Da: Alfabeta2, n. 9, maggio 2011, focus sul linguaggio a cura di P. Fabbri e G. Marrone.
1. Patalinguistica
La parola e la favella hanno un senso in comune con la parabola e la favola. Sarà per questo che sulla lingua di contano tante fole che non smettiamo mai di ripetere e che hanno finito per far parte della nostra cultura. E poiché tutti abbiamo il “dono (sic!) della favella”, ci sentiamo in diritto di licenziare spiegazioni linguistiche senza giusta causa. Di questa incompetenza allenata la lista è lunga quanto quella dei complementi nelle grammatica della lingua italiana. E come quella destinata all’oblio.
Proviamo tuttavia a ricordarle all’improbabile attenzione dei tanti Monsieur Jourdain che, a differenza del personaggio di Molière, non fanno della prosa senza saperlo, ma credono di saperla, mentre non sono in grado di farla.
Lasciamo correre l’etimologia: una figura retorica che pretende “tornare all’origine di una parola per commentarne o modificarne il senso” . Un arcaismo del significato che tradisce spessissimo il suo etimo “verità” (In quante parti abbiamo frazionato l’atomo, che proviene dal greco “indivisibile”). L’etimologia – un “atletismo propriamente filosofico” (Deleuze) – non prova nulla sul significato delle parole, il quale si manifesta e si trasforma nei discorsi e nei loro impieghi collettivi. Però, questa patafisica creativa -da Isidoro di Siviglia fino a ad Heidegger- e talvolta umoristica, la dice lunga sul modo in cui motiviamo le parole, non sul loro senso primo.
Non lasciamo però discorrere le fole. Le lingue non trasmettono pensieri già pronti, li costituiscono e li realizzano. Le lingue “primitive” non sono più semplici delle lingue scritte e civilizzate, anzi. Non ci sono lingue che non riescono ad esprimere coi propri mezzi qualsivoglia contenuto (anche con la lingua dei sordomuti si può fare filosofia e poesia). Non ci sono lingue senza grammatica. Non ci sono lingue più difficili di altre o che si parlano più in fretta e neppure più belle (come l’italiano naturalmente!) mentre altre sono più brutte (l’arabo, certo!). E visto che ci siamo: non è vero che il Francese è una lingua logica, che la doppia negazione è illogica, che il miglior italiano è lingua toscana in bocca romana, che le donne parlano troppo e che i bambini di oggi sono più precoci nell’apprendere a parlare ma in ritardo a scrivere. Tutta una Patalinguistica.
2. Homo zappiens
Un fermo immagine merita il ruolo dei media, della televisione in particolare, segnata a dito come la responsabile della “unificazione barbara” della lingua nazionale. Dopo il “sopruso eroico” (Chabod) e armato dell’Unità politica, quella linguistica sarebbe l’opera del piccolo schermo e delle sue trasmissioni che, però, sono confuse nella pronuncia, sintatticamente scorrette, povere nel lessico e basse di genere!
A ben guardare è una vecchia storia,. I media sono sempre stati sotto accusa di lesa lingua. Da più di un secolo il giornalismo, con le sue unghie sporche d’inchiostro e cestini di lingua straccia, avrebbe imbarbarito il nostro idioma, che meriterebbe ormai la nomea di Italiota. È noto che un caporedattore separa il grano dal loglio per trattiene il loglio! Tutte le ricerche però ci dicono il contrario. I giornali sono specchi o filtri, passabilmente offuscati o intasati, di cambiamenti linguistici che accadono fuori di loro. Più generalmente, media non inventano e non corrompono; non operano i cambiamenti, li riflettono e li inflettono, li estendono e li accelerano. Il prefisso mini- nato in terre anglosassoni dalla metà dell’800, è entrato nei giornali di moda – mini-skirt – oltre un secolo dopo.
Quanto al cambiamento linguistico, il modello corretto non è il girino che diventa rospo – talvolta salvato dal gelido bacio dalle Accademie. È il cuculo che nasce nel nido d’altri: la lingua non cambia per metamorfosi dei suoi elementi ma per competizione. E i media non sono certo i soli. Ogni sorta di attori sociali – dalla tecnologia alla pubblicità, dalla burocrazia alla moda -concorrono ai cambiamenti. Oltre alle agenzie di socializzazione – caserme, scuole, fabbriche,- sono state le grandi migrazioni interne del dopoguerra, con i contatti interpersonali che ne sono seguiti, ad aver mescidato i dialetti e la lingua ufficiale. Si sono aggiunti adolescenti disubbidienti alla norma, giovani che cercano spazi di marcato, donne che ridefiniscono il loro ruoli, ecc. Oggi, una concausa è l’alta mobilità permessa da altri mezzi di massa, quelli di trasporto globale.
Torniamo alla Televisione, colpevole presunta: al di fuori del lessico, che è un insieme aperto, nei veri cambiamenti dei paradigmi chiusi del suono e della grammatica, la TV, paleo- o neo- che sia, conta ben poco. Diffonde frasi fatte, ancora più effimere delle parlate delle “tribù urbane”, le quali si esprimono e differenziano meglio sul piano semiotico del vestire e delle etichette gestuali. Anche i dialetti continuano ad evolvere al contatto con l’italiano che cambia, ma non a causa della TV a cui siamo tutti esposti per molte ore al giorno. D’altra parte la TV non è uno stimolo per l’acquisizione del linguaggio, pace il maestro Manzi. Anzi, che siano i bambini, come aveva intuito Umberto Eco in tempi sospetti, che fanno male alla Televisione?
La Televisione o le radio danno, attraverso personalità proiettabili o identificabili, una patina di rispettabilità a certi modi di dire e pronunciare, ma è confortante sapere che i veri cambiamenti succedono nelle interazioni faccia a faccia tra pari grado, età ecc. I mezzibusti televisionari attirano la nostra attenzione, ma la conversazione con loro è dell’ordine del simulacro. Per la parlata dell’homo zappiens conterà di più l’interazione con le lingue extracomunitarie, come osservava Borges, per cui l’italiano degli emigranti aveva rovinato il bell’idioma criollo degli argentini.
Così è o almeno mi pare. Comunque sia, un idioma non ha nulla del gioco di scacchi: pace Saussure e Wittgenstein, è un sistema metastabile e turbolento, il cui sussistere implica la variazione ed attrezzato con un termostato non troppo preciso. Un lavoro notturno il suo, che fa soprattutto gli straordinari.
3. In poche parole
Come si generano queste diffuse connotazioni che servono come parole d’ordine per la comprensione del linguaggio? Un disturbo collettivo che un psichiatra qualificherebbe di “parafasia” sociale?
In primo luogo c’è un’ingenuità e una tautologia: il linguaggio sarebbe fatto di parole. I linguisti si occupano, o dovrebbero farlo, della semantica soggiacente – i potenziali significanti – e di organizzazioni discorsive – che si trrovano sopra e sotto le parole ed hanno difficoltà a delimitare l’unità lessicale che chiamano morfema.
Il discorso comune invece, depositario cool di viete metafore, continua a prenderci a parole, surfando tra termini e concetti. Il dispositivo è semplice: si sceglie una parola e si comincia con la Nominalizzazione (un sostantivo piuttosto che un verbo); poi la si trasforma in Lemma di dizionario, spogliato di affissi e declinazioni; segue la Decontestualizzazione, sottraendo la parola alla interdefinizione con altre, alla sua posizione nella frase, nel registro, nel discorso, nel genere, nell’occasione sociale, ecc.; e infine la si trasforma in Tipo, da sottoporre a manipolazioni politiche, morali, logiche e filosofiche.
(Di recente il quotidiano “assolutamente sì / no” – variante grammaticale del superlativo in questi tempi pubblicitari – si è trovato coinvolto coi problemi metafisici dell’Assoluto).
Dopo questo passaggio sul letto di Procuste, non è dato sapere quale contributo può dare una parola al senso dei testi e di discorso: è certo che produce gabinetti di meraviglie neologiche dalla vita breve e un genere mediatico di intrattenimento, prossimo alle parole incrociate.
Peccato che da questa scelta – il linguaggio come collezione di termini – discendano altre fole, inesatte quanto politicamente corrette. Trascuriamo il proposito empirista che lo stile individuale o collettivo sia definibile per frequenze lessicali, almeno finché non si trovi il modo di calcolare il non detto. E preoccupiamoci invece che la deprivazione linguistica sarebbe questione di quantità parole a disposizione. Il loro numero sarebbe direttamente proporzionale allo sviluppo della democrazia e alla uguaglianza delle possibilità: chi ha meno lessico sarebbe più in basso nella scala sociale, più barbaro, violento e degradato. Tutte le ricerche sul linguaggio vanno in direzione contraria a questo passaparola da intellettuali “impegnati” e dimostrano che la differenza non sta nel numero delle parole, ma nel tenore discorsivo adeguato e appropriato nell’interazione. Il codice piccolo-borghese lessicalmente elaborato non ha maggior pregnanza semantica e valor civile più grande di quello ristretto di altri strati sociali. Anzi il signora mia, mi consenta, può anche associarsi ad incertezze e strafalcioni ipercorrretti, stigmatizzati da innumeri storielle.
Non nego l’interesse che la Crusca accetti sostantivi come Sitografia, Videofonino, Badante, Cartolarizzazione, Bioterrorismo; aggettivi come No global e Bipartisan e verbi come Autodosarsi e Autoconvocarsi. Sarebbe però politicamente più significativo dedicarsi ai prefissi e rilevare tra i neologismi registrati dalla Treccani, che anti- è di gran lunga il più frequente: quasi il doppio di bio- e di eco-; cinque volte più numeroso di post-, ricorre una dozzina di volte in più di particelle come info- e iper-, porno- e ultra-. C’è atmosfera linguistica di ant-agonismo?
4. Congiuntivite
Lasciare il lessico per la grammatica non significa unirsi al coro prefico delle lamentazioni sul coma protratto del Congiuntivo. Il quale, vegeto in molti nostri dialetti, è tralasciato anche dalla lingua di Cartesio. Il presidente transalpino ha fatto sensazione utilizzandolo all’imperfetto, ma solo con stranieri e col vestito buono delle circostanze ufficiali. (È prevedibile che accadrà lo stesso al nostro “cui” per il cui impiego, appunto, lo spagnolo mostra un’ammirazione archeologica). Concedo che il Congiuntivo aiuta ad esprimere sfumature di significato e di relazione, anche se a rischio di sii, (per si), facci, dasse, ecc. D’altra parte , se non affetti da congiuntivite, come chiuderemmo le porte senza distinguere tra “chi apre chiuda” da “chi apre chiude”? E come potrebbero i tifosi, intimati a stringersi a “coorte” – non a “corte” – dal nostro inno nazionale, sapere dov’è la Vittoria che “porga – e non “porge” – la chioma”?
(Non pone problema ai Leghisti, che cantano il Va pensiero, la conoscenza di nomi propri quali Sollima – Gerusalemme – e morfemi come clivi, membranza, traggi, concento: il populismo ama le parole povere!).
La lingua formula ed esprime con i propri mezzi dei potenziali sociali di senso. Come stupirci allora del fading del congiuntivo e di altre morfologia grammaticali nella generale informalizzazione dei registri interpersonali? È il caso ritrito dei pronomi personali e di altre forme di indirizzo: il nome proprio e il tu generalizzato e reciproco che virtualizza i rapporti di solidarietà e di potere. Più rilevante però, per tutta la (post-)questione della lingua, è la trascurata ma cruciale differenza tra lo scritto e dell’orale. L’immagine imbarbarita della lingua, nel cui nome si pronunciano accorate querimonie o virulente geremiadi è quella codificata nella scrittura con le sue caratteristiche statiche di densità lessicale. Il parlato per contro è dinamico, ma è sintatticamente più intricato e paratattico. (Lo scritto è più vicino alla pittura e il parlato al cinema). Scrivere, ricordiamolo, non è trascrizione dell’orale e l’oralità non è la pronuncia della scrittura: sono due modi di esprimere diversamente un significato comune: in questo senso siamo bilingui! Insistiamo: senza la politica delle Accademie, tra le due forme espressive del significato – interpersonale, cognitivo e testuale – non ci sarebbe gerarchia a priori del valore. È la scuola che valorizza, più o meno bene, lo scritto, ma i bambini che arrivano all’istruzione pubblica hanno già imparato, oralmente, a parlare. D’altronde l’Umwelt mediale in cui siamo immersi contagia la forma scritta con i tratti del parlato. Se prima si apprezzava chi parlasse come un libro stampato, oggi l’imperativo è “scrivi come parli”. Come osservava Baudrillard, nella cosiddetta società dell’immagine vediamo per lo più che gente che interloquisce.
Chiediamo una moratoria al lutto sul congiuntivo che portano al braccio gli intellettuali “umanisti”, i quali accusano la perdita del tradizionale controllo sul linguaggio. Il congiuntivo, ipotattico perché vive di dipendenze, arretra nelle forme di vita più paratattiche, cioè indipendenti e informali. Strumento privilegiato della richiesta cortese, non trova posto nei dialoghi contemporanei in cui la regola dei turni di parola, costruttrice del noi conversazionale, è costantemente violata da ri-attribuzioni e sovrapposizioni, fino al parletico farneticante dell’Unico e delle sue improprietà. (Per questo forse sono diminuite le bestemmie trascendenti ed aumentati gli insulti e gli improperi immanenti, fino a far parte delle buone e belle maniere. Un esempio politico attuale? “Morirà nel suo letto senza insudiciare la patrie galere”.)
5. W la Grammatica!
La morale è avvinta alle favole, come l’edera alle rovine (Benjamin). Alle nostre fole linguistiche fa da serto una sconsolata constatazione. La linguistica, per una breve stagione, è stata una scienza umana privilegiata per i metodi e l’oggetto: la significazione. Regnava sulla semiosfera, sui sistemi di segni, come la fisica di Maxwell sui cieli. Non so cosa abbiano fatto i linguisti, impegnati tra neuroni e genomi, memi e neurovisioni, ma oggi la grammatica sembra la figlia ingessata e accigliata della lingua scritta. Si occupa di come stanno le parole più di come vadano i discorsi, si limita al verbale mentre la comunicazione moltiplica i segni visivi – comprese le emoticone, che sopperiscono alla povertà della punteggiatura nel rendere l’intonazione. Se la grammatica si occupa di problemi interni, tecnici, astratti, decontestualizzati, idealizzati, autoreferenziali perchè dovrebbe spiegare il fuori? Non si esportano tali e quali i risultati di laboratorio.
Ricominciamo allora dall’evidenza che gli attori della nostra società poliglotta utilizzano la grammatica per realizzare la propria cultura. Parola vaga e scivolosa questa, se non si specifica come azione a partire da modelli, cioè da regole che sono le risorse per accogliere nuove esperienze di senso. La proposizione è un atto semiotico che mette insieme il Modo – che è azione e informazione e la Transitività che è una maniera di imparare e conoscere il mondo (Halliday).
La grammatica non è fascista, in quanto imporrebbe di dire quello che lei vuole, come ebbe ad esprimersi R. Barthes in un raro (per lui!) empito demagogico. Organizza i rapporti sociali e le interazioni; articola i saperi in categorie che ci fanno compere osservazioni necessarie, ma non coatte. Combina nuovi testi e li collega ad altri testi del passato che rende disponibili e modificabili. Le sue nozioni sono astratte ma, proprio per questo, elastiche ed applicabili: v. l’insospettata plasticità morfologica dell’italiano rispetto ai termini nuovi delle tecnologie.
Insomma non val la pena di mettere i concetti grammaticali in cassa integrazione e dichiarare ufficialmente imbarbarimenti e decadenze, col tono del piccolo imprenditore di moralità. Anzi, poiché andiamo, come ha visto Eco, “a passo di gambero”, c’è un grande avvenire linguistico dietro di noi.