Prima Donna: la Saraghina tra Picasso e Kafka


Da: Fellini-Amarcord. Rivista di studi felliniani, Fondazione Fellini Editore, Rimini, n. 3-4, dicembre 2001.


Ho preso sogni per segni. Lapsus o distrazione?
In effetti in un convegno sul mondo onirico, sono ammessi i lapsus; ed è vero che l’intensità visionaria di Fellini ci lascia sovrappensiero, in quello stato speculativo in cui si finisce per essere distratti. Comunque sia, ho preso i sogni, oggetto del nostro colloquio, per i segni, che è il mio metodo di studio.
Una ragione o una passione, c’è. Come ad Italo Calvino, a me non piacciono i sogni “reali”, perché sono confusi, casuali, imprecisi. Preferisco invece i sogni letterari e cinematografici, se espressi da segni esatti, da finzioni ben costruite. È il caso dei sogni di Fellini: quelli che ha portato sulle pagine o sullo schermo, e molti quelli rievocati oggi. Quello che mi interessa quindi non è il trattamento della realtà che compiamo di notte, il sogno “vero e proprio”, ma il trattamento diurno del sogno, il modo con cui la creazione fantastica fa entrare il sogno nel reale. Il momento in cui l’immaginario si dota del rigore e della flessibilità del segno.
Ho scelto quindi di evocare una delle figure maggiori del cinema di Fellini: la Donna enorme, la “prima donna” in tutti i sensi della parola; Ur-donna unica, composta di tutte le donne possibili: la Saraghina. E vorrei dimostrare come questa figura locale (e generale, come altri termini di Fellini: paparazzo, amarcord, ecc.) dal trattamento notturno della realtà pervenga al trattamento diurno del sogno. Farò appello, non agli aneddoti adolescenziali sempre reinventati, come le chiacchiere e i pettegolezzi, ma alla cultura pittorica e letteraria di Fellini, fondamentale per la sua creazione. È attraverso la mediazione di questa cultura che le pulsioni e le tensioni della psiche diventano testi: sceneggiature, disegni e film.
Ho scelto due autori cari a Fellini, come la critica ha rilevato da tempo: Picasso e Kafka. Credo che si debba premettere che in questi artisti Fellini ha trovato una corrispondenza con quanto già c’era in lui, le sue pulsioni e i suoi desideri, ma che senza Kafka e Picasso, il grande regista non avrebbe trovato il modo inimitabile del suo esprimersi.

1. Picasso e Silvia-Anita

In Fare un Film, titolo che porta le sue iniziali, Fellini ha riportato alcuni sogni in cui Picasso gli fa segno1.
“[…] ho sognato Picasso. È la seconda volta che lo sogno. La prima volta (anche allora attraversavo un periodo di confusione e di sfiducia) stavamo in una cucina che era chiaramente la cucina di casa sua, un enorme cucinone pieno di cibi, di quadri, di colori. Parlammo tutta la notte. Nel sogno dell’altra notte invece c’era un mare sconfinato che mi pareva quello che si può vedere dal porto di Rimini: un cielo scuro temporalesco, le onde verdi, livide, punteggiate dalla creste bianche dei giorni di tempesta. Davanti a me un uomo nuotava con poderose bracciate, la testa pelata affiorante dall’acqua, appena una crinierina canuta sulla nuca. Ad un tratto l’uomo si voltava verso di me: era Picasso che mi faceva segno di seguirlo più avanti, in un posto dove avremmo trovato dell’ottimo pesce. È un bel sogno no? Dici di no?”.
Io dico di sì: bello, per l’amarcord riminese, ed esplicito.
Ricordo che Fellini aveva appena conosciuto Picasso: l’aveva incontrato una volta sulla Croisette a Cannes, senza riuscire a parlargli. Lo conosceva invece attraverso Jung, nel saggio su Picasso, che molto apprezzava (“mi capitò in mano il saggio di Jung su Picasso e ne rimasi abbagliato”). Ma sopratutto lo colpiva come teorico e come pittore.
Conosciamo i gusti pittorici di Fellini: la fascinazione per Piero della Francesca e De Chirico, la preferenza per Matisse contro Magritte. La sua intenzione di realizzare con Satiricon un film di soli quadri fissi, “senza carrellate e altri movimenti di macchina. Un film tutto da contemplare a somiglianza dei sogni”.
Ma Picasso piaceva a Fellini per due altre ragioni: una di teoria poetica e l’altra di raffigurazione erotica.
La prima consiste nel ruolo dell’esperienza cubista nella sua vita artistica. La condensazione in una stessa figura d’una molteplicità simultanea di punti di vista è stata esemplare per Fellini in un momento di crisi creativa, dopo il Bidone. Si trattava di tagliar corto con le esperienze narrative naturaliste del suo primo cinema, di rompere con la forma narrativa canonica per focalizzarla da diverse angolazioni. C’è nei film seguenti di Fellini un “cubismo” della struttura narrativa. Non era solo questione, sono parole sue, di “finire con parti via via più monche, lacerate, frammenti, una magmatica liberazione delle immagini”. Al momento del montaggio e del missaggio, quando si tratta di articolare le sequenze dei fotogrammi fra loro, con la voce e la musica, allora la “cucina” di Picasso – “cibi, quadri, colori” – contribuisce in maniera decisiva alla decostruzione-ricostruzione delle storie. Picasso, cioè il modo picassiano, lo guida in modo vigoroso ad affrontare le turbolenze e le indeterminazioni creative per giungere ad un’altra forma di configurare azioni e passioni nelle storie2. Il Fellini notturno sogna quadri e colori perché “nel sogno il colore è concetto, idea sentimento, come nella pittura veramente grande”. E il Fellini diurno, regista, autore di quadri viventi, coglie questi suggerimenti e suggestioni da par suo: “con una golosità, i cibi, i pesci, tesa a cogliere sollecitazioni positive”. Una lezione durevole: quando si chiede a Fellini se esista uno specifico televisivo rispetto al cinema la sua risposta sarà “la Tv per me è soltanto un altro modo di far del cinema: come Picasso che quando smette di fare quadri e fa invece ceramiche”.
In questa occasione mi soffermerò tuttavia su un’altra dimensione, sull’alta consonanza di gusti fra i due artisti quanto alla raffigurazione erotica della figura femminile. Al di là della qualità del tratto, le rispondenze sensuali e iconografiche fra molti disegni erotici di Fellini e Picasso sono sorprendenti. Tra gli addetti ai lavori felliniani, i disegni sono ben noti: è ovvio ricordare il ruolo riservato a quelle che il regista chiamava, qualche riga oltre il sogno di Picasso, “le solite culone beneauguranti”. Nell’intervento che mi ha preceduto, il professor Canestrari ha sottolineato che, nella scelta fra seguire l’analisi freudiana o la notevole silhouette posteriore di una donna, Fellini non nutriva esitazioni. E ne ha dato ragione: “All’inizio di ogni film, passo la maggior parte del tempo alla scrivania, e non faccio che scarabocchiare chiappe e tette. È il mio modo di inseguire i film, di cominciare a decifrarlo attraverso questi ghirigori. Una specie di filo d’Arianna per uscire dal labirinto”.
In un dipinto degli anni ’60 di Picasso, una variante molto conosciuta della Casta Susanna, c’è un nudo di stazza felliniana sottoposto allo sguardo voyeurista di alcuni personaggi tra cui il pittore. È un tema figurativo prediletto da Picasso e dalla storia della pittura. Vi è poi un’altra figura femminile di Picasso, anch’essa molto dotata da quel punto di vista privilegiato: è un’altra Casta Susanna, sempre spiata da numerosi uomini. Li abbia conosciuti o no, Fellini doveva ritrovarsi in questi disegni, caratteristici di tutto un periodo dell’opera di Picasso. Sono infatti, se così posso esprimermi, propriamente felliniane queste immagini, alcune soltanto tra quelle della mostra Picasso érotique, che devo alla collaborazione di Jean-Jacques Lebel3. In questo disegno c’è un personaggio occhialuto che osserva, e non solo, un’attrice succinta. I gusti cinematografici di Picasso sono palesi. Si tratta di fotografie, in varie e procaci pose, di prosperose stelle hollywoodiane, ritoccate a matita dal pittore spagnolo. Come una piccante Esther Williams, accompagnata dal disegno sovrapposto d’un libidinoso gentiluomo che la tocca nei posti giusti, evidenziati da Picasso con pochi, ma espliciti interventi. Per sottolineare le convergenze, oltre ai noti disegni di Fellini, ricordo la sua predilezione per i manifesti con figure di attrici. “Una sera, con un amico ritagliai, servendomi d’una lametta, l’immagine di un’attrice che mi sembrava bellissima: Ellen Meis. Stava in un film con Maurizio d’Ancora, Venere mi pare”. Una Venere cinematografica dalla bellezza enorme, non quella ideale del Botticelli, ma la femminilità eccessiva che troveremo spalancata nel quadro in cui Picasso riprende Courbet: L’origine du monde. E nella Gigantessa del film Casanova. Mi pare che ciò dica quel che ha da dire, e ricordo appena i disegni di sapore molto felliniano che spingono a ricordare che Priapo era il figlio di Venere: tanta mater tantus filius.
Per concludere, il disegno che il regista dedicò a Picasso, utile per intendere il seguito. Si tratta, di Anita Ekberg, meglio della Silvia de La dolce vita, durante la visita a San Pietro, in abito talare: i seni prorompenti di “Anitona” sembrano l’oggetto di scambio “beneaugurante” che Fellini propone a Picasso.
Conclusione provvisoria: la figura della Saraghina di Fellini è certamente il frutto di un’esperienza intima e personale; per giungere, però, alla dimensione figurativa, segnica e testuale i sogni d’infanzia passano attraverso i segni: dai ghirigori privati alla grande pittura per approdare al cinema. Le pulsioni, il piacere e il dolore per diventare opere devono salire i gradini del Parnaso.

2. Kafka e Brunelda-Anita

Fellini (fc): L’avete letta l’America di Kafka?
Primo giovane: (ridendo) Eh, no!
Secondo giovane: No…
Fellini: Beh, se tutto andrà bene dovrete leggerla…
(Intervista, 24. Teatro di posa, interno giorno)

In un film che mi accingo a rievocare, Fellini, che nel film è inquadrato accanto all’Anitona, replica a chi gli dice che è bella: “Bella? È mitica”.
Il film è Intervista4 che è, anche, la trasposizione di America di Kafka5. Trasposizione realizzata e non solo tentata, come sostiene una vulgata fellinista che il regista stesso ha maliziosamente fuorviato. Vorrei dimostrare infatti che di questo libro fondamentale e incompiuto c’è stata una realizzazione molto rigorosa, anche se ciò non è accaduto là dove l’aspettavamo.
Sulle ragioni della passione di Fellini per Kafka, non è il caso qui di soffermarci; lo interessavano “le metamorfosi del poeta profeta, Kafka appunto, la zona d’ombra, il modo di affrontare l’aspetto misterioso delle cose, la loro indecifrabilità, il senso del labirinto, del quotidiano che diventa magico”6. Proprio il trattamento diurno del sogno.
Devo però premettere un’osservazione, e come una veduta d’insieme sull’opera di Fellini. L’eccedenza dei personaggi di donna, le enormi Saraghine filtrate attraverso la pittura di Picasso, Veneri spropositate con Priapi proporzionali, sottolineano l’aspetto comico, grottesco della sessualità. Non dimentichiamo, parlando di sogno, che la sessualità può essere trattata comicamente: non è sempre la tragedia della significazione, può essere anche la sua commedia. Per Freud, ad esempio, i prodotti dell’inconscio, con le loro metafore e metonimie, erano d’un umorismo involontario.
Ora, chi ha visto limpidamente in Kafka la dimensione comica della sessualità e ne ha combattuto l’immagine eroica di martire dell’umano soffrire, è Milan Kundera7. Egli si è riferito precisamente a Brunelda, un personaggio centrale di America a cui è dedicata molta parte del film Intervista. In particolare al casting delle possibili prosperosissime interpreti di cui è incaricato il personaggio di Maurizio Mein (che ha il cognome dell’attrice-Venere dei ricordi felliniani). Per scrupolo di memoria, ne richiamo alcuni tratti: nella seconda parte del grande libro di Kafka, Karl Rossman, il protagonista, è condotto dagli amici-nemici Delamarre, francese, e Robinson, irlandese, e poi rinchiuso in un’abitazione situata in un altissimo edificio. È la camera misteriosa e caotica d’una ex-cantante lirica, Brunelda appunto, l’enorme prima donna che ritroveremo con Karl nell’attraversamento urbano che occupa gli ultimi due frammenti del libro.
Ed ecco lo straordinario ritratto tracciato da M. Kundera:

Il gioiello erotico di America è Brunelda, è lei che ha incantato Fellini. Da molto tempo sogna di trarre un film da America e in Intervista ci mostra la scena del casting di questo film che ha sempre sognato. Appaiono diverse incredibili candidate al ruolo di Brunelda, scelte da Fellini col piacere esuberante che gli conosciamo. Ma insisto, questo piacere esuberante è anche quello di Kafka. Kafka non ha sofferto per noi, si è divertito anche per noi. Brunelda, l’ex-cantante lirica, così “delicata” che ha del miele fra le gambe. Brunelda dalle piccole mani grassocce, con il doppio mento, smisuratamente grossa, enorme. Brunelda che, seduta con le gambe aperte, con grandi sforzi, soffrendo molto e riposandosi spesso si china per prendersi il bordo delle calze, bianche e di lana, ricordate! Brunelda che rimbocca il vestito, un vestito rosso!, e con l’orlo asciuga gli occhi di Robinson che piange. Brunelda, incapace di salire due o tre gradini, deve essere portata, spettacolo che impressionò tanto Robinson da fargli dire: “Ah com’era bella quella donna! Ah mio Dio, sì che era bella!”. Brunelda in piedi nella vasca da bagno, lavata da Delamarche, mentre si lamenta e piagnucola. Brunelda furiosa, sdraiata nella vasca da bagno, che picchia i pugni nell’acqua. Brunelda che due uomini impiegano due ore a discendere le scale e a mettere in una sedia a rotelle, preoccupati di avere eventualmente una seconda sedia a rotelle nel caso rompa la prima, che Karl spingerà poi attraverso la città verso un luogo misterioso, probabilmente un bordello, la Saraghina è una prostituta appunto e Fellini ha realizzato in Roma dei grandi bordelli, popolati di donne enormi! Brunelda che sta sul mezzo di trasporto completamente coperta da un enorme scialle grigio e che un poliziotto scambia dapprima per un sacco di patate; per poi commentare:”Ma come, tanto? Ed è un’unica donna?”, non dimenticate: prima donna! Ciò che è nuovo in questo disegno di enorme bruttezza, continua Kundera, è che lei è attraente, morbidamente attraente, ridicolmente attraente, comunque attraente, Brunelda è un mostro di sessualità al limite del ripugnante e dell’eccitante e le grida di ammirazione degli uomini non sono solo comiche, sono comiche, certo. La sessualità è comica, è anche comica, ma al tempo stesso completamente vera.
Di questo testo, che ho punteggiato di qualche osservazione, era al corrente Fellini? Certamente. In Raccontando di me8, dopo aver parlato di Picasso e di De Chirico, sulla verosimiglianza e la mistificazione, alla domanda: “Kundera ti ha paragonato a Picasso, Stravinsky e Kafka e dice che sei l’unico che può portare in scena Kafka, pensi di poterlo fare?”, Fellini risponde: “È un progetto che mi affascina da sempre, ho fatto ricerche fotografiche sull’America degli Anni Venti, raccolto materiale e riempito quaderni di appunti; ma non so se lo farò. Mi sentivo già a disagio, provavo un po’ di rimorso nel citare Kafka in Intervista. Kafka è uno scrittore già così potentemente visivo che mi sembra presuntuoso intervenire. Mi dispiace per Kundera, ma io ho in mente altri progetti”.
Straordinario mistificatore! Egli ha portato in scena Kafka, anche se sostiene il contrario. Certo non ha realizzato America, come ha fatto Straub, ma altrimenti. Proviamo a scrutare da semiologi: più strutturalmente e più sottilmente. E cominciamo con le indicazioni di regia contenute nel testo di Intervista e dalle repliche pronunciate nel film stesso. L’incaricato del casting, Mein, si muove con un foglietto per spiegare come dovrebbe essere Brunelda: “Mangia, dorme, fa sempre l’amore, è una mangiauomini, fa il bagno, è vestita di rosso; è una maschera impressionante di perversità, di ferocia ma anche di dolcezza animalesca, belluina. È importante che abbia una narice che palpita: fondamentale”. Anche Fellini, come regista, protagonista del film, dà delle istruzioni su come dovrebbe essere la Saraghina kafkiana. La sua voce fuori campo, spiega i tratti del personaggio alle numerose candidate al ruolo di Brunelda nonché ai candidati alla parte di Delamarche, tutti con i baffetti, caricaturalmente francesi, ed a quella di Robinson, goloso e ubriacone. Occorre però fare una puntualizzazione: nel romanzo Delamarche e Robinson sono la coppia di uomini che vive con Brunelda, prima del sopraggiungere del terzo, Karl. E nel film, tra gli ambigui candidati ai ruoli maschili, figura anche Sergio Rubini, che rappresenterà Fellini giovane, al suo arrivo a Cinecittà. Ecco quel che dice Fellini attore alle aspiranti Brunelde: “È una cantante, voluminosa di forme, prepotente, infantile, gelosa, che tende a far la vittima: si lamenta sempre. È golosa, arrogante, prepotente, infantile”. In seguito inviterà gli interpreti di Robinson e Delamarche a farle il bagno: “Mettetela insieme, una gran pupattolona, nella vasca, accarezzatela tutti e due”. Anche se non è facile, per la struttura cubista del racconto, ricordate il resto della storia: Fellini-personaggio simula di girare la sequenza in cui una delle pingui signore, che ha il ruolo di Brunelda, dovrebbe partire dal luogo in cui si effettuano le riprese. “M. Meis: Continuiamo il provino se permetti… Questa è la strada americana che Karl percorre accompagnando su una carrozzella a rotelle Brunelda al casino…”. Ma la carrozzella s’incaglia, come il libro prima, poi il film. La metafora è trasparente: l’opera si chiude, molto fellinianamente, sulla constatazione che il film non si farà.
Ripeto ora la mia tesi: Fellini, concentrandosi sul personaggio di Brunelda e sui due frammenti finali di America, ha realizzato la storia dove meno l’attendevamo, nel momento apparentemente più autobiografico. Proprio nella visita con Mastroianni alla casa di Anitona, dove viene proiettata nostalgicamente la Dolce vita, davanti ai protagonisti invecchiati e commossi. Proprio quando Fellini sembra parlar di sé sta realizzando Kafka. Il personaggio di Millozza, dopo il ritorno dalla visita alla villa Ekberg, dice: “Forse la più giusta? si riferisce a Brunelda? era la Ekberg, ma non glielo hai chiesto”. Fellini non risponde, parla d’altro. Ma la frase è un indizio prezioso per esplorare gli spazi, i personaggi e i loro dialoghi nell’opera di Kafka e in quella di Fellini. Vediamo: dove sta la Brunelda kafkiana? In un appartamento altissimo e quasi irraggiungibile d’un grattacielo americano. Dove è la villa Ekberg? Fuori Roma, in un posto lontanissimo. C’è poi un segreto ma ricostruibile parallelo fra la coppia Fellini/Mastroianni e quella Robinson/Delamarche, così come fra il giovane Fellini (Rubini) e il giovane Karl di America. Ekberg/Brunelda d’altra parte è circondata da tre cani, ma, come tiene a sottolineare il Fellini-attore: “Questi non sono cani”. In Intervista troviamo inoltre frasi identiche a quelle di Kafka ha in America. Nel romanzo, quando Robinson conduce il giovane Karl a casa di Brunelda, questa, imponente, domanda: “Ma chi è quello lì?”. Nel film, quando Mastroianni e Fellini giungono con Rubini dalla Ekberg, anche lei chiede: “Chi è questo qui?” (con una diffidenza un po’ bambinesca, per la sceneggiatura). E si presenta vestita da bagno, avvolta da un enorme accappatoio e con in testa un asciugamano arancione. Kafka scrive che Brunelda, di cui abbiamo visto la scena del bagno, porta due vestiti, uno rosso e uno rosa. Ma ci sono dei dettagli più rilevanti. Mastroianni si presenta da Ekberg travestito da Mandrake, con i baffetti francesi del personaggio di Delamarche e per prima cosa, scendendo dalla macchina dice: “Et voilà”.
Adesso un piccolo calcolo proporzionale: se Delamarche è Mastroianni e Karl è Rubini, chi sarà Robinson, schiavo goloso, che nel testo di Kafka è costretto a stare sul balcone, fuori dalla camera e può solo guardare attraverso la tenda gli amori del francese e di Brunelda? Due ombre dietro una tenda! La proiezione a casa dell’Anitona comincia con due personaggi, Mastroianni e la Ekberg, che appaiono prima come ombre dietro un lenzuolo, poi come immagini d’un film. Se rileggete America con attenzione, come voleva Fellini, noterete che per impedire a Robinson di spiare attraverso la tenda, questa viene sostituita con un mantello da teatro. “Prima c’era solo una tenda leggera, non era trasparente, ma almeno di sera si potevano riconoscere le ombre”, dice Robinson. “Ma questo disturbava Brunelda e io ho dovuto farle una tenda con un mantello da teatro, ed appenderla qui al posto della vecchia tenda. Ora non si vede più niente”. Conosciamo le esperienze teatrali di Kafka. Ma nel film, il lenzuolo-sipario diventa, con una geniale trovata, uno schermo cinematografico. Nella posizione del guardone Robinson, troviamo proprio Fellini, che spia la sua Susanna, non proprio casta. Ecco l’incognita della nostra proporzione: è il regista che, come il pittore, guarda non attraverso ma sulla superficie stessa del dispositivo dell’illusione. Un tratto metalinguistico: il cinema si confronta con gli altri media e pensa a se stesso.

3. Lo speco e il carillon

Si parla molto, in teoria cinematografica, della metafora platonica della caverna. Sappiamo che non era un cinema muto poiché i prigionieri-spettatori sentivano le voci di coloro che passavano dietro di loro, portando effigi e proiettando ombre. E sappiamo che anche i prigionieri proiettavano sul fondo-schermo dello speco le proprie ombre, mescolate alle altre. Ebbene, in uno dei momenti più intensi di Intervista, il personaggio di Rubini guarda attraverso il vetro un gruppo di giovani italiane che, cantando “O campagnola bella”, avanzano verso il treno per Cinecittà. La scena è in montaggio alternato, ma per un momento, sul vetro-schermo del trenino cogliamo contemporaneamente il riflesso delle ragazze e l’immagine del giovane Fellini che le guarda attraverso il vetro. Attenzione ora all’accompagnamento musicale della sequenza: la canzone distante e un carillon molto vicino all’ascoltatore. Sappiamo che Piovani, che qui vale Rota, fa un uso particolare del glockenspiel, cioè del carillon, alla cui particolare scansione assegna il senso del ricordo, il gioco nostalgico della memoria. Immagini e musiche creano insieme un doppio e simultaneo effetto: soggettivo e oggettivo9. Per il semiologo, l’enunciato si fa enunciazione e l’enunciazione enunciato.
Una sequenza fondamentale, che ci permette di tornare al nome da cui siamo partiti: la Saraghina. Saraghina è allo stesso tempo il suono del carillon, il ritorno ossessivo della memoria, ma filtrata attraverso le immagini di Picasso e Kafka, della grande pittura e della grande letteratura. Per non parlare del cinema, che non è mio compito, beninteso. Ecco perché ha ragione Deleuze quando afferma singolarmente che quelle di Fellini non sono immagini-memoria. Certo suona il carillon e tornano i ricordi, ma l’opera non si riduce all’autobiografia. Le immagini portentose di Fellini portano iscritto sopra ben altro, sia a livello visivo che musicale. “C’è una vitalità simultanea, un sovrapporsi di immagini, di segni, che non sta in profondità”. Deleuze coglie nel segno. Non c’è una profondità, nel senso triviale che l’inconscio avrebbe una storicità evenemenziale, l’infanzia, l’adolescenza, eccetera. Per Fellini tutto è presente, come diceva Freud delle pietre romane: nella stessa pietra c’è quella augustea, la medioevale, la papale e via via fino all’EUR, come in Roma, appunto. Non c’è profondità temporale, ma il tempo-ritmo di una successione orizzontale, d’una fila di presenti. “Le immagini di Fellini, prosegue Deleuze, pur riferite al passato, sono serie di attimi di cui nessuno è padrone: danno tempo al tempo”10.
Prendiamo il tempo per concludere con un’ipotesi. Come si curava Fellini? Dagli psicanalisti, dagli psichiatri? Sembra di no. Si curava facendo passare le immagini impulsionali delle sue Saraghine attraverso il filtro dei donnoni disegnati da Picasso, attraverso l’immagine della Brunelda kafkiana. E riusciva così ad ottenere non una “abreazione”, una soppressione e cancellazione, ma una “adreazione”, cioè un assommarsi e sovrapporsi d’immagini e suoni così caratteristico della sua opera. Questa accumulazione non è forse una risoluzione simbolica?
Chiuderò con un dialogo immaginario. Una domanda di Kafka, da lui attribuita a Robinson che dice, mostrando i colpi inflitti da Brunelda: “Hai visto i segni?”. E la replica di Fred, da Ginger e Fred: “Bisogna saper cogliere i segni”.


Note

  1. F. Fellini, Fare un film, Einaudi, Torino, 1980. torna al rimando a questa nota
  2. P. Bondanella, Il cinema di Federico Fellini, Guaraldi, Rimini, 1994. torna al rimando a questa nota
  3. Picasso érotique, Mostra al Museo Jeu de Paume, Parigi, 19 febbraio – 20 maggio 2001. torna al rimando a questa nota
  4. F. Fellini, Intervista, film, 1987. torna al rimando a questa nota
  5. Kafka, America, Mondadori, Milano, 1978 (3ª ed.). torna al rimando a questa nota
  6. F. Fellini, Intervista sul cinema, a cura di G. Grazzini, Laterza, Bari, 1983. torna al rimando a questa nota
  7. M. Kundera, Testaments trahis, Paris, Seuil, 1993. torna al rimando a questa nota
  8. F. Fellini, Raccontando di me. Conversazioni con C. Costantini, Editori Riuniti, Roma, 1996. torna al rimando a questa nota
  9. C. Tommasi, Film e forma-sonata. Musiche cinematografiche di N. Piovani, Tesi di laurea in Storia della musica, Università di Trieste, a.a. 1998/99. torna al rimando a questa nota
  10. P. Fabbri, “Fellini e la madre di tutte le tentazioni”, in Lo schermo “manifesto”: le misteriose pubblicità di Federico Fellini, a cura di Paolo Fabbri, Guaraldi, Rimini, 2002.
    P. Fabbri, “Come Deleuze ci fa segno”, in AA.VV, Il secolo Deleuziano, a cura di S. Vaccaro, Mimesi ed., Milano, 1998.
    P. Fabbri, “San Federico decollato”, Prefazione a Mimmo Rotella, A Federico Fellini, Catalogo delle opere, Galleria Fabjsaglia, Rimini, 1998. torna al rimando a questa nota
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