Transcritture di Alberto Savinio: il dicibile e il visibile


Da: Parola / Immagine, Il Verri, Milano, n. 33, 2007.


1. La gaffe semiotica

La nostra curiosità converge sulle frontiere
N. Goodman

Nella scomparsa di Alberto Savinio Giorgio Manganelli vedeva un paradosso: «la morte di un immortale», la «scomparsa di una delle forme mortali di Mercurio». Segnalava quindi l’impossibilità di parlare di quel «volatile e sarcastico umore senza fare gaffes» e invitava ciascuno a scegliere la propria.
Abbiamo scelto il rischio della gaffe semiotica che, per sua vocazione, è un metodo adeguato ai caratteri più singolari di Savinio: il plurilinguismo e la multisegnicità. Diversità di sostanze espressive e di contenuto – lingue naturali, generi letterari, teatro, pittura, scenografia, ecc… – che Savinio indicava come le manifestazioni di un universo di senso coerente. «Chi ha visto le mie pitture, chi ha letto i miei libri, chi ha udito la mia musica, sa che mio unico compito è dare parole, dare forma e colore, e una volta era pure dare suoni a un mio mondo poetico» (O: 473). La coesione di un discorso che si svolge «dalla musica alla poesia, dalla poesia alla pittura e dalla pittura al pensiero “puro”» (CLV: 244) è attestata dai continui rimandi ai propri quadri, che si trovano nei suoi libri e nella rappresentazione figurativa dell’atto della scrittura.
In Savinio, direbbe Deleuze, «il n’y a que des sémiotiques mixtes». Opere come Casa “La vita”, ad esempio, sono costruite sincreticamente con sedici racconti, metà dei quali in terza persona e metà in prima. Ognuno di essi è preceduto da un autoritratto dell’autore, da una prefazione e una dedica ed arricchito da una postilla e una variante. Ma soprattutto lo accompagnano otto disegni dell’autore e nove Occhi: brevi componimenti poetici in rima o in prosa che si chiudono alla fine del libro. I trenta racconti dell’Achille innamorato sono presentati, poi, come esercizi in successione: richiami o riepiloghi allusivi alle variazioni musicali del gradus ad parnassum.
Le “trascritture” di Savinio, nella loro multimedialità sincretica, hanno un esplicito intento. «Parlare al di là degli occhi che ci guardano» (NE: 134) e far sì che «i suoni divengano visibili e che l’orecchio “veda”». (Id: 168). Il montaggio delle attrazioni semiotiche mantiene una tensione tra il visibile e il dire che è fatta di assimilazioni e dissimilazioni. Una traduzione che non dice diversamente la stessa cosa: tra i segni c’è invece una mutua presa, l’ “intercattura” profondamente pensata dai surrealisti. Da Artaud in particolare, per cui «in presenza della pittura si coglie meglio la linea e il colore di una frase come se il quadro comunicasse qualcosa alle frasi».
Deleuze, a proposito di Bacon, e Derrida, sulla glossolalia di Artaud, hanno esplorato separatamente quel mondo comune ai pittori e agli scrittori in cui «la pittura infiamma la scrittura» (Deleuze) o viceversa «guardando certi quadri si ha come l’impressione che è la sillaba che lo ha generato e che “ra” s’espande nel tratto o nel colore» (Derrida). E sempre sulle fonazioni poetico-teatrali di Artaud, Derrida scrive: «Quando parla dei suoi disegni e dei suoi dipinti li richiama all’ordine del respiro. È un’esperienza del corpo e della voce che oltrepassa l’ordine della lingua e della grammatica», ma per cercare un’altra lingua scritta o verbale: ideofono o ideogramma1.
La semiotica vorrebbe articolare il suo linguaggio teorico con descrizioni che illustrano sistemi di pensiero molto diversi tra loro. E può farlo per l’oggetto della sua vocazione: lo studio della significazione espressa in diverse sostanze mediali. Con ovvi corollari: (1) in principio sta l’atto traduttivo tra sistemi segnici differenti: transduzione e tra tipi diversi di discorsi all’interno dello stesso sistema di segni; (2) tra(s)durre è sempre tradire, cioè mutare il senso – arricchirlo/impoverirlo; (3) l’intraducibile presente è un’abbondante riserva di tra(s)duzioni prossime e venture.
Nell’interstizio dei linguaggi – proferimento e iconizzazione – c’è dia-logo, cioè uno spazio di separazione e passaggio, di contratto e conflitto da cui emerge senso. Ma perché questa emergenza avvenga vanno “costruiti” il dispositivo del senso – le condizioni semantiche e sintattiche – e il diagramma immanente alle forze in gioco. Su quale piano o livello operare raffronti e diverbi tra i due linguaggi, quello pittorico e quello verbale? L’opposizione tra analogico e digitale non è pertinente: ci sono testi visivi che è possibile segmentare in unità isolabili e discontinue, come il disegno grafico, mentre nella lingua naturale esiste un piano di modulazione che scandisce un complesso ritmato ma insecabile: la prosodia.
Dipende quindi dal diverso modo, corpuscolare o ondulatorio, di istanziare i significanti, di articolare le sostanze grafiche o sonore. Esistono comunque concetti intermediari, come quello di “figurativo”, e dispositivi comuni, come quello di “enunciazione”, che sono all’opera nei due linguaggi e consentono di disporre un piano retorico comune2. Il progetto, però, deve seguire un’indicazione-istruzione preliminare: cominciare dall’articolazione dei significati nell’universo semantico coerente di Savinio e dalla varietà delle sue posizioni di enunciazione. A partire dalle forme dei contenuti e dalle tensioni enunciative si possono poi esplorare le equivalenze e le equipollenze, i valori e le forze dalle quali forse affiorerà l’ “incognita straniera” (Deleuze), irriducibile al semplice montaggio segnico. Per Savinio l’incognita è il «dipingere forte», per portare «con ogni mezzo la “cosa” dipinta al suo massimo d’intensità» e far «cantare la parola pittorica» (SS: 7).

2. I segni certi e l’ambivisione

Che segno è questo?
(NE: 344)

La semiotica non è disciplina deduttiva: non applica modelli preconfezionati ai suoi oggetti di ricerca. Predilige quindi gli autori come Savinio, provvisti d’una propria teoria a vocazione filosofica della lingua e dei segni; una teoria “connotativa” da rendere denotativa attraverso l’applicazione dei propri modelli.
Come il fratello De Chirico, Savinio ha una propria “teoria” segnica legata a un comune progetto “metafisico”. Per Giorgio, l’altro dioscuro, l’arte pensa per immagini con «pensieri del corpo» e queste immagini sono «i segni eterni dell’alfabeto metafisico»3. Questi segni, da esplorare con metodo, sono leggibili su due piani: al di là della evidenza figurativa si trova infatti uno strato più profondo, geometrico e topologico («la superficie d’un tavolo o i fianchi d’una scatola»). Lo stesso accade a Savinio: «segni la cui natura non é ancora possibile determinare avvertono il signor Dido ogniqualvolta stia per venire in contatto con lo psichismo delle forme» (SD: 766), Nella sua opera si trova una vasta tipologia e tassonomia di segni d’intelligenza, segni “parafulmini”, segni “minimi” e segni “di silenzio”. Anche l’acquisto di una casa per lui va effettuata «dopo attenta esaminazione di segni e di presagi per la metafisica salubrità del luogo» (CI: 197). È una semiologia “poetica”, rivelatrice e anticipatrice di un senso più profondo, che non appare “al di là delle cose fisiche”, ma al loro interno – come spettro, anatomia, architettura e geografia (O: 650).
Sappiamo che il declino della retorica, dalla fine del Settecento, è dovuto alla crescita dell’evidenza nel pensiero borghese: quella personale del protestantesimo, quella razionale del cartesianesimo e quella sensibile dell’empirismo. Contro queste evidenze i due dioscuri fanno appello a una retorica “metafisica”, in grado di attivare la doppia vista (o il doppio ascolto) che riveli – scopra ed esprima – la psiche degli oggetti e degli animali, delle statue e dei monumenti. Questa deuteroscopia o ambivisione, che è anche retrospettiva, darebbe «i segni certi» (CLV: 136) di un ordine più profondo e più originario. Le apparenze visibili sono eufemismi ed è per il «troppo attenersi alla inesistente realtà che la pittura è la meno filosofica delle arti» (NE: 317). Il visibile è abitato da un segreto invisibile da decifrare, il dicibile da un indicibile da dire altrimenti. La “metafisica” è metalinguistica e meta-ottica: legge il mondo fisico, naturale e costruito, come dispositivo astratto geometrico. Sulla scia di Weininger, e del fratello Giorgio, Savinio «vuol staccare la “cosa” dipinta dalla cosa reale, per implicarla in sé, per isolarla. La pittura ama se stessa». Il pittore fa emergere così una dimensione semiotica astratta di forme e spazi amati o odiati, una topo-filia o una topo-fobia (Bachelard). La repulsione per il cerchio – il «dovere di rinunciare alla seduzione del cerchio, salvarci dal cerchio» (NE: 207) – si oppone all’attrazione della spirale – «tourne, tourne, tourne, spirale» (CM-M, in Cirillo: 121). La chiusura iterativa del cerchio è “segno di prigionia”, non di perfezione, come dimostra la fobia dell’artista per la giostra, cerchio rotante irto di animali infantili. La spirale, aperta e mobile, è sottesa, per contro, a figure attraenti come il sole o la testa dell’Hermaphrodito.

Alberto Savinio, Hermaphrodito
Fig. 1. Alberto Savinio, Il riposo dell’Hermaphrodito (1945-47)

La percezione di questa (meta)fisica interna è attiva al livello macroscopico – le città contemporanee trasformate in giostre – e microscopico – una scala come insieme di volute, trapezi e cerchi; riguarda processi concreti – «un vecchio che camminava a grandi angoli tracciando sul marciapiede l’immagine di un fulmine» (CLV: 285) e astratti – il cerchio che va dal futuro al passato e dalla morte alla nascita. È un criterio di lettura delle arti: se Savinio predilige il pompeiano Narciso al fonte, è per la perfetta inclinazione delle diagonali: «gli piaceva il corpo lungo dell’adolescente posato in obliquo, così da tracciare tra l’angolo inferiore sinistro dell’affresco e l’angolo superiore destro una diagonale perfetta; gli piacevano i due monti fratelli del fondo, tanto simili e gemellari che nella concorde inclinazione delle cuspidi accompagnano l’inclinazione stessa del giovanetto»4. Ritroveremo questo schema profondo in molti dei suoi quadri, dove il nudo corpo inclinato dell’Hermaphrodito collega le ibride figure “genitoriali”5.

Alberto Savinio, Susanna e i vecchioni
Fig. 2. Alberto Savinio, Susanna e i vecchioni (1930)

3. La veglia chiaroveggente

La deformazione coerente dei segni linguistici e visivi che permettono l’accesso e il ripopolamento di questo universo semiotico è vincolato ad una contrainte: il trattamento diurno del sogno. Non si tratta di usare nel sonno dei residui diurni, ma di «far aprire nella veglia l’occhio con il quale vediamo i sogni» (CLV: 147). Nel lucore onirico Savinio scopre le condizioni di illuminazione ed “intenebramento” che permettono estasi di tempo e rivelazioni (Id, 206-207). «La sola logica vera e che consente le più “profonde” soluzioni risiede in taluni sogni particolarmente felici e da questi essa trapassa in noi» (voce “Sogni” in NE: 243). Nel trapasso di questi rari momenti, come nella “visione degli spiriti” di Schopenhauer, «emerge l’organo del sogno allo stato di veglia e così comunica alla coscienza cerebrale quella sua scoperta, in figure intuitive del significato: immediato o allegorico» (Id, 156).
Anche le lingue naturali hanno un senso diverso quando sono pronunciate in quel «teatro sperimentale dei sentimenti» (ACC: 92-93) che è il sogno.
Dalla mente appena desta, dove restano attaccati lembi di sogno, sgorgherebbe uno sguardo impersonale. «Si oscura, anche se non si cancella del tutto, il limite tra soggetto e oggetto» (CLV: 183) e da questa semi-oscurità viene una chiaroveggenza che è un costante sogno vero, un’intensificazione del sogno che rende visibili le visioni. Così Savinio può dire: «ho cercato la profondità nella chiarezza e ho fatto del ‘mistero’ un gioco tralucente» (NE: 343).

4.1 Frigidum signum: rivelazione e ironia

L’euristica di Savinio sta dunque nell’uso “mutante” del segno linguistico e visivo. Le sue procedure di scoperta sciolgono i segni, giocano con la metamorfosi dell’immagine e la meta-morfologia della parola.
La principale tattica linguistica di Savinio, poeta-pittore, riposa sulla freddura, che per lui è illuminazione e rivelazione, “sciarada scema” e uso sacro dell’idioma, dispositivo iconoclasta e di approfondimento psicologico.
Nel frigidum signum ciceroniano6 si scopre il carattere “bisenso” del segno e il suo meccanismo retorico. La freddura è un’antimetabole, legata alle figure dell’etimologia e del calembour; Savinio se ne serve come di un mallarmeano coup de dès, generatore di singolarità verbo-visive. Con una parva verbi immutatio – frutto di lapsus linguae, calami, pennicilli e macchina da scrivere – distrugge un senso o ne approfondisce e ne rivela un altro. Iconoclasta, per lui la freddura riuscita è un significato distrutto: scopre gli «architettati segreti del linguaggio e sventa i suoi inganni», per sciogliere poi la lingua e lasciar scorrere le idee. La variazione fonica, l’anafonia, è anche sovversione dei significati, anatema. La figura retorica dell’etimologia, per Savinio, è filologia dei poveri e la filologia una vasta freddura (NE: 262). Commutare una lettera, letteralizzare una metafora, assegnare ad un etimo, sospendono i “cognomi” delle cose, i significati fissi e arbitrari. Con questo vincolo – che con un plagio chiameremmo anticipatamente “oulipista” – Savinio si addentra nell’ “eufemistica” omogeneità delle cose per scoprire come convivono, nella stessa forma espressiva, le idee più disparate: «il delirio e la verità. Negli incontri fortuiti delle parole che creano bisensi e freddure i greci riconoscevano la voce della verità» (O: 464): il freddo spostamento dell’aria segnala il sacro o un misterioso ma sicuro approfondimento psicologico. «L’etimologia è la psicologia del linguaggio, il modo di penetrare l’anima delle parole» (NE: 20).
Nella ricerca della definizione esatta di un sentimento, la compassione per il dio “greco” ortodosso, Nivasio (Savinio) Dolcemare trova infatti, «non per ricerca ma per genesi spontanea», il proprio pseudonimo. Lo trova sotto forma di una freddura, «forma non rispettata ma rispettabile della genialità: compassione “dolceamara”» che costituirà la “svolta storica” della sua vita. «Fino ad allora Nivasio Dolcemare non aveva pensato al significato del proprio nome, al meccanismo, alle proprietà fredduristiche del proprio nome. Il suo nome gli era muto, anonimo, chiuso» (ND: 611). La freddura invece, «la forma più diretta, più mossa, più geniale dell’etimologia», mostra il suo carattere sacro di «scoperchiatrice di altari delle religioni», le quali pongono coperchi dorati sulle cose. In questa occasione Nivasio descrive le modalità estesiche e soprattutto visive della rivelazione freddurista: «Un’impressione di luce, di porta che si apre, di nuovo orizzonte. Una luce subitanea proiettata nell’interno, nel meccanismo, nel mistero delle cose». Il nuovo significato linguistico si converte somaticamente, diventa, prima, moto della carne, poi acquisizione cognitiva: «Ogni volta che una freddura “esplode” accanto a me io mi fermo, come se davanti ai miei occhi si fosse aperta una buca. Brivido. Rivelazione» (ACC: 215). Il bisenso semantico si fa corpo ermafrodito, cioè mediatore reversibile dell’ «etimologia nel santuario della parola e dell’alchimia nel santuario dell’universo». Secondo il dettato di Weininger, il poeta-pittore può allora diventare alchimista del sentimento e psicologo della natura. Ed è in questo senso che vanno lette alcune affermazioni di Savinio, per cui «all’origine di ogni grande operazione c’è un’idea equivoca» o «la letteratura superiore è un fitto tessuto di bisensi, se non addirittura di freddure» (NE: 328), e infine «gli uomini della poesia sono ermafroditi» (ACC: 13).
Da parte nostra ci interessa sottolineare la stretta omologia procedurale tra la retorica scritta e la retorica dipinta. I suoi lapsus sono verbali e visivi, fa uso insieme di mots– e di tableauxvalises. Savinio chiama parechesi i tropi della paranomasi (parole sue) e del “paragramma” (parole nostre); La “casa dello zio” diventa “casa dell’ozio”, la parola “brama” (il desiderio intenso) diventa il barrito dell’elefante e “Brahama” il supremo desiderio del mondo; il nome “Isabella”, dove “bella” é cancellato da una lacrima, è una freddura visiva così come Ishi, l’angelo caduto in terra e fuggito dalla ragazze per la sua freddezza, è gelido per paranomasi: an-gelo (CLV). Il freddurismo è contagioso. Si può dunque mettere in immagine metafore mezze-morte, come “mettere a fuoco” o “far il morto”, o far visitare profeticamente il Corno d’oro a due sposi di età molto diversa. Ed è possibile la più sfrenata invenzione neosegnica, verbale e visiva: neo-iconismi e neologismi, come disegnare uomini dalle teste di pesce e scrivere il lessema ‘ompescetti” (CLV: 141).
Nella retorica sincretica di Savinio è riconoscibile il funzionamento profondo della poesia che troviamo negli anagrammi di Saussure o nella semiotica di Jakobson, nel witz freudiano e nei calembours dei surrealisti. Per il nostro scopo è rilevante osservare, con Barthes, come l’estensione di una metafora conduca spesso all’ironia della gag. Accade nel racconto di Omero (Mero) Barchetta (CLV), che la moglie appena risvegliata dall’anestesia chiama Virgilio. «Nel gelo della situazione cosi stranamente creata affiora il comico dell’inaspettata contrapposizione di nomi» (Id: 211). Per Savinio «il solo carattere dell’uomo è l’ironia», non come beffa o burla, ma come «ricerca (anche in senso etimologico) e maniera sottile per insinuarsi nel segreto della cosa» (ACC: 324).
Perché questo accada è necessaria però un’ulteriore articolazione del dispositivo di senso: una semantica animista e la dinamica della metamorfosi.

4.2 Animismo e metamorfosi

La coerenza di un progetto artistico è anche l’effetto delle sua autodefinizione. Fin dal periodo metafisico Savinio si vuole antinaturalista e si proclama animista. «Sono invaso dall’animismo dei fenomeni e delle cose […]. Quando il battente del mio vetusto armadio si spalanca da sé perché il nottolino rallentato non sa più trattenerlo, mi dico che l’anima dell’armadio lo respinge» (H: 23). Non è solo la modalità di un progetto artistico, per esempio di una musique animiste, ma l’indizio di una postura filosofica antinaturalista: «da che l’uomo ha un rapporto con tutte le cose del mondo, occorre che tutte le cose siano già presenti in qualche modo in lui» (Id: 172). In alcuni racconti di Casa “La vita” (vedi Figlia d’imperatore) il protagonista si chiama Animo e l’angelo appartiene al grado celeste degli Ishi, cioè degli Animati.
Questo animismo, al di là degli esiti surrealisti, è riconducibile alla metafisica e alla “simbolica” universale di Weininger, volta a «scoprire cosa significhino il mare, il ferro, la formica, verso il significato più profondo delle cose» (Weininger). Ricordiamo che per Savinio e De Chirico la “poesia metafisica” è la scoperta e l’espressione non dell’al di là delle cose, ma della loro interna geografia, architettura e anatomia; della loro sembianza interna, del loro “spettro”. Il suo animismo, quindi, non va confuso con un analogismo generalizzato, in cui le singole entità del mondo – umane e non umane – vengono continuamente raggruppate e classificate secondo categorie e maschere arbitrarie.
Nel pensiero animista (Descola 2005, § 6) c’è una radicale «imputazione, fatta dagli umani ai non umani, di una interiorità identica alla loro»: interiorità che le differenze di forma servono a manifestare, comparare ed esplorare. Come osserva l’antropologo, anche il totemismo differenzia gli uomini attraverso specie animali, ciascuna dotata d’una propria ontologia, ma consente solo la possessione: un’entità o una forza che invade e si sostituisce ad un’interiorità altra, senza mutamento d’aspetto. L’animismo, per contro, è caratterizzato dalla mutazione incessante delle forme – metamorfosi – e delle sostanze – transustanziazione. «Uno dei principali compiti dell’artista é di guardare l’uomo (e la natura) nel suo continuo moto trasformativo e di vedere oggi la realtà di domani; e questo, ho capito, è la ragione della “trasformata” realtà di certe figure che io vado ora descrivendo con le parole, ora delineando con la matita, ora dipingendo col pennello e nelle quali lo spettatore superficiale non vede se non capriccio» (O: 473).
Poiché per l’animista tutto ha un viso, portatore di voce e di silenzio, proprio questo è il primo oggetto da stravolgere e svisare. Per un approfondimento psichico del senso o per sfuggire all’ordine dispotico della soggettivazione, il metafisico ci invita a praticare semiotiche più primitive, reversibili ed eterogenee. Vuol liberare le teste dai visi, sgombrandoli dalla loro espressività eufemistica o sostituendoli con musi animali. Per rendere pittoricamente un volto umano, a volte Savinio «lascia nel luogo della faccia un ovale neutro nel quale lo spettatore può idealmente collocare la faccia […] di chi più gli talenta oppure scendere così profondamente nella realtà dell’uomo figurato, da dare di lui una specie di radiografia intellettuale» (ND: 51). Inversamente, la raffigurazione di uomini con teste bestiali, come il celebre Autoritratto (1936),

Alberto Savinio, Autoritratto
Fig. 3. Alberto Savinio, Autoritratto (1936)

o di corpi animali con volti umani (Passeggiata, 1947) sarebbe «la ricerca del carattere, di là dagli eufemismi della natura, di là dalle correzioni della civiltà, di là dagli abbellimenti dell’arte» (SS: 7).
Secondo Savinio, infatti, è possibile a certe anime trasmigrare in altri corpi e cose e che «certe persone “realizzino” speciali “possibilità” animali» (CLV: 190) e viceversa. Come Cocteau – “cos’è nascosto sotto le righe cancellate della zebra?” – il poeta-pittore pensa per animali: il suo “darwinismo immaginario” è racconto letterario e raffigurazione pittorica di corpi ibridi di uomini (e dei) e di animali il cui destino è un approfondimento psicologico reciproco, che consente modi inediti di comunicazione. Così, «la metamorfosi come “mutamento di faccia” non è mostruosità ingiustificata […]; la trasformazione di tre sorelle in rondini è la poetica espressione di una “scoperta” psicologica» (SS). Sebbene non sia stata redatta la lista completa delle combinazioni, delle sostituzioni e permutazioni totali e parziali, il tratto animistico rivela che queste creature non sono statiche, ma in fieri, e ritratte nei diversi stadi d’un processo di metamorfosi. C’è un divenire animale dell’antropomorfo – uomo e dio – e un divenire umano dell’animale – reale o immaginario. Come il cane di Trololò, che «si formò un corpo d’uomo che assieme era il corpo di Trololò», il quale «porta, reale, il paltò che […] portava per metafora e parlava come un uomo che parla più con voce di cane che come un cane che parla con voce d’uomo» (CLV: 154).
L’animismo di Savinio non s’arresta alla natura – gli uomini possono mutarsi in alberi o in pietre – ma investe gli oggetti fabbricati, in particolare quelli contenuti nella casa, mobili e giocattoli. Le cose si fanno avanti con inchini e gli specchi si rizzano sulle zampe. Le macchine da scrivere impongono con misteriosa insistenza parole diverse da quelle volute «che è forse la grafia vera […] che noi ignoriamo ma conoscono le macchine da scrivere, queste complici fedeli del vocabolario segreto» (NE: 201).
Come e più di De Chirico7, le pagine e le tele di Savinio filano un’incessante metonimia. Gli oggetti vivono nel topos domestico «come segni vivi, caldi, palpitanti degli inquilini che ne sono appena usciti» (NE: 344), i sedili ad esempio, «caldi d’uomo» e che conservano gli atteggiamenti e le forme dei loro padroni. «Amare è animare, le cose inanimate si animano se amate» (CLV: 250). C’è una tensione testuale in questo “gioco di mobili” dall’aspetto familiare e umano nel loro uso e nella loro disposizione. Sono mobili storici, segni della storia dell’autore, che culmina nello straordinario racconto della visita a una dimora disabitata: Casa “La vita”. Ed è un dispositivo onnipresente: «in mezzo al tonfo subacqueo degli antichi mobili rimossi, vaste credenze brillavano di balocchi curiosi e occhiuti» (AI: 102). I diletti giocattoli colorati dell’infanzia occupano le camere e i paesaggi, i mari e i cieli dei quadri dell’artista, fino a sostituire, con le scatole variegate dell’Isola dei Giocattoli (1930)

Alberto Savinio, L'isola dei giocattoli
Fig. 4. Alberto Savinio, L’isola dei giocattoli (1930)

le lapidi delle tombe dell’Isola dei morti (1880) di Arnold Böcklin. Per Savinio persino la pittura di Giotto è «la mamma dei giocattoli» (ACC: 62).

4.3. Prospettivismo e anamorfosi

Mentre il naturalismo crede alla differenza delle interiorità e alla continuità fisica, la forma di vita animista postula invece una continuità degli animi soggiacente alla diversità delle forme. Questa diversità non è però senza effetto: è anzi la causa del prospettivismo generalizzato con cui ogni specie vede le altre. In Savinio ci sono immagini osservate da un sguardo infantile, lo stesso che racconta la figura prodiera dell’Andromeda in Tragedia dell’infanzia: «quella donna attaccata allo sprone della nave, le mammelle a rostro, il ventre fasciato da un panno che le ondeggiava dietro a coda di drago, incatenata per i gomiti e che fissava l’orizzonte con gli occhi revulsi dal terrore» (TI: 490-493). E dallo stesso occhio-bambino – in cerca di un «peché» – sono riprese La nave dispersa (1926),

Alberto Savinio, La nave dispersa
Fig. 5. Alberto Savinio, La nave dispersa (1926)

I pirati (1929), Ricordi di infanzia (1931). Nei quadri di Savinio, tuttavia, non è solo l’occhio umano ad aprirsi sul mondo. La deissi cosmologica muta: anche le cose hanno diritto di sguardo sugli animali e sugli uomini, come dimostrano L’abandonné (1929), Idillio marino (1931),

Alberto Savinio, Idillio marino
Fig. 6. Alberto Savinio, Idillio marino (1931)

Battaglia di centauri (1931). A questo si deve il loro aspetto “surreale”, che è anche il risultato del sovrapporsi di sguardi diversi nella stessa immagine: le figure ibride, metamorfiche, sono la sinossi di sguardi portati da attori di natura diversa. La prospettiva simultanea di un adulto e di un bambino, presente in Ulisse e Polifemo (1931),

Alberto Savinio, Ulisse e Polifemo
Fig. 7. Alberto Savinio, Ulisse e Polifemo (1931)

si manifesta anche nelle sembianze della cantante del teatro Lanarà, l’anfibia Apolla, visione olimpica per il figlio-bambino e cagna agli occhi del padre adulto, e in quelle di un vecchietto che il bambino “immagina” con la testa d’una cicogna parlante. (TI: 524). Per via comparativa una conferma è data da Il fiume (1950), inquadrato da un punto di vista unitario, e da Paesaggio tropicale (1931),

Alberto Savinio, Paesaggio tropicale
Fig. 8. Alberto Savinio, Paesaggio tropicale (1931)

dove gli sguardi si sdoppiano: in un paesaggio “adulto” scorre un “fiume” geometrico e colorato.
A casi di prospettiva simultanea diretta da bambini e cose se ne alternano altri in cui sono i punti di visione dell’animale e dell’uomo a sovrapporsi, come in Dei del mare (1929), Nettuno (1931), Gli Atlantidi (1931),

Alberto Savinio, Gli Atlantidi
Fig. 9. Alberto Savinio, Gli Atlantidi (1931)

Il timoniere d’Omero (1931), Il sonno di Eva (1949).
Con l’applicazione del prospettivismo si spiega la vista dal basso che distorce gran parte dei ritratti di Savinio. Sappiamo che nei suoi sogni appaiono «alti personaggi a cono, molto espressivi ed eloquenti, sebbene privi così di faccia come di parola» (H: 342). E allo sguardo infantile si presenta una singolare forma piramidale o a cono che ne sproporziona i corpi, accentuando la parte inferiore della figure – piedi, mani – e rimpicciolendo il capo calvo dei manichini, i volti umani o i musi animali. «In cima a quella enorme campana […] la testa a pera culminava in un conetto giallastro, sotto al quale due dischi argentei si arrotondavano: gli occhi, presumibilmente, e il loro contorno di orbite» (SD: 819). Si comprende, così, l’esistenza di molti ibridi umani con “enigmatiche testine” di tacchino e in particolare di giraffa8, animale che per Savinio è un segno del silenzio. Lo è anche, in proposito, quello harpocratico posto sul labbro di Ishi, il celeste messaggero caduto sulla terra nel racconto Angelo (CLV) e che è incapace di rispondere alle domande sull’esistenza di Dio.
Il vedere diventa un visibilio e la metamorfosi un effetto dell’anamorfosi.

5. Per un lessico di motivi

Per un animista come Savinio ogni natura morta è still life, vita silente. È un tableau vivant abitato da animali, mobili e giocattoli, ma anche da simulacri di figure antropomorfe che formano un sistema attoriale interdefinito.
Alla stregua di Calvino, Savinio si è costruito, con la letteratura e la pittura, una propria “icastica”, un’idiosincratica iconografia fantastica, i cui elementi sono presenti fin dagli Chants de la mi-mort. Ha disposto quindi, tra gli Animali umanizzati e gli Dei zoomorfi, un raggruppamento di simulacri semioticamente interdefinito: Statue e Fantasmi, Angeli, Ombre e Manichini.

Quadrato semiotico

Il quadrato semiotico organizza le figure sul piano del paradigma e delle sequenze. Nei rapporti paradigmatici (1) le Statue si oppongono agli Angeli come i Manichini ai Fantasmi e alle Ombre; (2) tra il Manichino e la Statua c’è una relazione di presupposizione, come tra Fantasmi e Angeli; (3) ci sono termini complessi, ibridi di Angeli statuari, e termini neutri, come i Manichini Ombra-Fantasma, che parlano il linguaggio degli sciantropi, uomini-ombra (NE: 121). Sul piano sintagmatico si susseguono le metamorfosi: tutti gli stadi possibili dalle Statue ai Fantasmi, e di là verso gli Angeli, o reversibilmente dagli Angeli ai Manichini, fino alle Statue. Savinio ha iscritto questi attori nei dipinti e nei racconti, creando un suo lessico di motivi narrativi sottoposti a continue varianti. Per il fratello sono «pedine d’enigmi, mosse con segreti solo a lui noti»9, che tocca al critico decifrare.

5.1 Statue in divenire

Nella rete di questi simulacri la Statua è il nodo più frequentato, l’esito e l’avvio dei moti di metamorfosi. Per i dioscuri, lettori di Schopenhauer, «l’uomo in statua è anche più sognante dell’uomo che sogna». Di qui l’invito dechirichiano ai pittori, che Savinio avrebbe sottoscritto: un invito «alle statue, per imparare la nobiltà e la religione del disegno, alle statue, per disumanizzarvi un po’, ché malgrado le vostre puerili diavolerie, eravate ancora umani, troppo umani»10.
Il frigido attore di pietra, immoto nel suo eterno presente, affolla la produzione di Savinio: titoli letterari – Morte dell’ingegnere, marmo pieno (AI: 193) -, rocce canterine (Id: 81), monumenti immaginari e reali, tra cui la folla di statue nelle mostre e le statue sopravvissute ai bombardamenti di Milano. Ci sono perfino sogni che le hanno per protagoniste mentre scavano e rinvengono dalla terra altre statue.
Fin da scritti giovanili come Psicologia dello stupore, Savinio inventa, per la parola “esterrefatto”, l’etimologia maccheronica «fatto di terra» (ex terra factum): «espressivamente il linguaggio dà l’idea dello stupore mediante l’uomo ridotto a materia: diventar materia». Ma è in un racconto di Casa “La Vita”, Flora, che Savinio ha approfondito «la vita misteriosa delle statue; le quali non sono materia inanimata […], ma creature che già furon vive e poi imbalsamate nella pietra, ov’esse abitano per sempre, in compagnia della loro anima e dei ricordi della loro vita mortale» (CLV: 73)11. Per l’animista – ora lo sappiamo – ogni stato del mondo è l’estasi di una metamorfosi. Come nell’Hebdomeros di De Chirico, le statue di Savinio possono impietrire definitivamente, perdendo la «goccia di vita in mezzo alla fredda pietra che le anima» (CLA). Ma possono anche scaldare ed enfiare quella goccia, così da «spanderla per tutto il corpo di marmo e intiepidirlo e dare colore alle labbra e luce agli occhi», fino a prendere la parola: Flora, antica statua da giardino, trova nell’amore di un uomo, Marco, la forza del sorriso, del respiro e di un suono che viene dal cuore della pietra e pronuncia un vocativo latino, “Marce“. Ecco «la ragione metafisica di ogni statua, ossia la sorpresa e il richiamo» (ACC: 294)!12
A Roscioni (1974) non sembra interessante «stabilire se le statue sono esseri pietrificati o non piuttosto marmo animato, poiché ciò che soprattutto conta in queste figure è il loro paradosso, la loro forza d’urto». Così facendo, tuttavia, non si comprenderebbero più i monumenti anticipati di generali che si trasformano in statue insieme ai loro cavalli bianchi (AI: 191) o le statuarie tenniste biancovestite che Marco, il protagonista di Flora, non può amare per il loro sudore umano, ancor troppo umano. Il malinconico Marco giunge invece al suo amore esterrefatto, al bacio della statua, attraverso un processo di “orfeizzazione”: un diventar statua che lo conduce, dalla partecipazione, in sogno, a un pranzo di statue ad una tragica conclusione. In un composto metafisico molto saviniano e pronto per la traduzione pittorica, Marco esterrefatto si impicca alla statua mozza di Flora con lo scialle nero della fidanzata Edmea, mutilata anch’essa e nera come un’Ombra. «L’Ombra è la luce che la rivela Immagine» (NE: 280).
Potremmo leggere il racconto di Savinio come un’inversione ironica della fantasia pompeiana di Jensen, la Gradiva “tradotta” da Freud. Le ragioni non sono poche, a cominciare dall’animismo che caratterizza il suo “perturbante” (unheimlich): Zoe, la protagonista, è infatti soggetta, nell’allucinazione dell’archeologo, a molte trasformazioni tra la viva carne e la statua. Incidono poi soprattutto l’ironia ad occhi aperti che abita l’universo fantastico e il gusto per il witz che il pensiero onirico manifesta nel legare il comico alla morte. Una narrazione-freddura? Le statue di Flora, nel loro banchetto, mangiano sassi al sugo, per esplicito suggerimento di Achille Campanile!
I surrealisti, da Breton a Cocteau, da Dalì a Masson fino a Delvaux, ammobilieranno di molte statue il loro humour immaginario.

6. Occhi e frames

Il dispositivo visuale dell’enunciazione enunciata, ossia la raffigurazione dell’atto pittorico nell’opera di Savinio, meriterebbe maggiore attenzione. Si potrebbe cominciare dagli Occhi e dai Riquadri. Oltre alla rappresentazione meta-linguistica dell’atto della scrittura – Ricordo calligrafico (1926), Autoritratto (1927), Scoperta di un mondo nuovo (1929) – molto rilevante è la tematizzazione meta-scopica dell’Occhio, degli strumenti e dell’atto del guardare. Savinio era vivamente impressionato dal fatto che il prediletto Bocklin disegnava partendo dall’occhio (NUVS: 42). Così, le figure ambivalenti del dioscuro sono spesso osservate da un unico occhio e nei suoi quadri e disegni troviamo grandi occhi isolati e veggenti o figure monocole e mitiche: Il dio greco (1941), La nonna (1937),

Alberto Savinio, La nonna
Fig. 13. Alberto Savinio, La nonna (1937)

Monumento a dio (1945), Il sonno di Eva (1949)13. In L’anatomico (1951), il vivo e il morto condividono la lente dello stesso occhiale.
Ancora da costruire è inoltre la ricca tipologia dei frames, cioè delle incorniciature rappresentate: i frequenti Piedistalli di sostegno da cui possono scendere e salire le figure; le Cornici interne, tra cui le intelaiature delle finestre, provviste di tende, o i quadri, da cui possono fare irruzione, col corpo o con gli sguardi, i simulacri – angeli, statue, fantasmi, ombre – di cui si è appena intrecciata la rete. Vale qui per Savinio l’enunciato di De Chirico: «Il paesaggio, chiuso nel quadrato o nel rettangolo della finestra, acquista maggior valore metafisico perché si solidifica e viene isolato dallo spazio che lo circonda. L’architettura completa la natura»14. Per la regola del prospettivismo animista, però, il mondo saviniano può essere visto a partire dal quadro; la natura è collocata su un piedistallo o può uscire da un quadro (Senza titolo, 1928) e troviamo l’intelaiatura-cornice trasportata in pieno paesaggio (Marina, 1929).

Alberto Savinio, Marina
Fig. 14. Alberto Savinio, Marina (1929)

Anche l’enunciazione è presa nel ciclo della metamorfosi.


Bibliografia

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Achille innamorato (Gradus ad Parnassum) (AI, 1938), Adelphi, Milano, 1993.
Infanzia di Nivasio Dolcemare (ND, 1941). In Hermaphrodito, ed. 1995.
Narrate, uomini, la vostra storia (NUVS, 1942), Bompiani, Milano 1942.
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Ascolto il tuo cuore, città (ACC, 1943b), Adelphi, Milano 1984.
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Note

  1. Cfr. Fabbri 2005. torna al rimando a questa nota
  2. È quanto direbbe Manganelli, per cui la pittura sarebbe una «letteratura dell’inesistente, nulla illustrato»; i quadri inseguirebbero dei libri a venire, tentando di sedurli e catturarli. Commentando un quadro di Paul Delvaux, Les phases de la lune II, Manganelli nota come «la figura è progettata perché evochi dal nulla dello spazio letterario un libro congruo […], un libro che non c’è e che tuttavia solo in forza della sua potenzialità ha reso possibile, anzi necessaria, la formulazione dell’opera pittorica». In Illustrazioni di libri inesistenti, cfr. Manganelli 1987, 137-140. torna al rimando a questa nota
  3. G. De Chirico, Sull’arte metafisica, 1919. Ora in De Chirico 1985, 83-88. torna al rimando a questa nota
  4. Cfr. Elogio della pittura greca del museo di Napoli. In Savinio, O: 261. torna al rimando a questa nota
  5. Sulla figura dell’ermafrodito e dell’androgino, come «dominanza nel soggetto di quel che c’è di materno», cfr. Barthes 1977-’78. torna al rimando a questa nota
  6. Cicerone, De oratore, libro 2, LXIII, 255: «Sed scitis esse notissimum ridiculi genus, cum aliud exspectamus, aliud dicitur: hic nobismet ipsis noster error risum movet: quod si admixtum est etiam ambiguum, fit salsius […]. [256] Sed cum plura sint ambigui genera, de quibus est doctrina quaedam subtilior, attendere et aucupari verba oportebit; in quo, ut ea, quae sint frigidiora, vitemus, – est enim cavendum, ne arcessitum dictum putetur – permulta tamen acute dicemus. Alterum genus est, quod habet parvam verbi immutationem, quod in littera positum Graeci vocant paronomasian» (ACC: 216). torna al rimando a questa nota
  7. Cfr. Statues, meubles et généraux, 1927. Tr. it. in De Chirico 1985, 277-280. torna al rimando a questa nota
  8. Vedi la voce “giraffa” in Savinio 1977. Sono anche possibili teste in forma di spirale, come nel già incontrato Riposo dell’Hermaphrodito (1945-47, [Fig. 1]) o in La partenza della colomba (1929), teste chiuse da griglie, come in Voilà mon rêve (1928),
    Alberto Savinio, Voilà mon reve
    Fig. 10. Alberto Savinio, Voilà mon reve (1928)

    e teste ad anello, tipiche degli angeli (La visitazione, 1930;

    Alberto Savinio, La visitazione
    Fig. 11. Alberto Savinio, La visitazione (1930)

    Fine di una battaglia d’angeli, 1930). Ma ce ne sono anche con orologi al posto del viso (Fedeltà, 1949) concetto che può essere espresso con teste di animali (La sposa fedele, 1929). torna al rimando a questa nota

  9. Cfr. De Chirico, Alberto Savinio, 1940. Ora in De Chirico 1985, 366-368. torna al rimando a questa nota
  10. Cfr. De Chirico, Il ritorno al mestiere, 1919. Ora in De Chirico 1985, 93-99. torna al rimando a questa nota
  11. Vedi anche il trattamento cinematografico di Vita di Mercurio (1945) in Alberto Savinio. Il sogno meccanico, a cura di V. Scheiwiller, Milano, Libri Scheiwiller 1981. torna al rimando a questa nota
  12. Per la rappresentazione figurativa di Statue semi-animate vedi Scena antidiluviana (1929), Sogno del poeta (1929), Monumento ai miei genitori (1950).
    Alberto Savinio, Monumento ai miei genitori
    Fig. 12. Alberto Savinio, Monumento ai miei genitori (1950)

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  13. Troviamo inoltre il motivo dello sguardo realizzato accanto alla spirale ne Il balcone (1937), Il riposo dell’Hermaphrodito (1945-47) e il Monumento a Dio (1945). torna al rimando a questa nota
  14. Cfr. De Chirico, Il senso architettonico della pittura antica, 1920. Ora in De Chirico 1985, 100-103. torna al rimando a questa nota
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