Semiotica e camouflage


Da: AA.VV., Falso e falsi. Prospettive teoriche e proposte di analisi, a cura di Luisa Scalabroni, Edizioni ETS, Pisa, 2011, pp. 11-25.


Il camouflage è un tema cruciale per la semiotica, a livello dei sistemi di rappresentazione ma anche a quello della distorsione della rappresentazione. Fin dal Trattato di semiotica generale, Eco (1975) sostiene che il segno è fatto per mentire. Ma il camouflage costringe a ripensare l’idea stessa di segno. Non si riduce a una problematica referenziale (qualcosa che sta per qualcos’altro) o inferenziale (se… allora) e soprattutto amplia le vedute sul concetto di produzione segnica. Esso emerge infatti come un sistema complesso di strategie di presentazione (del me, del prossimo) e di rappresentazione (del sé, degli altri) che operano secondo forze in gioco. Queste forze ridefiniscono – riorganizzano e ridispiegano – le forme del mondo vivente: animali e umane. La tesi di René Thom, che ogni morfologia è il risultato di attrattori in conflitto e/o in contratto fra loro, sta sullo sfondo di una riflessione sulla zoosemiotica e la semiotica della cultura. Al se… allora si aggiunge un se… ma.

Etimologia del termine e prospettive di analisi

L’etimologia è una figura retorica con cui tentiamo di inscrivere, nella morfologia delle parole, il senso che circola negli insiemi discorsivi. Ci serviamo, a questo scopo, di tutte le risorse del bricolage. Il caso di camouflage è dibattuto. Per alcuni il termine deriva da cafouma, vocabolo sei-settecentesco, vallone, che significherebbe “soffiare una folata di fumo in faccia a qualcuno, per disorientarlo, per annebbiarlo”. Secondo altre fonti, l’origine sarebbe veneta, da camuffare, “ingannare”, “imbrogliare”, “nascondere”. Nel Cinquecento i camuffi di Rialto erano i ladri di Venezia: tipi “scaltri, infidi, mascalzoni”. A me, tra le varie possibili etimologie, è sembrata poeticamente più efficace quella che deduce il termine da carmare, verbo con la stessa radice di carmen e da cui proviene charme (l’infisso con –uffo costituirebbe soltanto una modifica gergale, si veda Cortellazzo e Zolfi 2004). Il camouflage sarebbe un incanto gettato sulle cose, perché abbiano un senso diverso da quello consueto. È l’equivalente dell’inglese to get a spell, “gettare un incanto”. Trovo suggestivo che camouflage abbia la stessa radice di carmen, poesia.
Ma entriamo nel vivo del problema. Il camouflage interessa per primi gli scienziati, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, con gli studi sul comportamento animale e in particolare sulla componente “aposematica” nell’entomologia. Dalle stesse ricerche sul senso della comunicazione animale deriva la contestatissima affermazione che le api, per esempio, sono insetti sociali dotati di linguaggio. Nello specifico, si trattava di capire il modo in cui gli insetti lanciavano ai loro predatori segnali repulsivi.
Il termine aposematico, del 1890, ha una risonanza semantica. Designa l’insieme di espedienti utilizzati dai mammiferi, e soprattutto dagli insetti, come tattiche di difesa o come strategie di agguato. Il concetto di arms races (Dawkins, Krebs 1979) può essere ritenuto valido non solo in relazione alla corsa agli armamenti propria delle circostanze di guerra, ma esprime una sua pertinenza anche se riferito al comportamento conflittuale del mondo animale. Il rapporto conflittuale tra predatore e preda richiede necessariamente conoscenza reciproca e una certa dose di “complicità”. Poiché bisogna intendersi per battersi, e poiché i segni sono manipolabili, è anche possibile la reversibilità dei ruoli. Il predatore, cioè, indossa i panni della preda, e la preda può camuffarsi da predatore. Da questo punto di vista, è pertinente che i segni impiegati siano non veri o falsi, ma efficaci. A valere è la credibilità del simulacro offerto all’altro, le mosse interattive e i regimi di credenza e di sospetto che si innescano.
Si tratta di questioni all’ordine del giorno in ogni situazione di decisione interdipendente, come nei trattati di guerra e nella teoria dei giochi. Onnipresenti, ma poco definiti, anche nel mondo artistico della pittura, dell’architettura, del design e della moda.
Nel mondo animale gli espedienti utilizzati sfruttano qualità specifiche.
In primo luogo usano la conformazione dei corpi e ne trasformano ad hoc le apparenze. Possono puntare, come la zebra, la tigre, il boa, sulla rottura della forma, cioè su pattern distruttivi, che comprimono o dilatano i volumi e modificano i contorni dei corpi, tramite la ripetizione di macchie o strisce alternativamente chiare e scure. I più noti studiosi di mimetismo animale, Henry Walter Bates e Fritz Müller, hanno inoltre dato molto valore alle componenti cromatiche. Anzi, hanno teorizzato una vera e propria semiotica della dimensione cromatica, individuando, nell’universo delle farfalle, colori criptici, in grado di nascondere, e colori sematici o fanerici, che avvertono il predatore attirandolo o respingendolo. Il loro lavoro ha avuto un ruolo importante, soprattutto per quel che riguarda il lavoro di Bates, sulle ipotesi di Alfred Russel Wallace, coautore, con Darwin, dell’ipotesi evoluzionista delle specie. Molti studi hanno messo in risalto la dimensione visiva, ma esistono tattiche di camouflage che sfruttano anche altri canali sensoriali, uditivi, tattili, olfattivi. La ricerca ne svela di sempre più sorprendenti, come gli ultrasuoni delle falene notturne per intercettare e sviare i segnali dei pipistrelli.
Le strategie di camouflage, descritte con precisione negli studi sul mimetismo animale, ci incuriosiscono per due ragioni. Innanzitutto perché gli artisti, fin dall’inizio, si sono trovati coinvolti nella ricerca. Abbott Thayer, che è il primo a interessarsene, è un notevole pittore prima di essere lo zoologo che formula le leggi del mimetismo. Spiega, per esempio, che i mammiferi sono più scuri nella parte della groppa, e non sul ventre, per facilitare il difficile reperimento rispetto agli sfondi. Per altro verso, invece, è la ricerca scientifica a essere coinvolta nelle strategie di guerra. Fin da Thayer c’era stata una prima indicazione sulle possibilità di calcolare le mosse strategiche esaminando la colorazione nel regno animale. Chi gli si oppose vivamente fu Theodore Roosevelt, presidente degli Stati Uniti, il quale, da grande cacciatore, aveva le sue idee in proposito e dubitava che l’arte potesse giovare all’osservazione diretta.
Durante la Prima guerra mondiale, com’è noto, i cubisti – André Mare, René Pinard, Raymond Duchamp-Villon, il fratello maggiore di Marcel Duchamp – sono stati impegnati nella trasformazione degli scenari bellici. Nella Seconda guerra mondiale tutti i combattenti hanno utilizzato degli specialisti di camouflage animale per il travestimento delle divise e delle armi nei teatri di battaglia (gli inglesi, nel Nordafrica, si sono serviti anche di prestigiatori e maghi). Questa è la prova che il segno camuffato – citando René Thom (1980) – è un fermo immagine nel processo strategico. Io, da agonista, osservo per verificare, ma l’antagonista, che si sa osservato, compie un’operazione di mascheramento. L’agonista tenta allora un’operazione di smascheramento, a cui possono seguirne altre di contro-smascheramento. L’incontro/scontro della predazione, al pari del gioco della seduzione, è fondato su strategie reciproche di repulsione o di attrazione che hanno spesso un’escalation, un vortice di reversibilità. C’è una singolare osservazione di Thom circa questi processi zoosemiotici. L’animale in caccia si muove come preda, cioè allucinato dalla sua immagine agognata. La preda, allora, può camuffarsi da predatore; la farfalla, per esempio, spalanca davanti all’uccello assalitore degli ocelli che ne simulano gli occhi, e davanti ai quali il predatore fugge… come preda. Il che segnala la complessa reversibilità simbolica insita nelle interazioni più elementari: quelle della predazione o della guerra, della sessualità e della seduzione.
Al disrupting, che è un buon esempio di questa interdipendenza semiotica, aggiungo ora il dazzle painting, cioè un modo spettacolare di dipingere le navi, con pieni e vuoti e ombre e luci alternati e spezzati, così da renderle obiettivi in movimento difficili da colpire. Il camouflage, che ne accentua la visibilità, ne rende però indecidibile la direzione. Tra gli artefici di alcuni dei migliori dazzle pattern, creati nella prima guerra mondiale, va ricordato il generale Norman Wilkinson, appassionato di pittura. L’ingegnosità del dazzling toglie all’evidenza referenziale il suo valore intrinseco e mostra che la percezione, il riconoscimento e l’interpretazione sono processi segnici da cogliere all’interno di strategie. Per René Thom la forma della preda è definita dall’artiglio del becco del predatore; la preda, fino a quando riesce a salvarsi, persiste nel suo essere, cioè nella sua forma. Se questa forma dovesse cambiare, per esempio crescere di dimensione, finirebbe per essere corretta dalla zanna o dall’artiglio.

Invisibilità, travestimento e intimidazione

Una delle strategie fondamentali del camouflage è quella di sparire, di diventare trasparenti o impercettibili. Come la trasparenza di un pesce sul fondo dell’acqua. Una mossa a cui può rispondere, di rimando, una contromossa: certe seppie giganti sono capaci di creare delle diffrazioni visive per far risaltare i bordi delle sagome di altri pesci e restituirne il volume. In questo ambito si può collocare anche l’arte di nascondersi, cioè di coprirsi “bricolando” dall’ambiente diversi oggetti. È il caso dei granchi che accumulano e trascinano delle conchiglie sul dorso.
La seconda strategia è invece quella di diventare altro, altro da sé, spesso con uno sforzo di esibizione vistoso: per esempio la cavalletta che diventa una foglia, cambiando addirittura regno naturale: dall’animale al vegetale. Nella tipologia del travestimento annoveriamo anche il camuffarsi da predatori: ci sono casi molto curiosi di banchi di pesci fluviali composti, per metà, di specie predatrici e, per l’altra metà, di prede travestite da quei predatori. Rispetto a queste forme di manifestazione – l’invisibilità e il travestimento – Caillois ha compiuto un lavoro eccezionale, ripreso peraltro da Deleuze e Guattari (2006) in Mille plateaux. Sono i tratti di una vera retorica della comunicazione animale, coi suoi tropi che sono appunto figure di spostamento: metafore e metonimie, ma anche preterizioni, antifrasi, antanaclasi, preterizioni e così via. Il che coincide con l’idea che ogni retorica, anche quella etologica, è sempre una tattica delle apparenze che opera in condizioni di conflitto e su categorie contrapposte: organico e inorganico, vivo e morto, visibile e invisibile, dritto e rovescio, minaccioso e inoffensivo e così via. Il concetto di intimidazione, invece, non mi sembra una categoria collocata sullo stesso piano semantico: non riguarda, come le altre, un far essere o non essere. La paralisi, l'”effetto Medusa” – la Fulgora Laternaria, accuratamente descritta da Caillois che presenta una protuberanza vuota, simile a una maschera – riguardano un far fare. L’intimidazione, forza che agisce su altre forze, e di cui Barthes intendeva scrivere la linguistica, è solo una delle modalità della manipolazione, insieme, per esempio, alla provocazione. Possono ricorrervi tanto l’invisibilità quanto il travestimento. Così, mentre prima l’aeronautica adottava nelle guerre mondiali le tecniche di travestimento, oggi preferisce quelle di invisibilità. Ci sono aerei Stealth invisibili che sfuggono non solo allo sguardo, ma ai radar e al rilevamento elettronico.
Le ricerche sulle tecniche dell’invisibilità o del travestimento rendono indispensabile introdurre una teoria dei punti di vista negli studi sull’immagine. Le strategie di camouflage sono conosciute da molto tempo, ma non vengono indagate con cura. Nella cultura greca classica, per esempio, si distinguevano due tipi di intelligenza: quella logica filosofica del logos e quella retorica e sofistica della metis. All’interno della metis i Greci separavano la strategia del polpo, mollusco obliquo, camoufleur esperto, che vede senza essere visto, agile e imprevedibile, e trova una via d’uscita anche nell’inestricabile; e quella ingegnosa della volpe, animale astuto, specializzato nella tecnica dell’inversione, nell’arte del capovolgimento degli eventi. Polpo e volpe – affermano Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant (1974) – sono animali “sofistici”, due prototipi delle strategie di camouflage. Hanno in comune il tema del legare e del paralizzare.
La questione degli equilibri e delle emergenze locali aiuta ad approfondire la questione. L’intelligenza astuta del camoufleur non consiste nell’usare un inganno definitivo, quello che interdice l’iniziativa. Gli basta costringere l’antagonista all’indecisione, quanto basta per prenderlo “sul tempo”. Il lepidottero che riesce a crearsi degli ocelli nella parte posteriore del corpo sa o spera che il predatore si aspetti di vederlo fuggire nella direzione opposta, e verrà ingannato quanto basta per permettergli di nascondersi. La rapidità della decisione, la “presa di tempo” necessaria per poter fuggire e l’imbarazzo provocati da segni ambivalenti – “Sono occhi?! No, non lo sono?! È un animale, è una foglia?!” – si rivelano allora essenziali. È la tattica del contropiede. Evidentemente, queste strategie cambiano in funzione del tipo di sguardi. Nel mondo militare il camouflage si è imposto per ragioni “mediologiche”, diremmo oggi, cioè per l’adozione di nuove tecnologie della visione. Quando l’aereo si afferma nei cieli nella Prima guerra mondiale, quando la macchina fotografica scavalca i “fronti” e comincia a rilevare dall’alto i dispositivi tattici, sondandone la profondità, emerge la necessità di camuffare tutto il territorio, e non più solo gli uomini, le armi e i depositi. Macchine sempre più sofisticate hanno generato trucchi e segreti sempre più ingegnosi e riposti. Non bisogna poi dimenticare che il camouflage non è soltanto un fenomeno visivo e che, dunque, può riguardare tutti i sensi. Nel campo uditivo possono infatti essere delle forme di disturbo in grado di “nascondere” il messaggio trasmesso: durante la guerra vi erano gli addetti alla intercettazione e alla decodifica dei messaggi radio che, per ovvie ragioni, venivano trasmessi in forma camuffata. Ecco perché Dalì sosteneva che se nella Prima guerra mondiale i grandi travestitori erano stati i cubisti, nella Seconda guerra mondiale i grandi camuffatori sarebbero stati i Surrealisti.

Il camouflage nell’arte contemporanea

Gli artisti contemporanei, eticamente ed esteticamente più acuti, mettono spesso a fuoco il camouflage. Ne usano la qualità eristica – la retorica del conflitto – per sottolineare ironicamente una caratteristica delle società attuali, che non sono più società della repressione, ma del controllo, dell’intercettazione comunicativa. Figure come Desirée Palmen ironizzano, con il camouflage, sull’aumento vertiginoso del controllo, favorito da dispositivi elettronici. Mostrano che la forma di vita quotidiana, apparentemente pacificata, in realtà presenta dei caratteri orwelliani, da 1984. Non si tratta più del “Big Brother”, ma della muta dei “fratellini”, un insieme diffuso di piccoli controllori che esercitano una sorveglianza capillare sulle città e “striano” i territori.
Gli artisti rispondono poi ironicamente anche all’arte stessa e alla sua feticizzazione. Harvey Opgenhorth, che entra nei musei e si traveste da opera di Rothko o di Matisse, appiattendo i volumi del suo corpo per realizzare una rispondenza di contorni e di colori con i quadri, è un’eccellente dimostrazione dell’avversione all’uso rituale dell’arte nella religione dei musei. Non è il solo. Per quanto riguarda le Avanguardie, inoltre, vi è una particolare valorizzazione del camouflage. Racconta Gertrude Stein che Picasso, vedendo sfilare a Parigi i cannoni della prima guerra mondiale, camuffati in atelier diretti da artisti cubisti, affermò: “Questo lo abbiamo fatto noi!”. Le Avanguardie, ormai “storiche”, si valgono di una terminologia bellicosa: “avan-guardia” è una metafora della topologia militare che indica una posizione di prima linea nella trasformazione delle arti e della società. Ora, sarebbe interessante riconoscere, accanto alle realizzazioni cubiste e alle anticipazioni surrealiste, il ruolo dei Futuristi italiani, di cui ricorre, nel 2009, il centenario della pubblicazione del primo Manifesto – scritto in francese e su Le Figaro. Molti futuristi, come Azari, il pilota che con Marinetti ha pubblicato il Primo dizionario aereo italiano (Marinetti, Azari 1929) hanno avuto, per primi, esperienze di guerra aerea – teorizzata dal generale Duhet – e delle nuove tecniche per osservare il campo del nemico e per sfuggire alle sue rilevazioni. Tato, poi, co-firmatario, con Marinetti, del Manifesto della fotografia futurista (1930), ha progettato e costruito oggetti-camouflage. È del 1929 il Manifesto futurista dell’Aeropittura, a cui partecipa lo stesso Tato. Già in queste date i Futuristi traggono tutte le conclusioni di un’estetica dell’aeropittura, e insieme della fotografia, dalla tematizzazione del camouflage. Come per Picasso che davanti ai cannoni camouflage della Prima guerra mondiale affermava trattarsi di opere cubiste, anche per Marinetti “i treni di Lenin furono dipinti all’esterno con dinamiche forme colorate molto simili a quelle di Boccioni, di Balla e di Russolo. Tutto questo onora Lenin e ci rallegra come una vittoria nostra” (Marinetti 1920). Questo testo, tra gli altri, dimostra quanto il camouflage dipenda dalle risposte elaborate alle nuove tecnologie di osservazione e rilevamento. Dal punto di vista mediologico va notato che i congegni di ripresa, macchine fotografiche e cinematografiche, sono costruite e lessicalizzate, come osserva Paul Virilio (1999), sul modello delle armi da fuoco” (si veda il fucile cromatofotografico di Marey, 1882).
Marinetti dichiarava, nel Manifesto tecnico della Letteratura futurista (1912), che l’idea di una “immaginazione senza fili” gli balenò mentre volava sopra Milano. Il motore svela al futurista un nuovo tipo e senso dell’immagine. A questo sguardo che aggetta dal nuovo “litorale verticale” del cielo, si replica ridisegnando l’intero panorama urbano e rurale. Oggi accade lo stesso, in un’epoca ecologicamente corretta.
Per via dell’esposizione alle nuove tecnologie di controllo, l’architettura camuffa di verde edifici, industriali o abitativi, di scarso o dubbio valore estetico.
Il camuffamento può provocare, quando opta per la maschera, espressioni tragiche e/o satiriche. Nelle finzioni letterarie, basti pensare a Nabokov che in Lolita (1955) esprime la sua passione per le farfalle e per le strategie animali che l’atteggiamento dei personaggi induce a intravvedere. Infatti, la casa di Lolita è situata in Thayer street e Thayer, appunto, è il primo teorico del camouflage. Nabokov possedeva certamente un bagaglio di nozioni scientifiche al proposito ma è nella precisione della sua scrittura che ha nutrito per lo più questi suoi interessi. Per tornare a esempi bellici, basta inoltre pensare ai cecchini della Prima guerra mondiale travestiti da alberi. O all’episodio, poco importa se inventato, del falso aeroporto inglese con aerei di legno, bombardato dai tedeschi con bombe finte…
Una delle fondamentali regole negli studi del camouflage animale riguarda, da sempre, l’applicazione delle ombre. Ombre interne o portate, quelle che la pittura classica italiana chiamava gli “sbattimenti”. Abbott Thayer, pittore e zoologo, ha fornito prove ancora oggi sorprendenti. È possibile, infatti, cancellare le ombre, con particolari strategie, dette non a caso “avvedute”, o produrne di nuove, false. Si può, cioè, cambiare le ombre e quindi modificare la provenienza della luce, il che trasforma interamente la percezione di un oggetto o di un animale. La prima avvertenza rispetto a un potenziale bersaglio è addossarsi a un ostacolo esposto alla luce.
L’avvento della fotografia ha permesso di ripensare la nozione aristotelica di diafano. La fotografia permette la sovrapposizione di più immagini con effetti di trasparenza reciproca. Sono esperimenti nati dalle riflessioni sulle mosse di controllo in guerra. Ma accanto a quella che Marinetti e Azari definiscono sovrapposizione trasparente o semitrasparente di persone e oggetti concreti e dei loro fantasmi semiastratti con simultaneità di ricordo sogno”, non va dimenticato il contributo dato dalla variazione di tonalità. Le navi del primo conflitto del Novecento venivano dipinte in maniera spettacolare proprio per confondere il nemico e impedirgli di cogliere la direzione dove lanciare i proiettili o gli sguardi. Credo che tutto il pensiero della fotografia sia stato dominato, in quell’epoca, da una ossessione non mimetica, ma delle strategie di mimetizzazione. Così la fotografia trapassa da un’ideologia della rappresentazione – la fotografia come impronta luminosa su una superficie fotosensibile – a una teoria della costruzione di forme complesse e interagenti di visibilità. È quanto permettono oggi le tecnologie digitali.
L’immagine camuffata non è mai statica; sembra costituirsi, anzi, dentro attimi di tensione. La compenetrazione tra spazi e corpi, giocata con ritmi discontinui, mira proprio a questo effetto. Oltre a Balla, a Russolo e a Severini, cioè oltre al Futurismo che si ispira alla crono-fotografia di Anton Giulio Bragaglia, c’è un altro Futurismo, quello “plastico” di Boccioni, in cui la figura attraversa il suo contesto e il contesto attraversa, al contempo, la figura. Si vuole raggiungere lo stesso obiettivo nelle strategie di camouflage in guerra.
Queste scomposizioni e ricombinazioni nel rapporto figura/sfondo non solo dialogano con le leggi della psicologia della percezione, sono leggi elaborate proprio grazie al rilevamento strategico, con i suoi problemi esegetici di lettura e interpretazione. Non è banale che i fondatori della Gestalt – Koffka, Köhler, Wertheimer – fossero ufficiali nella Prima guerra mondiale. Le riflessioni sulla psicologia della forma, pur nell’autonomo sviluppo della serie scientifica, hanno avuto una radicale spinta dalla drammatica esperienza della Grande Guerra. Non tutta la scienza evolve in questo modo – si pensi alla genetica – ma è comunque vero che le necessità belliche di guerra modificano sistemi di rappresentazione scientifica e di presentazione artistica. Un teorico della psicologia come Gibson ha lavorato sulla percezione dei piloti di aerei di combattimento e Gombrich, durante la seconda guerra mondiale, era nei servizi inglesi di intercettazione delle trasmissioni radio tedesche.

Il camouflage nella letteratura recente

Negli ultimi anni sono state allestite parecchie mostre e sono addirittura uscite enciclopedie del camouflage. Mi viene subito in mente il recente Camouflage di Tim Newark (2007). Potrei menzionare, oltre agli studi classici di Roger Caillois, i numerosi lavori di Roy Behrens e il saggio di Jean-François Bouvet (2001), La strategia del camaleonte, che è un testo di sociobiologia. Più di recente, Maite Méndez Baiges (2007) ha pubblicato, in Spagna, un volumetto su arti e camouflage. Personalmente, da semiologo che studia fenomeni di costruzione, di trasmissione e di interpretazione del senso, trovo che il concetto di camouflage sia un termine connotativo che comprende concetti da interdefinire. Per esempio, le approssimazioni circa i caratteri fanerici o aposematici sarebbero da descrivere usando strumenti di enunciazione e di deissi dello sguardo e inserendole in un quadro teorico più complesso. Una generalizzazione delle definizioni permetterebbe di estendere i confronti a campi affini al camouflage. Attualmente si sa che un notevole appeal sull’argomento è suscitato dalla trasformazione delle divise dei soldati. Qui, per il semiologo, c’è una divertente considerazione: a partire dagli anni sessanta si diffonde una moda vestimentaria del camouflage, che perdura tenacemente anche oggi, cui danno rilievo artisti come Andy Warhol e Alighiero Boetti (Mimetico, opera del 1966). Durante la guerra del Vietnam, dove le uniformi color kaki di coloniale memoria erano ormai tutte abbandonate per il camouflage multicolore, i linguaggi della contestazione politica usano le stesse tenute del conflitto. I figli dei fiori, disertori potenziali – e talora attuali – indossano nella vita civile la mimetica che rifiutano di portare in guerra. Un’affermazione antifrastica e ironica, come se i giovani americani ed europei di quegli anni asserissero: “Siamo tutti in guerra, siamo tutti i soldati che rifiutiamo di essere”. Per via di un fenomeno tipico della moda, questa scelta poi dilaga e perde la sua vena provocatoria. Comincia a essere vissuta come gesto di adesione a uno stile di vita “camuffato”, alla lettera.

Per concludere
Nelle pratiche del camouflage ci sono anche aspetti che esulano dalla possibilità di nascondersi, ci sono segni di passione difficili da camuffare. Penso a una poesia di Vittorio Sereni, Frammenti di una sconfitta (da Diario d’Algeria, 1947), che testimonia un’esperienza vissuta in prima persona plurale – con italiani di un campo alleato di prigionia:

Istruzione e allarme
Dicevano i generali:
mimetizzarsi sparire
confondersi amalgamarsi al suolo,
farsi una vita di fronda
e mai ingiallire.
Ma l’anima di quali foglie
si vestirà per sfuggire
alla muta non vista osservazione
dell’occhio che scopre in ognuno
baleni di rimorso e nostalgia?
Se passa la rombante distruzione
siamo appiattiti corpi,
volti protesi all’alto senza onore.

Nascondersi sempre, “farsi una vita di fronda / e mai ingiallire”, pur eseguendo gli ordini dei superiori. Non certo una prova di coraggio. In queste tre frasi distribuite su 13 versi, il soldato, preda mimetizzata, dispone di due paia di occhi: gli occhi visibili rivolti verso l’alto, in direzione del predatore – che si può ingannare, ma perdendo l’onore. E l’occhio invisibile, il proprio, un occhio di predatore volto all’interno, che scopre dentro il sé – preda – “baleni” di passioni: nostalgia e rimorsi, non mimetizzabili. Qui il camouflage è il luogo di un dissidio tra modalità del potere e modalità del dovere. Ma il segno è fatto per rimanere segreto; anche il viso aperto è una maschera.


Bibliografia

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Vernant Jean-Pierre e Detienne Marcel, Les ruses de l’intelligence. La mètis des Grecs. Flammarion, Paris1974; ora anche in Vernant Jean-Pierre, OEuvres, Seuil, Paris 2007, 2 voll., vol. I, pp. 987-1080.

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