipingendo esattamente quella natura morta, ma di cui si vede il retro della tela. Esempio estremo di “contestualizzazione dell’autore”, dell’atto di enunciazione, capace di accrescere l’effetto di contiguità con lo spazio esterno attraverso la sua iscrizione all’interno della spazialità della finzione pittorica.
Una figura, quella della specularità, di metarappresentazione che la natura morta non ha mai trascurato, come testimoniano alcuni esempi in mostra, tra cui si ricorda Kusma Petrov-Vodkin, Still-life, (1918), dove, in una veduta leggermente rialzata su un tavolo di legno che si completa nello spazio dello spettatore, la brillantissima teiera riflette una delle due uova, situate sullo stesso tavolo e nella parte superiore un frammento del luogo dell’enunciazione6. O in quello di Natan Altman, Still-life (1918), con due bottiglie di forme diverse che si duplicano in uno specchio inclinato che riflette anche parte della finestra che non si vede, ma che dà luce allo studio in cui è posta la natura morta7.
La cornice della nicchia nel corso del tempo e con l’affermarsi del formato rettangolare del quadro, verrà a coincidere con la cornice del supporto pittorico, senza tuttavia annullare l’effetto di incavo e di aggetto. Aprendo parallelamente il campo alla presenza di una “variante”, quale quella di presentare gli oggetti su una mensola: vera e propria costruzione di uno spazio “a portata di mano”, con effetti prensili, di richiamo all’agire. Come confermano due esempi, fra altri, di quelli esposti in questa mostra: Nicolas De Stäel, L’Étagère (1955) e Haim Steinbach, Senza titolo (cappelli marocchini, forme di teste) (1990).
Nell’esigenza di generare un’effettiva contiguità spaziale, anche l’illuminazione viene impiegata nella creazione di un ruolo sinergetico. La luce, il più delle volte è non naturale, ma costruita, che nel trœmpe-l’œil addirittura o annulla totalmente le ombre reale per meglio ingannare l’occhio, o ne genera di non rispondenti a una sorgente luminosa reale: “come la desuetudine degli oggetti, esse sono il segno d’una leggera vertigine, quella legata a una vita precedente, un’apparenza che precede la realtà” (Baudrillard 1979, 88).
I modi di inclusione dell’osservatore all’interno del genere natura morta, però, non si limitano allo sfruttamento delle potenzialità aggettanti sull’asse della frontalità. Fin dalle origini, infatti, la visione dall’alto, zenithale, fa la sua comparsa nella costruzione dell’inganno dell’occhio dello spettatore: l’esempio più famoso è il mosaico di Sosos di Pergamo, la stanza non spazzata8, che riproduceva in trœmpe-l’œil gli avanzi di un pranzo come se questi fossero effettivamente stati abbandonati dai convitati. E qui il trœmpe-l’œil si manifesta in una visione degli oggetti dall’alto con la rappresentazione delle ombre portate. Chi vi entrava, con il suo punto di vista sempre rialzato, ma oscillante fra la visione zenitale e quella a volo d’uccello, aveva, almeno per un attimo, l’impressione che gli avanzi fossero veri.
E la regola dell’anonimo del Seicento, che indicava un punto di osservazione della frutta rialzato, si iscrive in questa tradizione che parte o arriva alla totale visione dall’alto e che Daniel Spoerri, con il suo Tableau astro-gastonomique (1975), nella serie qui proposta, rappresenta l’esempio più eclatante, nonostante ve ne siano anche altri meno zenitali9.
A un primo e sommario raffronto l’aggetto e la visione dall’alto, sembrerebbero non presentare delle affinità. In realtà, la strategia della veduta zenitale coinvolge, molto più di quanto superficialmente appaia, lo spettatore. Si configura, in effetti, come una “mappa”, la quale, se da un lato sembra privilegiare la dimensione descrittiva; dall’altro, è contemporaneamente una narrazione, è la reificazione del racconto, è la somma di tutti gli “itinerari” del “viaggiatore/osservatore”, che viene così ad avere un effetto di presenza, di iscrizione nella rappresentazione.
Analogamente al modo in cui lo spettatore è coinvolto nelle nature morte cubiste (Georges Braque, Guéridon. La table de musicien – 1913; Verre et assiette de pommes – 1925; Natura morta con bicchiere e grappolo d’uva – 1930; Pablo Picasso, Guitare – 1912, per ricordare soli due i principali esponenti del movimento d’avanguardia), le quali rendono copresenti più punti di osservazione che lo spettatore deve necessariamente assemblare attraverso un’operazione di cooperazione.
In questo percorso di ricostruzione delle strategie messe in azione dalla resa illusorio-spaziale rispetto all’osservatore, la natura morta si configura come un genere che attribuisce il massimo valore alla componente enunciativa, facendola divenire la vera e propria salienza del genere, il tratto maggiormente caratterizzante, anche a scapito della rappresentazione. E, a sua volta, il culmine della componente enunciativa si incarna proprio nel trœmpe-l’œil, che non è imitazione o riflesso del reale, ma rinvio a se stesso, alla propria “ipersimulazione sperimentale”, che intrappola l’occhio in un’apparenza generatrice di stupore, nell’apparizione di un doppio che seduce, nella “vertigine tattile che ripropone il voto folle del soggetto di abbracciare la propria immagine e per ciò stesso svanire” (Baudrillard 1979, 90). Il trœmpe-l’œil è il dispiegarsi di un effetto di presenza della sfera delle apparenze, dove non c’è niente da vedere perché “sono le cose che vedono voi, non fuggono dinanzi a voi, ma vi si portano davanti” (Ibid, 91)10. Un sovrappiù di reale che si risolve in una mancanza di realtà, ossia il trionfo barocco dell’illusione.
La natura morta nel suo complesso, dunque, agisce nella direzione di un’espropriazione del reale attraverso le sue apparenze. Il genere natura morta, allora, è una sorta di esortazione da leggere più che da vedere, “è crittografia per iniziati espressa in una lingua convenzionale esoterica” (Lotman 1986, 56). Ma anche un genere fortemente efficace sul piano passionale, in grado di toccare il corpo dello spettatore, se per una donna gravida il guardare, ad esempio, la frutta dipinta in trœmpe-l’œil può provocare delle “voglie” nel nascituro:

Voi donne in cinta, non guardate la frutta dipinta che assomiglia alla vita. Al fine che il vostro occhio insensato non tormenti il vostro cuore, e che non nasca da ciò una “voglia” al feto. Perché la visione di quest’arte deve rapidamente toccare il desiderio dell’anima11.
5. Il gioco dei generi

Quando la natura morta non si era ancora affermata come genere, quando era in statu nascendi, essa conviveva con altri contesti narrativi, quale ad esempio quello storico religioso. Inoltre, nelle nature morte talvolata sono rappresentate opere di arti applicate, vetro artistico, scultura, mosaici, ceramiche, pitture: un esempio di arte nell’arte. In qualche modo, quindi, questo genere pittorico costruisce da sempre
Come abbiamo visto in precedenza, la nascita di generi, così come viene fissandosi all’inizio del XVII secolo, segue precise regole metapittoriche. Vale a dire, la nicchia per la natura morta, la finestra per il paesaggio, la porta per la veduta di interni. E rimanendo nelle nature morte del passato, la maggior parte di esse si presenta come rispettosa del proprio genere.
Nelle numerose opere esposte in questa mostra, tuttavia, si può osservare come sia presente un vero e proprio gioco tra generi. In particolare, in misura più consistente si propone il gioco fra due generi che si strutturano su figure metapittoriche diametralmente opposte: la natura morta e il paesaggio. Perché se la nicchia è il tratto maggiormente responsabile dell’aggetto e dell’automizzazione del genere natura morta, la finestra lo sarà per il paesaggio, dove assolve alla funzione di creazione di profondità. E dunque paesaggio e natura morta quando copresenti su un’unica superficie coniugano insieme gli opposti creando soluzioni quantomeno originali. Filippo De Pisis (1929) ambienta la sua natura morta addirittura in un paesaggio marino. Mentre Giorgio De Chirico, in Frutta con sfondo di paese (1955-56), colloca sul davanzale di una finestra frutti di vario tipo (grappoli d’uva, limoni, mele, cocomero), sparsi e all’interno di una canestra, che senza soluzione di continuità e contemplando di un gioco di rime sia plastiche sia cromatiche si “trasformano”, quasi come in un processo di metamorfosi, dapprima nelle colline della fascia intermedia e successivamente nelle morbide nuvole dello sfondo. Unico elemento di separazione/congiunzione fra la natura morta e il paesaggio, una tenda12 che nella parte destra è trattenuta a formare un rigonfiamento verso il basso esattamente sopra il canestro e a sinistra, invece, ne compare solo un minuscolo lembo. Tenda che così diventa il “simulacro” della finestra.
In Renato Guttuso Donna alla finestra (1942), il primo piano è occupato da un tavolo in scorcio con tappeto rosso che fuoriesce dai bordi del quadro entrando nello spazio dell’osservatore, dove sono collocati i canonici oggetti della natura morta (bottiglie, libri, fogli e un bucranio di profilo), mentre sullo sfondo una figura femminile di spalle si affaccia alla finestra, dalla quale si vede un paesaggio urbano, fatto esclusivamente di edifici. La rima rossa che si instaura fra il panno sul tavolo e la maglia della donna, è responsabile dell’effettiva iscrizione dello spettatore, allertato sia dalla contiguità spaziale sia dalla donna come suo delegato nel testo.
Jannis Kounellis, in Senza titolo (1993), propone, invece, una finestra con inferriata e telaio aldilà della quale si vede un giardino con vegetazione invernale. Sul davanzale della finestra uno stipetto con appoggiati cinque bicchieri di cristallo colorato. Oltre la finestra la luce diurna, al di qua della finestra, nello spazio dell’osservatore, l’ombra che lo avvolge.
In Louis Marcoussis, Les poissons bleus (1928), il primo piano è occupato da tavolo tondo in visione rialzata, con sullo sfondo una finestra, che permette la veduta di uno spaccato paesaggistico marino.
In André Masson, Chateau de cartes (1924), il gioco è ancora più sottile, perché il bicchiere e il castello di carte sono “incorniciati” dallo stipite della finestra, o sono entro una nicchia?. Sul possibile davanzale o piano della nicchia, che l’inquadratura non permette di vedere, bicchiere in visione zenitale a destra e a sinistra la firma del pittore: rima di superficie, la scrittura, su superficie, quella del quadro.
In Still-life di Alice Neel (1945), una forma morbida e scura fa da cornice nella cornice alla scena rappresentata, simulando una finestra da cui si vede un tramonto sul mare, mentre in piano ci sono alcuni oggetti, con evidenti ombre per nulla coerenti con la fonte di luce dello sfondo13.
Paul Gauguin, in Tournesols sur un fauteil (1901), nel settore destro del quadro raffigura una superficie incorniciata con una scena di mare, lasciando il campo all’ambiguità: finestra o quadro?
Sempre nell’ottica di dialogo con altri generi, due sono gli esempi che propongono la combinazione fra natura morta e ritratto o autoritratto: Salvo, Autoritratto con natura morta, dal ritratto del dr. Gachet di Van Gogh (1973) e Natalja Gonciarova, Natura morta con ritratto e lenzuolo bianco (1908-9).
La natura morta, insomma, nel suo dialogo intertestuale con altri generi si delinea come una scommessa sulla pittura a venire, ma anche sulle altre arti possibili.
Allargando il campo ad altre forme espressive, in particolare alla letteratura e almeno in un caso specifico come quello del Nouveau roman di Perec, la natura morta letteraria si articola seguendo dinamiche pressoché simili a quelle proprie della pittura. In primis, gli oggetti nella loro “nicchia” e poi la fonte di luce, artificiale e proveniente da sinistra:

La scrivania su cui scrivo è un vecchio tavolo da gioielliere in legno massiccio, munita di quattro grandi cassetti, e il cui piano di lavoro, leggermente abbassato rispetto ai bordi, forse per impedire che le perle un tempo dispostevi rischiassero di cadere per terra, è ricoperto da un telo nero di tessitura estremamente fitta. È illuminato da una lampada snodata di metallo blu, con l’abat-jour conico, fissato con una specie di morsetto a uno degli scaffali sistemati nello spessore del muro, a sinistra e un po’ più in là del tavolo.
Segue una dettagliatissima descrizione di oggetti che occupano e “aggettano” dal “telo nero” in quanto di colore chiaro, o di materiale “luminoso”, o riflettenti, che dunque grazie alle loro particolarità luministiche e chiare “aggettano” dallo sfondo nero:

All’estrema destra del tavolo si trovano due portaoggetti rettangolari, di vetro spesso, disposti uno accanto all’altro. Il primo contiene una gomma biancastra […], un tagliaunghie d’acciaio lucido, una bustina di fiammiferi che presenta un disegno alla Vasarely su fondo giallo […], un pesce d’ottone dagli occhi di vetro, […] tre medaglie poste di faccia […], una pinzetta per depilazioni, una gomma biancastra, un piccolo apribottiglie d’acciaio con manico in madreperla
Per poi proseguire con un vero e proprio effetto di “riflessione speculare”, con codici letterari, però:

In primo piano, spiccando nettamente sul panno nero del tavolo, si trova un foglio di carta a quadretti, di formato 21 x 29,7, quasi interamente coperto da una scrittura esageratamente fitta, sul quale si può leggere: la scrivania su cui scrivo è un vecchio tavolo da gioielliere in legno massiccio, munita di quattro grandi cassetti, e il cui piano di lavoro, leggermente abbassato rispetto ai bordi, forse per impedire che le perle un tempo dispostevi rischiassero di cadere per terra, è ricoperto da un telo nero di tessitura estremamente fitta.
È, cioè, l’equivalente di quelle superfici riflettenti proprie delle nature morte seicentesche, che favorivano l’iscrizione “dell’autore testualizzato”, o più precisamente della riflessione di ciò che l’osservatore vede sulla tela con l’aggiunta dell’artista intendo al cavaletto a dipingere quella scena di oggetti che si vede già dipinta, ma non mentre il pittore la sta dipingendo. Solo che in Perec lo specchio è la carta che “riflette” ciò che sta descrivendo, nella forma letteraria della descrizione, che per essere tale, deve annullare qualunque forma di soggettività.
Film Tutte le mattine del mondo 1992 (?) Costellato di nature morte di Bughin (?) e ambientato prevalentemente in notturno.
Scarrino Vanitas musicali.


Note

  1. La prima presenza di questa espressione compare per la prima nel 1750, nella Lettre sur la peinture à un amateur, di Baillet de Saint Julien (Faré 1975, 268). torna al rimando a questa nota
  2. “En la saison des fruits vous remplirez des plats de faïence et mettrez soubs les fruits des feuilles de vigne si vous le trouvez bon […]. Vous placerez les plats plains de fruits de la hauteur se votre œil environ un pied plus bas, et alors vous pourtrairez les fruits le plus pres du naturel”, citato in Heck, 1998, 61. torna al rimando a questa nota
  3. Il Coretto sulla parete dell’arco di trionfo della cappella degli Scrovegni, che Giotto affrescò nel 1302 e la Nicchia con patena, pisside e ampolle con una mensola intermedia del 1337-38. torna al rimando a questa nota
  4. Esempi per eccellenza della nicchia sono i bodegones, dei primi anni del Seicento, di Sánchez Cotán, nei quali qualche frutto o qualche verdura o della cacciagione viene sistemata nel vano di una nicchia rettangolare, cfr. Stoichita 1993, 41 e sgg. torna al rimando a questa nota
  5. Jean Brueghel, in una lettera del 16 aprile 1606, inviata al cardinal Borromeo, nella quale racconta di una natura morta di fiori, precisamente il Bouquet di fiori (1606), oggi conservato alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano, scrive che i fiori devono essere “grandi come nella natura”, cit. in Heck, 1998, 61. torna al rimando a questa nota
  6. E forse quel cane sullo sfondo che guarda fisso sul tavolo è lì a segnalare che la riflessione è variabile al variare del punto di vista e che dunque quella che lui vede non è uguale a quella dello spettatore. torna al rimando a questa nota
  7. Effetti di riflessione, ma meno definita, sono proposti anche da Filippo De Pisis, Natura morta in grigio con caffettiera (1929). torna al rimando a questa nota
  8. Del II secolo d. C. è conosciuto grazie a una copia romana, conservata a Roma, Vaticano, Museo Profano Gregoriano. torna al rimando a questa nota
  9. Citare esempi. torna al rimando a questa nota
  10. È la fine della contenuta profondità della nicchia, in nome di un funto di fuga che è nell’occhio dello spettatore. torna al rimando a questa nota
  11. “Vous petites femmes qui devenez grosses, ne regardez pas le fruit peint qui paraît ressembler à la vie. Afin que votre œil insensé ne tourmente pas votre cœer, et que ne naisse de cela une idée pour le fœtus. Parce que la vision de cet art doit rapidement toucher le désir de l’âme”, da Cornelis de Bie, Het Gulden Cabinet, Anversa 1662, cit. in Heck, 1998, 60. torna al rimando a questa nota
  12. Anche la tenda è una figura metapittorica, perché quando rappresentata nel quadro e in una qualche relazione con la cornice, funziona alla stregua di un avvertimento rivolto all’osservatore, il quale non si trova davanti a un quadro, ma “davanti alla rappresentazione di un quadro” (Stoichita 1993, 70). torna al rimando a questa nota
  13. Altri esempi in mostra sono: Chaim Soutine, Bouquet de fleurs dans un vase sur un balcon (1916), natura morta esposta su un balcone, oltre la ringhiera si vede un frammento di giardino. Henri Matisse, Anémones dans un vase de terre (1924), che lascia presupporre un paesaggio presupposto, in quanto sulla sinistra, in scorcio, si vede una finestra; Adolf Dietrich, Vase mit blauen Enzianem (1948), nel quale la dimensione paesaggio viene relegata nel cielo. torna al rimando a questa nota

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