Da: Luca Acquarelli (a cura di), Terrorismo. Strategie discorsive, Carte Semiotiche, n. 11, luglio 2008.
La storia delle parole fa salti, salti di significato. Il termine Terrore è d’origine latina e designa l’incertezza che provoca e il suo effetto somatico: il tremore. Ma nell’accezione moderna delle lingue europee, Terrore e Terrorismo provengono dal lessico francese della rivoluzione. Nel 1794, con Robespierre, il Terrore è all’ordine del giorno: esercizio spietato della virtù – «senza il terrore la virtù è impotente» – e della legalità statuale. Ci sono sempre stati tirannicidi anarchici e guerre civili e persino la filosofia ha considerato la paura come il legame politico per eccellenza. Ma c’è Terrorismo solo quando la paura rivoluzionaria, istituzionalizzata e burocratizzata, si trasforma in Terrore razionale e nazionale. Per costringere gli avversari ad obbedire a ciò che è giusto, ci vuole il dispotismo pedagogico della libertà: «colpiscine uno – o più – per educarne cento». Non trovate imbarazzante che il Terrore sia esattamente contemporaneo alla dichiarazione dei Diritti dell’Uomo? L’espressione Terrorismo di stato insomma è pleonastica, anche perché ogni Terrorista ha nella sua prospettiva un modello di stato. (Conosciamo sia quello di Sharon che quello di Osama!).
Il Terrorismo è cominciato dunque dall’alto per trovare più tardi la risposta dal basso: sostantivi e aggettivi, come Terrorista e Terroristico sono neologismi del secolo breve. Dal 1920, Terrorista designa il membro d’una organizzazione clandestina e illegale che usa la forza per modificare la situazione politica. Contro il Terrorismo di stato, direbbe lui! Eppure, con un Terrorismo mondializzato, il diritto internazionale ha grandi difficoltà semantiche, dato che i sistemi legali democratici non riconoscono delitti politici e sanzionano gli atti e non le opinioni. Per la prima volta, la parola appare, imprecisata, nelle recenti convenzioni internazionali sulla repressione degli attentati all’esplosivo e del finanziamento dei Terroristi. Attualmente è all’esame del Consiglio dell’Unione e del Parlamento Europeo una definizione dell’atto Terroristico che lo assimila a un crimine di guerra, quanto ai danni inflitti alla popolazione civile e ad un attentato politico, rispetto a governi e organizzazioni internazionali. Termine simile a quello usato dall’FBI americano e al Terrorism Act inglese in cui, ad esempio riguardo ai crimini informatici, si sottolinea l’aspetto politico più che la violenza. Una definizione a doppio taglio, che consente l’intervento militare (Afganistan, Irak) ma sopratutto quello poliziesco delle varie intelligence. E dato che le guerre somigliano sempre di più ad operazioni di polizia e che lo scopo delle forze dell’ordine è prevenire, c’è il rischio che, in futuro, più che gli atti conteranno le intenzioni Terroriste, da correggere in funzione di idee politicamente corrette sulla virtù. Brutto affare.
Nell’Encyclopedie, il Terrore era definito come figlio micidiale di Marte e di Venere. Se correggiamo in figlio della guerra e del puritanesimo, Diderot e d’Alembert non erano così lontani dalla verità.