Una storia tendenziosa


Da: La svolta semiotica, Laterza, Roma-Bari, 1998, pp. 3-18.


Vorrei cominciare con una storia tendenziosa o, per meglio dire, con un abbozzo storiografico che – a partire da quella che presumo sia una svolta – intende ricostruire l’affermazione e la diffusione della semiotica. Sul segno si è sempre riflettuto, in tutte le epoche e in tutte le culture: Aristotele in Grecia, Panini in India, qualcun altro ancora nel Seicento e così via. Ma questo non è un problema. Quel che mi interessa è invece ricostruire l’affermazione della semiotica come disciplina, ossia come piano di consistenza teorica che assume un certo numero di enunciati in un’epoca precisa. Ora, possiamo datare una tale affermazione della semiotica come disciplina autonoma agli inizi degli anni Sessanta, ossia, molto semplicemente, non più di una generazione fa.
La semiotica che da quel periodo in poi è stata praticata può essere riassunta in due fondamentali caratteristiche, ognuna delle quali può essere a sua volta indicata attraverso il nome di uno studioso – fermo restando che né tali nomi esauriscono la ricerca semiotica dell’epoca né la semiotica dell’epoca esaurisce la loro personalità intellettuale.

Semiologia e tradizione umanistica

Riassumerò la prima caratteristica attraverso il nome di Roland Barthes. Barthes praticava una semiologia (non ancora una vera e propria semiotica) come critica delle connotazioni ideologichepresenti in un modo o nell’altro in quell’iper-sistema di segni che è, a suo avviso, la lingua. La semiologia deriva secondo Barthes dall’idea che esistono diversi sistemi di segni all’interno di culture date. Questi segni non vanno studiati separatamente, ognuno preso di per sé, ma in quanto regimi di significazione, ossia in quanto elementi presenti entro sistemi semiotici organizzati e autosufficienti. Il problema sta nel fatto che – per Barthes – questi sistemi di significazione sono tutti comprensibili e traducibili in quel supremo, estremo sistema di segni che è la lingua. La lingua naturale è intesa come un sistema di segni che, se da un lato è come tutti gli altri, significa come un comportamento gestuale o una sinfonia musicale, da un altro lato possiede una caratteristica fondamentale: quella di aver specializzato una parte di se stessa sino al punto da poter parlare – attraverso elementi o regole particolari – dei sistemi di segni. A differenza di altri sistemi (visivo, gestuale, musicale, spaziale etc.), la lingua gode della possibilità di nominare se stessa e gli altri segni della cultura.
C’è insomma in Barthes un’irreversibilità tale per cui si può dire che, alla fine, la semiotica è una sorta di trans-linguistica, ossia una linguistica capace di parlare, oltre che della lingua, di tutti i sistemi di segni. Semplifico, ma grosso modo è così.
Da qui l’idea che, ritrovando segni diversi nascosti dentro o attraverso la lingua, la semiologia diventa una critica delle connotazioni ideologiche, uno svelamento dei segni dell’ideologia sociale. Ho l’impressione che la maggior parte di noi, oggi, abbia dimenticato chi era Barthes prima di essere un semiologo: negli anni Cinquanta Barthes è un critico teatrale, il quale ha avuto il merito della diffusione e della difesa dell’opera di Berthold Brecht in Francia. Se si ricorda questo dato biografico (e teorico), si capisce benissimo che cosa significa praticare la semiologia come critica delle connotazioni ideologiche. Barthes è innanzitutto un brechtiano, e come tale pensa alla possibilità che la semiologia sia una disciplina capace – con la sua organizzazione concettuale – di distruggere, dissipare, decostruire (se volete usare un termine di oggi) quell’insieme di connotazioni culturali, sociali e ideologiche che la borghesia ha calato sulla lingua. L’idea è quella di decostruire queste connotazioni ideologiche – che hanno un carattere sistematico – e di liberare un grado zero della lingua, una forma bianca della lingua, una forma che evidentemente è legata, in quel periodo, al progetto di una società libera, senza ideologia, senza classi.
Se non ricordiamo questo, se non rileviamo queste due connessioni, non capiremo né il successo della semiotica – immeritato forse, ma certamente fondamentale all’epoca – né i suoi limiti futuri. Oggi, per esempio, potremo essere d’accordo nel sostenere che la critica della dimensione ideologica della società ha perso un po’ d’attualità: la parola ideologia non viene neanche più pronunciata.
La diffusione della semiologia barthesiana deriva proprio dall’essere stata una sintesi tra la dimensione critica brechtiana e l’idea della predominanza del linguaggio verbale su tutti gli altri sistemi semiologici. Allora, il problema teorico fondamentale era la trans-linguistica. Era del resto anche il periodo del cosiddetto linguistic turn, ossia di quel tentativo filosofico – portato avanti nei paesi anglosassoni – di porre il linguaggio al centro della problematica umana e sociale. In un modo come nell’altro, questo gran privilegio accordato al linguaggio si basava su una dimensione teorica ragionevole. L’idea era quella che, per studiare l’uomo, occorreva analizzare quanto meno il suo linguaggio, ossia tutto ciò che accade quando esso comunica e si intende con i suoi simili. Era un modo sicuro per evitare di pensare l’uomo come una cosa o come un soggetto separato (al modo del positivismo), analizzando invece la dimensione umana e sociale attraverso la maniera con la quale gli uomini stessi si rappresentano e comunicano tra loro.
Si comprende bene, a distanza di alcuni decenni, la ragione del successo di questa semiologia linguisticizzante e del linguistic turn. Essi, in fondo, rispondevano alla profonda aspirazione della nostra cultura umanistica verso le cosiddette arti liberali. La nostra vecchia cultura umanistica è un insieme di saperi fondato sulle arti liberali – grammatica, retorica, filosofia etc. -, un insieme di saperi in cui il linguaggio verbale mantiene una posizione di assoluto privilegio, in quanto luogo unico di espressione dell’umanità e di manifestazione della civiltà. L’ermeneutica, oggi, non è altro che il prosieguo di questa tradizione umanistica che pone la verbalità al centro della socialità (e che io considero perfettamente polverosa, assolutamente sorpassata dalla condizione epistemologica contemporanea).
Una semiologia intesa come trans-linguistica – ricollegandosi idealmente a questa tradizione umanistica – non poteva che avere successo. Ma sta qui, a mio avviso, anche la ragione della sua fine. Inserendosi in una scia culturale che, forse, non gli apparteneva di diritto, lo studio della significazione si è dissolto nel generale umanesimo che dominava la cultura degli anni Sessanta, finendo per scomparire con esso. La capacità di rottura epistemologica insita nella questione della costruzione del senso, filtrata dalla vecchia cultura umanistica – grammatica, retorica, filosofia etc. -, ha raggiunto così il pieno successo solo nel momento in cui ha tradito il suo scopo precipuo e originario. Perché studiare la semiotica, quando questa non è altro che una trans-linguistica, ovvero una domanda di sapere già presente nella vecchia tradizione umanistica? perché fondare una teoria del discorso quando questa è già insita, per esempio, nell’antica retorica? Basta riprendere gli studi umanistici sul linguaggio – come si è finito per fare – e la semiotica è nello stesso tempo fondata e rinnegata, diffusa e dissolta.
Il caso più evidente di questa diffusione e dissoluzione della semiologia barthesiana nella tradizione umanistica è quello legato alla ripresa della retorica antica. Il recupero della retorica provoca quello che considero un perfetto esempio di babele infelice. L’accumulazione delle figure retoriche – quale viene fatta per esempio nei grandi manuali di un Lausberg o di un Perelman – è molto chiaramente un tentativo di mettere insieme, in una prospettiva teorica in linea di principio unitaria, definizioni coniate e problemi discussi all’interno di teorie, filosofie, epistemologie profondamente diverse fra loro. Le figure retoriche proposte nel corso di due millenni rispondono a definizioni del linguaggio completamente diverse. Pensate al fatto, per esempio, che Fontanier – un grande teorico della retorica classica – considerava all’interno della sua teoria le figure di passione: l’imprecazione, la deplorazione etc. A un certo punto, però, le figure di passione scomparvero dalla dottrina retorica, per la semplice ragione che non si considerava più pertinente la problematica della passionalità. Quindi, un certo tipo di teoria del funzionamento linguistico e concettuale (la retorica) è variato in funzione del tipo di prese di posizione sul linguaggio: e ne sono venute fuori tipologie di figure retoriche molto differenti fra loro.
Mettere insieme – come hanno fatto molte neo-retoriche semiologizzanti – le figure del discorso definite a partire da teorie del linguaggio molto diverse ha finito per implicare la produzione di enormi “centoni” di cose tra loro incongrue, incomparabili, incommensurabili. Così, il rientro della retorica ha contribuito a un particolare stile di confusione, perché ha fatto apparire come compossibile una congerie di elementi che prendevano le mosse teoriche da diversi tipi di classificazione e di orientamento del fenomeno del significato discorsivo.

Il paradigma semiotico

Nello stesso momento in cui – come si è appena detto – la semiologia di stampo barthesiano si dissolveva nelle diverse arti liberali, un altro tipo di semiotica andava invece consolidandosi in un preciso paradigma di ricerca. Porrei questo paradigma semiotico sotto il nome di Umberto Eco. Lo specifico del paradigma di ricerca semiotica consolidatosi attraverso la figura di Eco è quello di porsi, in maniera radicale, contro l’eredità saussuriana, ossia contro tutto ciò che per Barthes e per altri rappresentava il momento di rottura che all’inizio del secolo (diciamo tra Bréal e Saussure) costituiva la formazione di una disciplina scientifica qual è la semiotica. Eco valorizza una diversa tradizione (del resto già implicata nel progetto semiotico): quella inaugurata da Charles Sanders Peirce.
La semiotica di Peirce parte dall’idea di non valorizzare in modo particolare il linguaggio. Per Peirce la teoria del segno era una semiotica, ossia uno studio di tutti i tipi di segni, non soltanto una semiologia, ossia uno studio dei segni a partire dal linguaggio verbale e umano. Ma si potrebbe forse convertire l’ipotesi, dicendo che Peirce non aveva affatto un’idea chiara di che cosa sia il linguaggio; Peirce era un filosofo con una formazione linguistica del tutto insoddisfacente; ma era però un grande epistemologo, forse uno dei più grandi epistemologi del nostro tempo.
Così, il nucleo della posizione radicale di Eco è quello di escludere una semiologia di tipo barthesiano e di risalire – al di là della rottura epistemologica saussuriana – all’idea che c’è una storia del segno, una storia della nozione di rinvio segnico che non ha bisogno di definirsi a partire dall’apertura del paradigma teorico della semiotica, ma che risale per filosofiche vie sino all’inizio della nostra cultura. Al primo dischiudersi del pensiero greco, ecco emergere tutta una riflessione sul sema, sul semeion, sul nous, ossia un pensiero sul segno che appare come costitutivo della filosofia stessa.
Ma come si assesta questo paradigma della semiotica (rispetto al quale in seguito viene fatta la svolta)? Lo semplifico ancora una volta con alcuni tratti, evidentemente caricaturali. Come si sa, uno dei modi di produrre delle caricature è quello di rinforzare un solo tratto del modello che si vuol caricaturizzare, lasciando in secondo piano gli altri. Si prende una caratteristica del viso, per esempio la fronte, e la si gonfia a dismisura; nello stesso tempo si riducono la bocca, le orecchie etc.: nasce così la caricatura. Quindi la caricatura è l’ingrossamento di un qualche tratto fisiognomico. Ma si tratta di una operazione inevitabile: ogni modo di riprodurre un viso – notava Wittgenstein con finezza – è in qualche modo una caricatura.
Se è così, quale inevitabile caricatura possiamo dare delle strategie costitutive del paradigma semiotico? La prima strategia messa in campo da Eco è quella di una classificazione a priori dei segni, linguistici e no. Come in Peirce c’è una gigantesca catalogazione di segni e una grandiosa tipologia delle possibili combinazioni dei segni fra loro, quindi una morfologia e una gerarchia dei segni molto complesse, allo stesso modo questo tipo di semiotica portata avanti da Eco si pone come una teoria di tipo tassonomico. Essa in primo luogo classifica i vari tipi di segni, e in secondo luogo studia i modi con cui si passa da un segno all’altro. Accanto alla componente classificatoria c’è quindi una componente sintattica, che si occupa di movimenti e di azioni.
Ma come si costituisce la sintassi tra i segni? Nel caso di Eco, rappresentante del paradigma semiotico, questo tipo di movimento che si introduce all’interno della materia segnica è definito dalla stessa idea del segno: il segno è un rinvio; il segno è presente quando qualcosa sta al posto di qualcos’altro. Ma come si costituisce questo rinvio? L’idea di Eco – e in generale del paradigma – è che questo rinvio si può spiegare in maniera chiara e leggibile secondo il vecchio modello dell’inferenza logica. L’inferenza è il modo di mettere in moto la macchina dei segni. Si passa da un segno all’altro attraverso dei tipi di inferenze che sono – secondo il modello aristotelico – l’induzione, la deduzione e l’abduzione. Per passare da un segno all’altro, noi non faremmo dunque altro che usare delle strategie di tipo sillogistico e inferenziale. Il passaggio fra segni è in tal modo, non dico ridotto, ma certamente focalizzato in questa direzione.
Una seconda strategia, più o meno esplicita, atta a costituire il paradigma semiotico è quella riguardante il quadro dentro cui avvengono queste inferenze, questi movimenti da segno a segno. Tale quadro è di tipo eminentemente testuale. Così, dopo un momento di interesse più o meno grande per i segni architettonici, visivi, cinematografici, gestuali e così via, molto rapidamente si è tornati al testo. E il testo a cui si pensa, guarda caso, è ancora una volta di tipo eminentemente scritto, forse talvolta parlato, in ogni caso soltanto linguistico. Così, surrettiziamente, dopo aver affermato l’importanza teorica della non linguisticità, il testo è diventato di nuovo il modello di tutti i funzionamenti semiotici, sia esso un testo letterario (ossia di cultura relativamente alta) o un testo dei mass media (ossia di cultura cosiddetta bassa). Si è tornati così a una riflessione di tipo linguistico.
Corona l’insieme di queste strategie teoriche l’idea – ricordata prima – di una storia del segno, di una storiografia cioè che si preoccupi di ricostruire i modi con cui la filosofia, soprattutto la grande filosofia, ha pensato e ripensato la problematica del segno. Si tratta in tal modo, innanzitutto, di una scelta di tipo strategico e universitario: quella di cercare di ricostruire a una disciplina giovane qual è la semiotica un possibile pedigree intellettuale. Ma questo è un problema di storia delle scienze, storia obiettiva, che probabilmente possiamo accantonare.
In secondo luogo, però, la proposta di una storia della semiotica rende conto di una scelta intellettualmente pertinente, per certi versi fondamentale. È l’idea che la storia del modo con cui è stato trattato il segno sia una maniera di mostrare come si è giunti oggi a una certa immagine del segno. È un problema classico di storia, che pone però dei problemi molto delicati e complessi, non foss’altro perché conduce talvolta a situazioni francamente imbarazzanti.
Ne ricordo qui soltanto due. Potete scoprire, studiando il De civitate dei, che Agostino di Ippona utilizzava una semantica a istruzioni. Ora, che – come Monsieur Jourdan, che faceva la prosa senza saperlo – anche Agostino facesse senza saperlo una semantica a istruzioni deriva dal fatto che oggi noi abbiamo un’idea della semantica a istruzioni. Di conseguenza, abbiamo ricostruito dentro il pensiero agostiniano l’esistenza di una potenziale semantica a istruzioni. Però, quando poi si fa a vedere come Agostino analizza una frase (poniamo, di sette o otto parole) ci accorgiamo che il filosofo sostiene che essa è composta di sette o otto segni. Ed è imbarazzante: Agostino chiama segni, senza nessun problema e senza differenziarli, una congiunzione, un verbo, un nome, un articolo etc, ma anche l’insieme della frase stessa.
Questo pone un problema molto delicato, come vedete: è il problema della possibilità di una ricostruzione storica coerente di tutto un passato, quando ci si rende conto che in questo passato si è usato il termine segno per indicare cose molto diverse fra loro. E nessuno studioso delle scienze fisiche accetterebbe l’idea che, siccome Democrito e Bohr hanno chiamato atomo una certa cosa, in ogni caso sia possibile confrontare l’atomo di Democrito con quello di Bohr. Entrambi parlavano di atomo, ma non pensavano alla stessa cosa. Il problema della storia del segno è dunque un problema di coerenza e di ricostruzione di volta in volta molto delicata.
Lasciatemi dare un secondo esempio, molto preciso e molto banale nello stesso tempo. Recentemente Eco ha scritto un libro importante e interessantissimo per la nostra cultura (che resta come tale interessante nonostante l’osservazione che vorrei fare ora), che parla della costituzione della lingue perfette nella cultura europea. Nella ricostruzione delle lingue perfette, nella cultura occidentale, il libro è di un’assoluta, perfetta ed impeccabile documentazione. Ma a un certo punto nasce un problema curioso. In due capitoli trovate unificati – come l’atomo di cui parlavo prima – Raimondo Lullo e l’esperanto. Domandatevi ora se, per un semiologo che analizzi i sistemi di segni e di linguaggio, si tratta effettivamente della stessa cosa.
Nel caso di Raimondo Lullo, si tentava di riorganizzare la semantica, cioè l’organizzazione dei contenuti di una lingua data. Questa organizzazione trattava nozioni non ancora linguisticizzate, ossia concetti che potevano essere espressi in italiano, inglese, francese, arabo, ebraico e così via. Si trattava di rappresentazioni concettuali che potevano anche essere disegnate su carta. Il problema di Lullo era dunque quello di strutturare una forma del contenuto, un’organizzazione concettuale indipendente della forma dell’espressione dentro cui essa fosse stata versata.
Al contrario, l’esperanto non tenta affatto di organizzare il contenuto di una lingua; esso lavora semmai sulla riorganizzazione della sua forma espressiva, a prescindere dal sistema di concetti, dalla forma del contenuto che questa lingua poi veicola. L’esperanto tenta di produrre parole diverse che siano capaci di organizzare dei contenuti qualsiasi su cui non interviene.
Così, entrambi gli sforzi – quello di Lullo e quello dell’esperanto – sono progetti di lingue perfette. Solo che il primo tenta di costruire, non un linguaggio, ma una forma di contenuti concettuali che è trasmissibile in tutte le lingue che si vorranno, ivi comprese lingue non linguistiche (si può fare un balletto con Raimondo Lullo; si possono fare pitture con Raimondo Lullo; si può fare un film con Raimondo Lullo…). Mentre dall’altra parte si tratta di una riorganizzazione di una diversa forma espressiva fondata sulla sostanza fonetica.
Vedete che si tratta di due cose fondamentalmente diverse. Si potrebbero allora scrivere due storie delle lingue perfette: da una parte una storia delle lingue che vanno verso una riorganizzazione semantica delle loro strutture interne; dall’altra una storia delle lingue che puntano a una riorganizzazione delle loro forme espressive. In questo modo, la cosa comincia a diventare interessante, ed è proprio su questo che vorrei tentare di condurvi.

L’immagine del lessico

Quali sono i risultati della restrizione storiografica che ho accennato sin qui? Credo che valga la pena di cominciare a esaminarli da vicino, punto per punto, per potersi orientare.
Il primo risultato riguarda certamente la nozione di segno. Ho il sospetto che questa nozione sia più che altro un ostacolo di tipo epistemologico per la semiotica. La mia impressione è infatti che, nella maggior parte dei casi, quando si pensa al segno – a meno di non affrontare in maniera rigorosa il problema della differenza fra i vari linguaggi – si ha in mente qualcosa sostanzialmente placcata sul sistema del lessico. Tutte le volte che si dice segno si pensa a una parola; e la semiotica, da questo punto di vista, ridiventa rapidamente una semiologia, nel senso più deteriore di una lessicologia. I segni di una cultura diventano in qualche modo le parole o gli equivalenti delle parole di una cultura.
Ora, così come nessun linguista accetterebbe l’idea che il linguaggio è fatto di parole, credo che nessun semiologo dovrebbe accettare l’idea che i sistemi di significazione sono fatti di segni. La semiotica, come la linguistica, dovrebbe semmai interessarsi al modo in cui attraverso una certa forma sonora (o altrimenti significante) noi produciamo sistemi e processi di significazione, ossia siamo in grado di significare mediante un certo tipo di organizzazione (fonetica, iconica, gestuale, etc.). Il che porta a modelli esplicativi che non hanno nulla a che vedere con sommatorie di parole. La lingua non è una somma di parole, e un sistema di significazione, a sua volta, non è un insieme di segni.
Purtroppo, a me pare che, gradualmente, ogni volta che si sente parlare di semiotica, costantemente si scivoli verso questa idea della sommatoria: i segni vengono considerati come facenti parte di un dizionario di elementi precostituiti, esattamente nella stessa maniera in cui – alcune persone ormai lo dicono in maniera esplicita – un immaginario sarebbe un dizionario di immagini, un insieme di segni iconici dati, utilizzabili alla bisogna. Si pensi agli studiosi, certamente non molto avvertiti, che cercano di studiare i gesti (per esempio Desmond Morris): questi studiosi tentano disperatamente di costruire una vera e propria lessicologia gestuale, in cui cioè ogni singolo gesto viene dotato, come in un’entrata lessicografica, di un proprio specifico significato.
Così, gradualmente, insensibilmente la semiotica ridiventa una semiologia, ossia uno studio della significazione che, non solo pensa alla primarietà del linguaggio verbale rispetto agli altri sistemi semiotici, ma soprattutto immagina il linguaggio verbale mediante un modello teorico di tipo lessicale. Barthes non credeva a questa ipotesi: aveva ben presente che i segni sono soltanto punti di intersezione di complessi sistemi soggiacenti. È insomma necessario superare questo ostacolo epistemologico della nozione di segno, perché non rende conto della complessità della lingua.
Ricordate la vecchia barzelletta dello scrittore:

“Cosa stai facendo?”, gli chiedono.
“Sto scrivendo un libro”, risponde.
“Sei avanti?”, gli chiedono ancora.
“Molto avanti – replica -. Ho già tutte le parole, mi basta soltanto metterle insieme”.

Ecco lo spazio colossale che c’è tra il padroneggiare un lessico e lo scrivere un libro. La semiotica che continua a ragionare per segni è ferma al primo momento.

Codici e decostruzionismo

A questo ostacolo epistemologico della nozione di segno è strettamente legata l’immagine che si ha di ciò che mette in relazione i segni fra loro, ovvero dell’equivalente semiotico della grammatica linguistica. L’organizzazione della grammatica semiotica è stata trasposta grazie al modello informazionale sotto l’idea di un codice. Così, all’idea di un segno pensato come semplice entrata lessicale viene associata quella di una grammaticalità immaginata come codificazione aprioristica. Se ci sono segni e comunicazione, è perché c’è un codice sottostante che ne regola i funzionamenti, le possibilità e i limiti.
Questa immagine del codice come sistema di elementi minimi e di regole di funzionamento ha avuto un grande successo nella semiotica degli anni Sessanta, e ancor oggi viene da molte persone considerata pertinente per la descrizione dei vari linguaggi, verbali e no. Al punto che, nei “sovversivi” anni Settanta, la nozione di codice è stata intesa come una specie di imposizione dall’alto che a tutti i costi occorreva distruggere. L’idea della decostruzione nasce proprio da una presa sul serio, e da una conseguente radicalizzazione, della nozione semiotica di codice. Si è pensato che per decodificare fosse necessario decostruire, ossia rompere le catene di un’imposizione esterna e arbitraria e ritrovare di conseguenza lo spazio di una libera interpretazione. Decodificare non era pensato come un’operazione legata al comprendere: era pensato proprio come un’azione, politicamente necessaria, di rottura dei codici, come un distruggere la codificazione per poterla affrancare da non meglio identificati, subdoli nemici.
Così, una visione semplicistica della significazione ha portato alla costituzione di una schiera di detrattori della semiotica. E la semiotica stessa – andando alla ricerca di sicuri punti di riferimento per costruire e indicare il significato (appunto, nel concetto di codice) – s’è trovata in una contraddizione molto forte con se stessa. L’affermazione iniziale di Eco, come sappiamo, era infatti quella dell’opera aperta; cioè, in qualche modo, Eco proponeva l’idea – per Peirce fondamentale – secondo la quale, nella babele dei segni, ogni segno può rinviare a un altro segno pressoché all’infinito. È accaduto così che, di fronte all’impennata della nozione semiotica di codice, negli anni Settanta (ma soprattutto negli anni Ottanta) siano stati i fautori del decostruzionismo a riprendere l’idea dell’opera aperta, citando anche Peirce, senza però riferirvisi assolutamente in modo corretto: e sono andati dicendo che su ogni testo si può fare esattamente questo lavoro, si può cioè mettere tutto in contatto con tutto.
Esagero, i decostruzionisti non sono certamente così brutali; sono così, però, nella caricatura che ne ha costruito, a quel punto, Eco per difendersi e mettersi a una buona distanza da loro. Con una formula esemplare, Eco disse a quel punto: “Bisogna introdurre delle sbarre di grafite dentro la centrale nucleare”: se effettivamente tutti i segni sono rinviati ad altri segni possibili, non c’è più nessuna possibilità di controllo. E se non c’è più nessuna possibilità di controllo, siamo davvero in una società babelica, anzi addirittura post-babelica.
Da qui l’idea difensiva: che cosa si può introdurre di codificato nel linguaggio per evitare il rischio di questa gigantesca esplosione nucleare? Delle sbarre di grafite, ossia – fuor di metafora – dei criteri che individuino la necessaria separazione tra le spiegazioni aberranti e le corrette interpretazioni. Ci vuole, ha iniziato a sostenere Eco, un’interpretazione del testo, la quale però è tanto più corretta quanto più accetta il presupposto che alcune cose non possono essere dette. Da qui la necessità di reintrodurre una tradizionale dimensione della razionalità all’interno del linguaggio, la quale controlla la fuga irresistibile dei segni che rinviano incessantemente ad altri segni. Come dire, ci sono persone serie e normali se e solo se ci sono anche dei matti e dei paranoici, i quali hanno come attività fondamentale quella di rinviare un segno a un altro segno.

Pars costruens

Ho l’impressione che così non possiamo più uscirne. Credo quindi che sia assolutamente necessario ripensare l’insieme dei problemi legati al significato, al testo e al codice e soprattutto al segno. E faccio subito una proposta: i segni non sono percepibili come tali, né attraverso un lessico (assegnazione aprioristica del significato, possibile anche in lingua largamente ambigua) né attraverso un’enciclopedia (ricostruzione della significazione con criteri di tipo culturale). Il problema che invece la semiotica deve studiare è quello dei sistemi e dei processi di significazione. In questa prospettiva, non si tratta di liberarsi tout court della nozione di segno, ma di pensare che i segni sono strategie come altre, i lessemi sono strategie semiotiche come tante altre, necessarie per utilizzare la lingua, per far funzionare il senso, per articolare la significazione.
Si tratta insomma di opporre ai programmi di ricerca sin qui descritti un altro tipo di organizzazione concettuale che va sotto il nome di glossematica. Louis Hjelmslev, che della glossematica è uno dei fondatori, sosteneva un’idea molto precisa: non ci fidiamo dei segni; i segni sono soltanto eventi storicamente determinati e variabili in funzione della storia differente in cui si trovano a essere coinvolti. Tentiamo semmai di dividere il significato della lingua (o meglio: il senso che in essa circola) in unità elementari, esattamente come siamo in grado di costruire il suono concreto di una lingua mediante la messa in relazione delle sue unità elementari (i tratti fonemici). Vedremo così come la diversa combinazione di queste unità elementari (o sememi) produce eventi di senso diversi, ossia differenti unità del significato, rese pertinenti dai contesti dati.
Che cosa presuppone un’analisi del genere? Presuppone un movimento ragionevole e intelligente: quello di dividere le due facce del segno in un significante e un significato, in un piano dell’espressione e un piano del contenuto. L’idea è che c’è una faccia significante e una faccia significata della lingua, facce che, per essere analizzate, occorre preliminarmente separare. Se la relazione tra significante e significato è arbitraria (ma su questo dovremo tornare: credo infatti che una delle caratteristiche della svolta semiotica è quella di non accettare il principio saussuriano dell’arbitrarietà del segno) è possibile separare le due facce del segno (significante e significato), per poter dimostrare che sono in qualche modo correlate l’una all’altra, e in qualche misura isomorfe. Senza una preventiva comparazione dei due piani del linguaggio, nessuna comparazione risulta possibile. E tale comparazione porta a un’inevitabile conclusione: espressione e contenuto sono fra loro in presupposizione reciproca (se c’è un significante, c’è un significato; se c’è un significato, c’è un significante) ma non sono per nulla coincidenti; ogni piano del linguaggio ha strutture proprie che risultano essere simili, ossia isomorfe, solo a un livello superficiale dell’analisi, non in quelli più profondi. Questa è la mossa teorica fondamentale della glossematica, che era in fondo la mossa saussuriana: una scissione all’interno del concetto di segno.
Si vede bene la differenza con l’ipotesi di Peirce, in cui ogni segno come globalità rinvia a un altro segno come globalità. In Peirce i segni si distinguono da altri segni, ma non hanno affatto una faccia significante e una faccia significata. Non sono divisi in questo modo. Dunque, l’ipotesi di Peirce risulta precedente – teoricamente più che cronologicamente – all’ipotesi saussuriana.
Cosa che non è stata avvertita subito, e che ha comportato una serie di equivoci. Un equivoco formidabile è per esempio quello che si trova nelle prime opere di Derrida. Penso al celeberrimo Della grammatologia, dove il significante veniva identificato con il percettivo, e il significato con il concettuale. In questo modo, per Derrida il problema semiotico era tanto semplice da essere già risolto: il significante è quello che colpisce l’orecchio, mentre il significato è quell’articolazione che viene prodotta al momento della ricezione. Al di fuori di ciò – secondo l’immagine derridiana della semiotica – ci sarebbe la realtà. Il referente è rinviato fuori, evacuato; la realtà sta fuori dei segni. C’è il reale, che è così com’è, articolato, disposto, insignificante, come volete. Pieno di rumore e di furore, come diceva quell’altro. Poi c’erano i segni, e i segni erano divisi in due parti: una significante, l’altra significata. Il primo toccava i sensi e il corpo; il secondo toccava i problemi complessi che sono nella mente.
Vedete benissimo che una semiotica così pensata è una semiotica che reintroduce distinzioni concettuali molto antiche come quella tra corpo e anima, materia e spirito e simili. Ma soprattutto stabilisce una stranissima idea: quella secondo cui la semiotica non si interessa di cose reali, poiché è semplicemente un lavoro sui segni; non si interessa cioè di chi si scambia i segni ma della problematica delle relazioni tra il segno e la realtà, ossia del problema della verità nel riferimento tra i segni da una parte e il referente da un’altra parte. Chi si scambia i segni, chi compie l’operazione del riferimento viene escluso da questa idea della semiotica, salvo reintrodurlo, ma in un secondo momento, attraverso la questione laterale della pragmatica. Per riprendere un titolo famoso, da un lato ci stanno le parole, dall’altro le cose.
Questa immagine della semiotica pone un problema particolarmente delicato, perché è ancora oggi viva e circolante. Oggi, se sentite una critica essenziale alla semiotica, sarà qualcosa come: “voi studiate i testi ma non vi interessate alla realtà; studiate i testi scientifici però non siete capaci di rendere conto di come si organizza un laboratorio; perché un laboratorio è fatto di parole – testi, chiacchiere, nomi etc – ma anche di macchine e di sostanze che passano da una parte all’altra” e così via.

Parole, cose, oggetti

Resta comunque l’idea che la semiotica è una disciplina vagamente idealistica – come è stato detto spesso – la quale ha a che fare con alcuni funzionamenti della rappresentazione concettuale. Per esempio: come noi ci immaginiamo che sia il mondo, come il mondo viene in qualche misura ritagliato per renderlo intelligibile. Ma il mondo – si sostiene – ha una sua radicale, esterna indipendenza, e il grande problema è di dimostrare come siano fra di loro correlati il mondo ritagliato dalla lingua e quello a essa, dunque a noi, esterno.
Per comprendere questa visione riduttiva della semiotica, occorre aver chiaro che per un certo periodo la semiotica stessa ha dichiarato di non avere a disposizione nessuna strategia di correlazione tra i segni e le cose. Essa infatti non prevedeva all’interno del suo modello teorico nessun soggetto che compisse un’operazione di riferimento; non c’era nessuno che dicesse a qualcun altro: “io chiamo questo così e così”. Semmai, si ponevano esclusivamente questioni del tipo: come mai è possibile dire che Achille è un leone, se Achille è Achille mentre il leone è quella cosa fuori dal mondo che è così e così?. E la cosa veniva risolta così: il problema non è che Achille venga identificato sia con la persona Achille sia con il leone, nel senso che quella persona è un leone; è semmai un problema di significato, un problema che riguarda la relazione tra un significante e un significato, tra due segni i quali vengono in qualche misura considerati correlabili. Ma oggi possiamo chiederci: e il leone reale? e Achille come persona? che ne facciamo di questi due? Se per la prima semiotica il problema non si poneva, poi noi, oggi, si tratta invece di una questione di grande importanza.
Cerco di spiegarmi con un esempio tratto da due filosofi, Michel Foucault e Gilles Deleuze, i quali già da tempo, e con enorme interesse, hanno cercato di mostrare l’importanza delle formazioni discorsive. Per Foucault e Deleuze, una prigione non è una “realtà” ma una vera e propria formazione discorsiva. Si potrebbe obiettare che bisogna distinguere fra la parola prigione (ossia il significante prigione che entra in relazione a certi tipi di significato variabili a seconda delle epoche) e le diverse prigioni reali, che non hanno nulla a che vedere con le formazioni discorsive. Una formazione discorsiva riguardante la prigione sarebbe insomma soltanto il modo in cui la gente si rappresenta la prigione reale. La risposta, molto interessante, data da Deleuze nel suo libro su Foucault è ben diversa. Dice: occorre mettere in relazione una forma dell’espressione, che è la prigione, e una forma del contenuto, che è la delinquenza, l’illegalità.
Nell’analisi foucaultiana di Sorvegliare e punire, secondo Deleuze, l’illegalità è intesa come una forma del contenuto e la prigione una forma dell’espressione. Per comprendere la nozione variabile di illegalità, ossia l’immagine che una certa epoca si fa della delinquenza, bisogna andare a vedere come in quell’epoca vengono costruite le prigioni reali, non i discorsi esterni sulle prigioni concrete. E si vedrà che c’è un particolare montaggio architettonico, che fa sì che le stanze siano organizzate in un certo modo, che gli spazi vengano organizzati in un altro modo, etc.; anche se oggi, per esempio, la prigione può essere soltanto un braccialetto elettronico attaccato al braccio di un uomo, la prigione diventa tutto l’insieme dei rinvii, dei segnali della centralina elettronica che controlla quell’uomo; ed ecco ricreata una certa forma dell’espressione e una correlativa forma del contenuto.
Da questa prospettiva, il problema fondamentale – come ha ripetuto lo stesso Foucault – è che non esistono opposizioni tra le cose e le parole. Dopo aver scritto la Storia della follia e Le parole e le cose, Foucault affermò di essersi sbagliato nel pensare che c’è una storia del referente indipendente dal discorso. Così, per esempio, non è vero che la storia della follia è una storia di discorsi e di rappresentazione concettuali, al di là dei quali ci sarebbe una storia del referente, ossia della follia reale, quella follia che sa la verità su di noi esseri presunti ragionevoli. La sola realtà esistente, diceva a quel punto Foucault, non è né nelle parole né nelle cose, ma negli oggetti. Gli oggetti sono l’esito di quell’incontro tra parole e cose che fa sì che la materia del mondo diventi – grazie alla formaorganizzativa concettuale dentro cui viene posta – una sostanza che s’incontra con una certa forma. Cioè, la materia vista nella direzione della forma diventa la sostanza (le sostanze del mondo sono tali perché sono già in qualche misura preformate) e la forma è un’organizzazione di questa sostanza che ha con essa un certo numero di relazioni più o meno motivate, più o meno immotivate.
Questa è un’ipotesi essenziale: pensare che esistano oggetti, non cose; che le cose, in quanto formate, in quanto dette, espresse, messe in scena, rappresentate, sono oggetti, insiemi organici di forme e di sostanze. Si tratta di un’ipotesi forte, che ci libera in maniera definitiva dell’idea secondo la quale è necessario scomporre gli oggetti in un unità minime di significati, o i suoni in unità minime della fonazione, per poi ricostruirli e comprenderne la struttura interna.
Tutta la nostra epoca è stata attraversata dall’idea costruttivista, radicalmente utopica, che sia possibile spezzettare la complessità del linguaggio, la complessità delle significazioni, la complessità del mondo in unità minime (un po’ sul modello tomistico), e poi, attraverso combinazioni progressive di elementi di significato e combinazioni progressive di tratti di significanti, produrre o riprodurre il senso. È una idea che trovate in Carnap, ma, su un altro piano, anche nel Bauhaus, e persino nella linguistica di cui parlavo prima, quella hjelmsleviana.
L’idea di base della svolta semiotica è il contrario: non è possibile, come si era pensato, decomporre il linguaggio in unità semiotiche minime, per poi ricomporle e attribuire il significato al testo di cui fanno parte. È necessario, al contrario, aver chiaro che non riusciremo mai, a priori, a fare un operazione di questo genere, e che invece possiamo investire degli universi di senso particolari dentro cui ricostruire specifiche organizzazioni di senso, di funzionamenti di significato, senza con questo vantare la pretesa di ricostruire, almeno per ora, generalizzazioni valide in ultima istanza. Solo per questa via è possibile studiare questa realtà curiosa che sono gli oggetti, oggetti che possono essere nello stesso tempo parole, gesti, movimenti, sistemi di luce, stati di materia etc. – ossia, tutta la nostra comunicazione.

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