La riconcezione semiotica


Prefazione a Nelson Goodman, Arte in teoria arte in azione, et al. / edizioni, Milano, 2010.


Mais il est souvent plus aisé de découvrir une vérité que de lui assigner la place qui lui revient
(Saussure)

1. Premessa

I libri hanno un loro destino. Quello di Of Mind and Other Matters è di non essere replicato ma, con una formulazione cara al suo autore, implementato e attivato. Pubblicato nel 1984, è stato ripreso e tradotto in più lingue nel presente formato abbreviato. Il IV e il V capitolo – rispettivamente “Arte in teoria” e “Arte in azione”- sono quelli consacrati ai problemi d’arte e d’estetica, che hanno dato all’autore un’impareggiabile reputazione filosofica e semiotica. È il caso della presente edizione, che risulta però “implementata” dalla pubblicazione delle immagini che non figuravano nell’edizione dell’Harvard University Press e la cui assenza rendeva illeggibili gli acclusi diagrammi.
Nelson Goodman, giudicato uno dei maggiori filosofi analitici della seconda metà del secolo scorso (Putnam) aveva raccolto in Of Mind and Other Matters saggi e interventi disposti in tre capitoli – 1. Pensiero; 2. Cose; 3. Referenza – dove egli “ri-concepisce” i temi della sua teoria del simbolismo nella scienza e nell’arte, già posti magistralmente in Languages of art (1968), perseguiti in Problems and Projects (1972), svolti in Ways of Worlmaking (1978) e infine ripresi in Reconceptions in Philosophy and Other Arts and Sciences (1988).
L’intero libro è formulato in un tono limpido e asciutto – caustico e tongue in cheek nell’ultimo capitolo – che ne nasconde il peso proposizionale e la densità propositiva. I capitoletti sono disposti come sensori tematici e hanno un andamento conversazionale fatto di risposte, repliche e ribattute a molti autori: psicologi, come Gibson o Bruner, storici e storici dell’arte come Gombrich, filosofi come Putnam, Dennet, Nozick, epistemologi come Hempel e Nagel, estetologi come Beardsley o Wollheim, ma anche musicologi, letterati, semiologi come Kjorup o scrittori come Borges e Calvino. L’intonazione complessiva è quella d’una discussione argomentata con pubbliche ragioni, nel corso della quale emergono ridefinizioni teoriche e nuove versioni dei fatti. Spesso prende lo stile reciso della controversia che ha creato a Goodman nemici giurati, zeloti indefessi e censure, ma soprattutto menzioni e attivazioni, come quelle recentissime dei neo-godmaniani che, nello studio dell’immagine, prendono le distanze dalle spiegazioni percettive o estetiche per ritrovare nella teoria simbolica di Goodman, una pregnanza “strutturale” (Kulvicki 2006).
È noto, ed esplicitamente asserito da Goodman, che l’originalità radicale della sua riflessione sull’arte è un’estensione singolare di una teoria generale dei simboli. Ci proponiamo qui di implementarne l’approccio estetico attraverso una ri-concezione semiotica. Una scelta che richiede di riposizionare la sua filosofia analitica e pragmatista rispetto alla teoria dei segni formulata da Charles Sanders Peirce. Di mostrare poi le convergenze, inattese quanto evidenti, con un paradigma semiotico “continentale”, implicato nella critica della nozione di mondi possibili; esplicitato nella proposta semantica e costruttivista delle multiple versioni dei mondi di senso; attento alla traducibilità tra sistemi semiotici realizzati in diverse sostanze espressive, quali l’immagine e il linguaggio naturale.
Fare la teoria dell’arte e del suo operare presuppone poi il passaggio dalla domanda essenzialista “cosa è l’arte”? a quella, non ontologica, del “quando è arte?”1. Una richiesta esigente a cui Goodman risponde elaborando una logica della schematizzazione artistica (Morizot 1990): con una lista provvisoria dei “sintomi” estetici; con una definizione di realismo; con nozioni quali esecuzione, implementazione e attivazione; o in particolare con i metodi dell’analisi narrativa in arte e letteratura, dove le l’ipotesi di Goodman si trovano integrate e svolte nelle ricerche semiotiche in corso sulla discorsività.

2. I simboli fanno mondi reali

Non ci sono problemi filosofici eterni
(Goodman)

Nella prefazione a Linguaggi dell’arte, – titolo che Goodman avrebbe volentieri sostituito con “Sistemi simbolici dell’arte” – il programma è nettamente tracciato: “le ricerche che si sono moltiplicate nell’ambito della linguistica strutturale durante gli ultimi anni devono essere affiancate e integrate da uno studio sistematico dei sistemi di simboli non verbali, dalla rappresentazione pittorica alla notazione musicale“. Il termine “simbolo” è usato non tecnicamente e “comprende lettere, parole, testi, quadri, diagrammi, mappe, modelli e così via“. Spetta poi alla teoria “comparare e contrapporre in modo significativo i vari sistemi di simbolizzazione usati nella arti, nelle scienze e nella vita in generale” (Goodman 1968, trad. it.: 157).
L’intento di Goodman culmina ed eccede la tradizione della filosofia analitica e il pragmatismo, nella direzione di una convergenza inattesa con la semiotica. In primo luogo per quanto riguarda la sua opposizione al postulato referenziale e alla teoria dei mondi possibili, poi nella decostruzione del fondamenti teorici della semiotica di Peirce.
Un vero boostrappingche conduce Goodman oltre le strettoie della filosofia analitica e le afose dependances del grande edificio kantiano – da cui il linguaggio è peraltro escluso – nella direzione di una critica della ragion simbolica in senso trascendentale (Granger 2003). Un problema per filosofi, se si intende la filosofia non come giudizio sintetico ma come sintetizzatore, nel senso musicale del termine, di percetti, concetti e affetti (Deleuze e Guattari 1991)
Per Goodman il sistema che articola le diverse modalità simboliche è il mediante necessario per ad accedere ai diversi mondi di senso, ma più ancora per architettarli e costituirli. Per questo nominalista e costruttivista radicale, le versioni del mondo sono universi semantici espressi da diverse, ma comparabili e traducibili morfologie simboliche. Cogliere una realtà in sé, al di fuori da ogni simbolismo è per lui una illusione trascendentale. Meglio, è l’effetto tossico di un pregiudizio soggiacente allo studio della dimensione linguistica e semiotica. Il postulato referenziale, costitutivo di una ontologia dei buon senso (che per Goodman è il deposito di tutte le banalità e gli errori) è ben noto: la significazione è riducibile alla referenza, esterna o interna. I simboli sarebbero rappresentazioni di un mondo esterno, l’inventario di un mobilio ontologico – riduzionismo fisicalista; oppure rileverebbero di una interiorità psichica – riduzionismo mentalista. Il senso, insomma, non si troverebbe nel linguaggio e negli altri sistemi di segni, ma in un’esteriorità mondana o in una interiorità mentale. Da questo postulato metafisico di realismo, Goodman ha preso le distanze e l’agio che gli permette la scelta cassireriana di redigere una “grammatica della funzione simbolica“, implicata nella donazione di senso che sono le opere dell’uomo nel loro costitutivo carattere culturale2. Mentre gli ontologisti immaginano i rapporti tra referenti come indipendenti dai sistemi di simboli e pretendono poi di derivarne le relazioni interne alle lingue e alle semiotiche, Goodman dichiara che sono queste ultime a “fare mondi”, quegli universi semantici a costruirne le versioni. Non esiste per Goodman un mondo fuori descrizione oppure questo mondo è una versione tra le tante altre. Quanto basta per lasciare a semiologi affetti da ontalgia – nostalgia dell’ontico – la nozione di mondi possibili (Lewis) opposti a un mondo reale, referenzialmente garantito, e di cui costituirebbero variazioni, varianti e varietà. E per opporsi diametralmente al realismo monista di Peirce, a detta del quale esiste una realtà esterna a noi, indipendente e inattaccabile rispetto alle nostre opinioni, per cui l’esito di diversi approcci conoscitivi è sempre orientato verso un “destined center, a general agreement, one catholic consent“. Picturesque fantasy, per parlare come Scheffler (1997), favola filosofica senza fondamenti. Nelson Goodman, per cui tutti i realisti sono anche monisti, vi sostituisce una teoria semiotica creatrice di universi discorsivi, a cui corrispondono, o vengono imputati, i mondi della vita e del senso.
È il suo irrealismo, che si dichiara costruttivista per evitare le accuse di relativismo3. Una frattura epistemologica per scompaginare le teste impagliate o le nozioni in boccale negli scomparti dottrinali della filosofia analitica. Esattamente come prevede la metafora kuhniana dell’esperimento percettivo dove, prima di accorgersi del cambiamento, continuiamo a vedere cuori rossi, mentre le carte ci li mostrano neri. Il filone migliore della filosofia analitica, nella cui umwelt si origina il progetto “simbolista” di Goodman, ha coniato numerosi concetti civetta per offrirgli un giubbotto filosofico di salvataggio: “plurealismi” (Scheffler), realismi interni (Putnam), ecc. Ma, come ha ben visto Hacking, il costruzionalismo è un cambio di livello del discorso e forse una mutazione di quel paradigma che ha condotto Goodman fuori dall’alveo analitico e pragmatico.
Non è un caso se, interrogato sulla natura del suo progetto, Goodman ha dichiarato che era pragmatista faute de mieux4. Ma, come aveva visto Roland Barthes, un’accezione operatoria del pragmatico agisce come censura del simbolico: anzi, come simbolo di una asimbolia o di semiofobia.
Per la verità, quando Goodman parla di worldmaking o asserisce che “i segni penetrano nel reale attualizzando oggetti e relazioni” (Elgin), rovescia il postulato referenziale, ma rimane impigliato nei suoi rompicapi, proprio nell’autodefinizione di “irrealista”.
D’altronde, egli ha sempre sostenuto che la sua era un’impresa incoativa di riconcezione e che le soluzioni si scoprono, per serendipità, cercando problemi e ipotizzando progetti. Il suo nominalismo è una igiene epistemologica regolatrice e preventiva e il suo relativismo garantisce un pluralismo e una tolleranza all’intersezione tra regole formale e elasticità degli usi concreti, di cui troviamo un esempio proprio in questo libro. La remissione ontologica ha il vantaggio di inserire i segni e i loro sistemi e di farli variare nei testi che sono versioni del mondo assolutamente reali.
Il semiologo, come me, non soffre di ontalgia e in Goodman vede la rinuncia a postulati referenziali ampiamente compensata da un incremento di significato e dalla possibilità di costruire mondi di senso. Anche se non si sente tenuto a una postura scettica, ne apprezza e condivide il pluralismo e la semio-diversità. Condivide anche la diversità d’approccio “costruzionalista” – la definizione e l’interdefinizione di categorie concettuali – che separa Goodman da Wittgenstein. Lo studioso dei sistemi simbolici non credeva infatti alla filosofia come “terapia parcellare di confusioni particolari“, che può interrompersi a ogni momento dell’analisi delle scienze e delle arti. A giusta distanza tra storicismo ermeneutico e ontologie lessicalizzate, Goodman considera la comprensione il risultato di descrizioni rigorose. Per dissipare confusioni, si dota di strumenti in grado di fare distinzioni e realizzare connessioni, così da ottenere percezioni più ampie e sensibili e giungere a nuove idee.

3. Una semiotica riflessiva

La teoria semiotica deve innanzitutto presentarsi per quello che è, cioè come una teoria della significazione
(Greimas)

3.1. Il post-pragmatismo

Nelson Goodman, si è detto, è il Saussure dell’estetica (Mitchell 1994) e la sua posizione è caratterizzata come “risolutamente semiotica” (Genette). Un giudizio che sembra condiviso dai collaboratori più stretti (Elgin, 1991b) e dalla correnti neo-goodmaniane che ne proseguono la ricerca in Francia (Genette, Morizot) e nel mondo anglosassone (Kulvicki, 2006a,b).
Eppure la sua originale figura sembra non trovar posto nell’attuale, biforcuto paradigma semiotico che soprattutto in Italia risulta scisso tra una tradizione saussuriana e una derivazione pragmatica peirciana. Un disturbo bipolare che rischia di condurre la disciplina in un doppio binario morto: da una parte l’esercizio di una filologia pragmatista sull’opera proliferante di Pierce e, dall’altra, il moltiplicarsi di semiotiche fenomenologiche, soggettali, tensive e quant’altro.
Mentre sembrano fallite le traduzioni cerchiobottiste tra i due orientamenti disciplinari, aumentano i danni collaterali dovuti alle riprese naturalistiche e alle supposizioni ontologiche. Anche la filosofia italiana interessata alla dimensione simbolica oscilla tra il mero diniego e i recuperi parziali e distorti (Franzina, La Matina).

Rimozioni e dinieghi.
La dimensione semiotica della ricerca goodmaniana, scontata nella tradizione anglosassone e francese, è l’oggetto di rimozione, inavvertenze o dinieghi negli studi italiani di filosofia, estetica e semiologia.
Rimozione filosofica: fin dalla prefazione a Linguaggi dell’arte, Franco Brioschi avrebbe riscontrato “in Goodman il paradigma critico da utilizzare contro tutta la cattiva retorica della svolta linguistica” (Franzina). L’impegno pragmatista avrebbe quindi divaricato lo studio del simbolo in Goodman “dalle ambizioni egemoniche della linguistica e dall’espansionismo della semiotica a disciplina ‘totale’” (Brioschi 1976). Senza tema di contraddizione, i filosofi simbolisti fanno appello a Goodman per una scientificità più radicale delle impostazioni “strutturalistiche”, ma ripiegano poi su una definizione romantica e ineffabilista del simbolo. Proclamano l’inesistenza di “codici semiotici in grado di produrre al nostro posto l’interpretazione autentica del mondo e dei testi”; pretesa che nessun semiologo si sognerebbe di avanzare, in quanto condivide con Goodman la convinzione che “ogni codice è in uno stato perpetuo di trascodifica o di trasduzione” (Genette 1999).
Alla generale distrazione dei semiologi italiani, ai loro paraocchi disciplinari, fa eccezione Umberto Eco, il cui percorso, dall’estetica alla filosofia del linguaggio, è opposto a quello di Goodman, il quale procede dalla filosofia analitica verso l’estetica e la semiotica.
Il diniego di Eco, la cui genealogia semiotica è in diretta discendenza da Peirce, è comprensibile. Il gesto post-pragmatista di Goodman, – rinuncia all’opposizione /analitico/-/sintetico/, rifiuto della teoria dei mondi possibili e della logica delle classi, superamento di quel “caos del triperuno” che sono le classificazioni peirciane – focalizza l’attenzione sul simbolo e destabilizza il piano di consistenza ontologica di Eco. L’irrealismo radicale di Goodman non postula infatti “quel qualche cosa che ci conduce a produrre dei segni” e che “ci siamo decisi a chiamare l’Essere“, l'”orizzonte, bagno amniotico in cui si muove naturalmente il nostro pensiero” (Eco). Uno zoccolo duro, o piuttosto liquido, dell’Essere, preposto al controllo dell’inarrestabile fuga degli interpretanti peirciani. Nella voce “simbolo” della Enciclopedia Einaudi Eco (1981) non fa cenno a Nelson Goodman e solo nel ’97, in una nota di Kant e l’ornitorinco (pp. 398-99), ne cita il tentativo, che riconosce indipendente e diverso dal suo, di costruire, fin dal 1968, categorie semiotiche adeguate all’analisi dei linguaggi visivi. Gli rimprovera però di rimanere, nei Linguaggi dell’arte, “legato a una idea proposizionale (e verbale) della denotazione“. Eppure, come si è detto, Goodman non è un filosofo del linguaggio ma del simbolismo, che rifiuta come un'”infelice sineddoche” l’opposizione verbale-visivo, a profitto di un potenziale semantico soggiacente alle diverse sostanze espressive che ne permette la comparazione, la traduzione e il montaggio. Eco oppone polemicamente alla lettura goodmaniana delle immagini il registro analitico greimasiano di Omar Calabrese, dove le categorie del significante pittorico sono messe in correlazione semi-simbolica con quelle del significato e l’istanza di enunciazione è un operatore della discorsività visuale. Peccato che anche Eco ignori questo dispositivo, che lo condurrebbe a riconcepire la propria teoria, mentre in Goodman la lettura delle narrazioni e delle varianti nelle immagini artistiche sembrano additare nella direzione di Calabrese.
Tra i contributi recenti, solo La Matina, familiare alla testologia semiotica di Petofi, tiene conto dei contributi francesi alla riflessione semiotica di Goodman, soprattutto per quanto riguarda l’esemplificazione. Questa inverte infatti la direzione che va dal segno al referente e segnala il percorso che porta dal referente al segno. Sembra però fuori luogo considerare questo concetto, centrale in Goodman, come alternativo a quello semiotico di connotazione e come“pietra tombale che cala sulla semiologia strutturale” (:135). La connotazione, riveduta nella ricerca semiotica (Fabbri 2001), non si oppone a una denotazione referenziale, ma a un piano di senso collocato nello spessore semantico.
La Matina propone per contro di ampliare la nozione di esemplificazione introducendo – accanto a quella letterale e metaforica prevista da Goodman, e a quella metonimica, avanzata da Genette – una esemplificazione deittica e/o indessicale. Il semiologo post-peirciano che è Nelson Goodman, portando l’attenzione sul simbolo e sulla ridefinizione dell’icona, ha tralasciato infatti l’altro termine della tripartizione: l’indice. Anche se inscritta in un generale diniego, quella di La Matina è una valida indicazione per implementare la semiotica di Goodman attraverso una teoria intersoggettiva dell’enunciazione, implicata nell’atto stesso di esemplificare. Proprio a questo ha provveduto l’apporto della semiotica di Benveniste e la ricerca in atto sulle istanze dell’enunciazione discorsiva, che La Matina, però, sembra ignorare.
La semiotica, insomma, vive una fase di crisi e il suo generale downgrading è il ritorno di fiamma di una generale “a-simbolia” (Barthes), a cui non può porre rimedio l’insalata USA dei Cultural Studies.
Per ritrovare e consolidare un progetto sostenibile negli studi sui sistemi e i processi di significazione, il progetto incoativo e aperto di Goodman offre un piano comune di consistenza, dove troviamo più inizi che esiti, ma anche problemi che conducono a nuovi progetti. La ricerca in semiotica ritrova, con differenze di categorie e di intensità, un minimo epistemologico per sostenere le sue teorie e i suoi metodi (Goodman, 1983).

3.2. Dopo Charles Sanders Peirce

Il tratto precipuo della post-pragmatismo di Goodman risiede nella decostruzione del triangolo semiotico, pietra angolare del proliferante edificio peirciano e piedistallo della tripartizione semiotica indice, icona, simbolo. La rinuncia di Goodman al postulato referenziale sospende infatti il pregiudizio “magico” – magia per contatto dell’indice o per somiglianza dell’icona – che ne costituisce il fondamento. Goodman mantiene invece la nozione di simbolo orientandolo in altra direzione: “Goodmanian symbols go completely into the opposite direction when compared with peircian symbols” (Gkogkas 2009). Si interroga sulle sue condizioni di esistenza (“quando si dà simbolo“) e sulle differenti province dell’impero dei segni, in particolare nell’arte e nella scienza.
Oltre a obliterare la nozione di indice, su cui torneremo in seguito parlando di narratività, nel suo progetto semiotico Goodman procede a una critica serrata del postulato analogico dell’iconismo. Critica così riassunta da Genette (1991):

Non si può definire la relazione di analogia con la sola, imprecisata condivisione di proprietà: infatti due cose condividono sempre almeno una proprietà (quella di essere delle cose); dunque una sola proprietà in comune non basta, salvo ad ammettere che tutto somiglia a tutto e reciprocamente – il che priva la relazione di analogia di qualsiasi specificità. È allora necessario che condividano tutte le loro proprietà. Ma in questo caso sarebbero semplicemente identiche, e come potrebbe l’una significare l’altra, dato che sono una ed una soltanto? Però se né l’una nè tutte, allora quante?
Per Goodman sarà l’esemplificazione il concetto centrale che svolge la funzione dei segni iconici in Peirce; in luogo dell’analogia o della somiglianza troviamo il possesso di proprietà realizzato con la scelta di una tratto, distintivo, condiviso dagli altri segni che lo possiedono. Una determinazione ricca di conseguenze. Goodman ricusa infatti non solo la distinzione generale tra analitico e sintetico, ma quella peirciana tra type e token: “il ‘type’, cioè l’universale o la classe di cui tutti i segni sono esemplari o membri, e i ‘tokens’ di un ‘type’ in quanto repliche l’una dell’altro“. “Non c’è infatti” – per Goodman – “alcun grado di somiglianza che sia necessario o sufficiente a essere una replica5.

4. Nelson Goodman semiologo della scienza e dell’arte

La nostra attenzione converge sulle frontiere
(Goodman)

Si può riprendere il pensiero di un autore dall’inizio, dai suoi fondamenti; dal mezzo, dal decorso della sua ricerca; dalla fine, dai suoi esiti ultimi. La semiotica vuol riprendere Goodman dal mezzo, dalla sua scelta di formulare una teoria dei simboli che è, se non coestensiva, almeno co-intensiva con una teoria segnica (Kjørup, 1998).
Questa scelta infatti lo conduce in vista di una semiotica generale; non a svolte linguistiche o iconiche separate, ma a un postulato di priorità del significato al di là delle diverse sostanze e forme espressive, coerente con la rilettura dell’ultimo Saussure.
Lo stesso Goodman, in più occasioni, ha usato come sinonimi i termini di segnale, segno e simbolo6 e ha vivamente criticato la posizione di Noam Chomski che isola lo studio del linguaggio naturale dagli altri sistemi segnici7. Ne I linguaggi dell’Arte e nelle derivazioni coerenti che lo seguono, troviamo una riflessione differenziale e comparativa dei diversi sistemi e processi di senso all’interno del’universo simbolico. Anche la distinzione tra dimensione sintattica e semantica ricalca la distinzione saussuriana della mutua presupposizione tra le facce del segno: i significanti e i significati (Genette 1997).
Qui, però, ci interessa insistere sulla comparazione dei simbolismi, dei linguaggi naturali e formali e delle forze che ne modellano le morfologie; si vuole evidenziare il modo con cui la semantica, dall’accezione formale di estensione, perviene a quella di significato immanente ai linguaggi. È l’esito semiotico a cui approda Goodman attraverso la descrizione e la classificazione della testualità artistica, in particolare, e della traducibilità intersemiotica. La sua ricerca dei funtivi del segno, cioè dei requisiti del suo funzionamento, si svolge prevalentemente nei regimi testuali della scienza e dell’arte; luoghi privilegiati di composizioni e scomposizioni, costruzioni e decostruzioni in cui consiste il “fare mondi”.
Of Mind and Other Matters esplora dapprima i criteri dei testi scientifici, poi i crismi delle opere artistiche nell’ambito della stessa semiosi. Nelle scienze prende le distanze dalla monomania analitica per la verità; la sua opzione per la correttezza è un’operazione di soccorso all’idea di una verità ristretta ai soli enunciati dichiarativi. Un criterio che coinvolge l‘impiego letterale dei segni così come quello figurale, anche se Goodman lo riduce alla retorica ristretta della metafora.
Per quanto riguarda l’arte, Goodman si colloca molto lontano dallo storicismo, dagli inveterati giudizi di gusto e da concetti zombie come aura, sublimità, ecc.. Il suo progetto di intelligenza dell’arte si oppone soprattutto alla pervicace ipotesi “intenzionalista” che distoglie dai funtivi testuali. Per lui “l’intenzione nella mente dell’artista non è il criterio della comprensione dell’opera, perché l’accedervi è possibile solo nei termini di una comprensione del suo funzionamento semiotico e semantico” (Cometti 2002).
Una postura deliberatamente cognitiva – per Goodman anche le emozioni funzionano cognitivamente – che libera la ricerca del quando è arte – e non di cosa sia. Senza rinunciare all’efficacia che esercita: per Goodman, uscendo da una mostra di pittura, vediamo il mondo in maniera nuova: cioè ricombinato nel suo senso, in funzione dello sguardo che le opere trapiantano.
Arte è lo sviluppo e l’approfondimento di differenze espressive e di relazioni significanti; essa opera su entrambe le facce del segno: quella sintattica del significante e quella semantica del significato.
Nella determinazione dell’identità dell’opera d’arte, enumerando i suoi funtivi, Goodman passa invece dalla semiologia alla semeiotica. Già ne I Linguaggi dell’Arte si era infatti limitato a indicare i sintomi, che sono per lui le proprietà congiunte, necessarie e non sufficienti dell’artisticità (o articità). Sono criteri distintivi e non costitutivi di concentrazione, saturazione e densità espressiva e di contenuto, a cui va aggiunta un proprietà riconducibile all’autotelia jakobsniana, cioè all’auto-riferimento del messaggio (Genette 1991). In questo libro si presenta per la prima volta un criterio che fa della tipologia estetica un pentagramma: la molteplicità e la complessità (l’ambiguità) che aprono una via di ricerca allo studio di citazioni, variazioni, allusioni8. Questa intransitività semiotica permette di definire, per opposizione, le condizioni in cui un’opera – attenuata, trasparente ed univoca sulle due facce del segno – non funziona artisticamente.
A questo “diagnosticismo” va aggiunto un agnosticismo sui valori. È la divergenza di Goodman rispetto alla critica d’arte, che descrive per valutare. La filosofia dell’arte deve offrire ragioni e non giudizi di qualità.: se mai, è proprio il riconoscimento del valore che sollecita, o intima, a trovarne le ragioni. L’estetica è una metacritica dell’arte. Goodman ritiene che può esistere una scienza senza correttezza, così come opere che funzionano artisticamente benché prive di qualità estetiche; per gli errori, in entrambe i regimi testuali sono particolarmente istruttivi.

5. Narrare e Attivare

Le categorie impiegate da Goodman non sono l’effetto di una partenogenesi teorica, ma di scrupolose interdefinizioni. Nel presente testo, due concetti sono nuovi, rinnovati e approfonditi rispetto a I Linguaggi dell’arte: Narratività e Attivazione.

5.1. Narratività

L’interesse di Goodman per le analisi testuali, soprattutto visive, è testimoniato dalla riflessione sulla narratività, che impregna “Arte in teoria”. Un concetto non familiare ai filosofi analitici, ma caratterizzante per la semiotica e la filosofia continentale, che ne ha fatto la struttura portante della teoria dell’azione e della passione, dell’enunciazione e della discorsività (Greimas, Ricœur, Lotman, Fabbri).
Per felice convergenza, anche per Goodman si tratta di individuare i tratti distintivi delle versioni narrative del mondo, vere o fittizie. I sistemi e i processi di senso, le forme e le e forze del contenuto soggiacenti alle diverse sostanze espressive, lingua verbale – reportages o romanzi- dipinti, foto, film. Il racconto possiede una sintassi e una semantica che ha le sue regole di intreccio degli attori, dei tempi e degli spazi; queste sono il risultato di “messe in racconto” e procedure di narrativizzazione. È la trama enunciata (order of occurrences), cioè l’history con le sue trasformazioni, a cui si sovrappone il piano dell’ordito enunciazionale (order of telling), la story, dei diversi e mobili punti di vista sul plot. L’istanza narrante e i suoi esiti narrati vanno oltre la combinazione “mereologica” dei motivi e delle citazioni e svolgono un ruolo fondamentale negli effetti cognitivi e passionali generati dalle diverse versioni del mondo.
Il disporsi delle situazioni, la concatenazione degli avvenimenti e il succedersi dei punti di vista danno luogo talvolta a racconti twisted, complessi e complicati, intricati e aggrovigliati. Per sciogliere il doppio geroglifico delle trasformazioni narrative e delle trasposizioni discorsive, Goodman volge l’attenzione alla messa in racconto e alle procedure di narrativizzazione. Focalizza soprattutto la resistenza relativamente robusta che il filo delle storie offre alle possibili torsioni dell’enunciazione e dell’enunciato.
Data la sua competenza di gallerista e collezionista, nonché la frequentazione di semiotici delle arti come Gombrich e Shapiro – Goodman non indulge in exempla ficta della filosofia analitica; ha un occhio di riguardo per le immagini fisse di narrazioni articolatissime nella gerarchia degli elementi e nei programmi d’azione: come Pieter Bruegel, Jacopo del Sellaio, Piero di Cosimo, Lorenzo Ghiberti, Hans Memling. Esempi disposti in ordine di crescente complessità iconologica, fino a quello particolarmente recalcitrante della biografia del principe buddista Shotoku Taishi di Hata no Chitei9.
Secondo convenzioni prefissate e invenzioni singolari, le storie sacre o le biografie agiografiche sono eseguite, come si direbbe di uno spartito musicale, in forma topologica, figurale e cromatica, per produrre diverse narrazioni. La compresenza spaziale di tempi, luoghi e attori obbliga Goodman a cercare un ductus di lettura tra le molteplici focalizzazioni del punti di vista, dei flashback e forward – le figure retoriche dell’usteronproteron – valendosi delle proporzioni e degli orientamenti delle figure, della profondità, del punto di vista e dell’illuminazione. Come la splendida via crucis di Memling, con il suo andamento sinuoso da sinistra a destra e dal basso verso l’alto, che semantizza l’opposizione topologica centralità/ periferia, per manifestare l’opposizione di contenuto tra l’interno e l’esterno della città santa. Qui viene inquadrata, come prova principale, la Flagellazione, iscritta e compresa tra la Presentazione del Cristo alla corte di Erode e la scelta tra lui e Barabba. Più del valore iconologico della lettura – che potrebbe applicarsi alla pagina di una graphic story, all’arazzo di Bayeux o a un documento archeologico come la Tabula Iliaca – a Goodman interessano le variazioni di enunciato ed enunciazione a cui viene sottoposta la storia e le possibili commutazioni del senso. Il testo visivo è topo- e crono-sensibile (“Dio è tra i dettagli”) e, pur rispettando l’identità di compitazione della storia scritta, è sempre possibile perdere il filo o trovarne un altro. Con intuizione semiotica, Goodman mostra come la visualizzazione dei plot possa essere decisiva nell’ascrizione del racconto a un ben definito genere – biografico, didattico, a uso mnemotecnica o rituale; o anche nell’assegnazione a un altro formato, come nel caso di una sostanza espressiva ritmica o musicale, traducibile, ad esempio, in una sinfonia10.

5.2. Attivazione

Il filosofo è taumaturgo: la sua riflessione nasce dalla meraviglia. Quella di Goodman si rivolge a quanto l’ovvio nasconde nella sua evidenza, al buon senso che vede nell’opera d’arte l’esito di una intenzionalità comunicata, il risultato di un progetto portato a termine e la sua successiva trasmissione.
Goodman interroga questa doxa – opinione comune – come un problema che esige approfondimenti e distinzioni, per indurre nuove riflessioni e l’apertura di nuovi problemi.
L’implementazione prima, l’attivazione poi, sono le nozioni operative introdotte da Goodman in Of Mind and Other Matters allo snodo tra l’arte in teoria e quella in azione. Termini assenti ne I Linguaggi dell’arte, ne sviluppano alcune definizioni e distinzioni fondative e caratterizzano le fasi del processo simbolico e testuale dell’opera.
L’attenzione di Goodman per le modalità con cui le arti “entrano nella cultura” tiene a distanza le estetiche dell’intenzionalità e della ricezione e mira invece all’articolazione interna dell’opera. Allarga quindi la nozione di testualità artistica, integrando come “co-testo” quello che abitualmente viene considerato il suo contesto.
Per la sua comunicazione l’opera sembra infatti presupporre l’esecuzione. Entra qui in gioco la distinzione goodmaniana tra opere autografe e allografe – tra arti la cui storia di produzione è cioè a una sola fase (come la pittura) o in più fasi (come la musica). Mentre l’opera autografa è completa e ogni ritocco o riproduzione genera copie o falsificazioni, il dispositivo dell’opera allografa richiede una fase di esecuzione, che attualizza la virtualità dello spartito, del copione, dello schizzo e ne realizza le potenzialità.
Dall’esecuzione dell’opera va distinta la sua implementazione, cioè la batteria di prestazioni, perfezionamenti, adempimenti, destinati a effettuare l’opera stessa. Queste pratiche specificate, come le installazioni, le cornici o l’illuminazione di un quadro, i piedistalli di una scultura, ecc.- implicherebbero una fase esecutiva e sono destinate a rendere l’opera “operativa”. Non si tratta solo di comunicarla, quanto di attivarla con pratiche aggiuntive di senso che ne esemplificano, determinano, orientano, approfondiscono il valore. È inutile sottolineare qui le differenze di regime tra arti tradizionali, arti performative, regimi di improvvisazione e così via. Basti pensare al ruolo che svolgono il museo o la galleria d’arte nell’attivazione o nella disattivazione delle opere: ruolo che può limitarsi al deposito o alla conservazione oppure al restauro, all’esposizione o alla promozione (con riproduzioni, cataloghi, ecc.).
Una semplice combinatoria di esecuzione e implementazione prevede inoltre la possibilità di esecuzioni senza implementazione (es.: pitture-investimento chiuse in un caveau bancario) o utilizzate per altri fini (una tela può servire a riparare dal freddo), oppure, viceversa, di implementazioni senza esecuzione, ad esempio non-opere che vengono realizzate come opere d’arte.
Goodman è condotto a questo risultato dalla pratica duchampiana dell’objet trouvé. L’analisi di Duchamp ha lo stesso ruolo esemplare che riveste Paul Cézanne per Merleau Ponty o Francis Bacon per Deleuze. Un oggetto del mondo diventa opera per diversissime tattiche di implementazione, tra le quali, ma senza esclusività, l’istituzionalizzazione museale.
Goodman ha successivamente rielaborato l’implementazione attraverso il concetto di attivazione (Cometti 2002), ampliando e rafforzando la funzione co-testuale delle costituenti del testo artistico. Come proprietario di una galleria d’arte e marito di un’artista, ha intuito infatti l’orientamento, sorprendente per l’estetica tradizionale, che trasforma in opera il processo e gli esiti dell’attività di implementazione. Con l’autorializzazione dell’esecuzione (” il Bach di Gould”) e l’assorbimento nell’attività creativa del metalinguaggio critico (vedi Joseph Kosuth). Ma è soprattutto attraverso la performance curatoriale che l’attivazione delle opere si è trasformata progressivamente da cotesto a testo. Assorbendo gradualmente tutti gli elementi del sistema dell’arte – tempo, spazio, e attori (dall’artista al gallerista al critico) – il curatore contemporaneo si è trasformato in regista. L’attivatore diventa autore (se sia un bene, alla critica d’arte l’ardua sentenza).

6. Conclusioni

Un cambiamento di stile oppure di vocabolario può talvolta ottenere una riconcezione significativa
(Goodman)

Segniamo il punto. La riflessione di Nelson Goodman sulle arti, in controtendenza rispetto al passo di gambero (Eco) che contraddistingue il presente, è un segnale di futuro. A coloro per cui “quando non c’è niente da dire bisogna tacere”, Goodman replica che è proprio quello il momento di dire qualche cosa di diverso e di nuovo.
Nella sua forma abbreviata, questo libro ri-concettualizza distinzioni e relazioni e nella sua sobrietà testuale trasporta poco, ma importa molto in estetica e in semiotica. La semiotica può rifarsi a lui come mental detector. Il suo sorriso di Occam le fornisce una base filosofica anti-ontologica e una conferma di metodo; la libera dal doppio binario morto di Peirce – chiuso per rottamazione – e agisce come semio-valorizzatore per una raccolta differenziata di esempi e la ricerca di fonti simboliche rinnovabili.
Anche in estetica Goodman opera una bonifica ambientale; contro le ebbrezze tossiche dell’aura e del sublime, ci indirizza verso la sua dimensione costruttiva – i sintomi, l’ implementazione, ecc. Può giustamente vantarsi – con antifrastico understatement – di non avere lasciato i problemi irrisolti, in una disciplina, come l’estetica, a cui basta talvolta esibire una storia e includere le innovazioni in una mappa concettuale. Le carte geografiche, però, non rinverdiscono in primavera e non appassiscono in autunno. Ci vogliono incentivi ed energie rinnovabili su questioni vive e concrete – “concreto” è etimologicamente crescere assieme. Goodman dice di avere fornito più inizi che esiti: ci sembra invece che abbia tracciato un piano di consistenza e fissato un’agenda per studi di settore: musei, mostre e insegnamenti. Com’è accaduto con Fare mondi, la Biennale di Venezia del 2009 diretta da Daniel Birnbaum e a lui esplicitamente ispirata.
Per Deleuze e Guattari, quello filosofico non è un giudizio sintetico, ma un sintetizzatore di pensieri. Nelson Goodman lo è per simboli, immagini e narrazioni. Dal suo occhio mobile e tutt’altro che innocente, dal suo pensiero a bocca piena, dal suo humour della verità (Stengers 1997), ci viene un’offerta che non possiamo rifiutare.


Note

  1. Cfr. Goodman 1978. L’articolo è malamente tradotto nella terminologia tecnica e nella lingua comune. Nella nuova introduzione (2008), Achille Varzi osserva giustamente che anche il titolo del libro è un fraintendimento teorico. Il filosofo riconosce che per Goodman non si può “mettere alla prova una versione del mondo confrontandola con un mondo in sé, ma solo esaminando le modalità della sua costruzione a partire da altre mondo-versioni”; così come non si può “mettere alla prova un disegno o un dipinto confrontandolo con entità-in-sé, ma solo con entità a loro volta raffigurate”. Ne conclude però che “la teoria raffigurativa del linguaggio cede il passo a una teoria linguistica della raffigurazione”. A noi sembra piuttosto che si tratti di una teoria semiotica generale: le regole che governano la sintassi di tutti i tipi interdefiniti di simboli. Varzi teme che questo possa condurre il filosofo in un “baratro” – spalancato da Benjamin L. Whorf e Jacques Derrida (sic!) – e che per resistere alla vertigine sia necessario aggrapparsi a un appiglio ontologico! torna al rimando a questa nota
  2. Basta osservare le convergenze con gli sviluppi recenti della semiotica saussuriana per rintracciare, in questo studioso dei sistemi simbolici, la discendenza strutturale da Cassirer e via la collaborazione con Gombrich, la filiazione con la sematologia di Bühler. In particolare Cassirer, nel suo tentativo di fare da intercessore tra Carnap e Heidegger, tra filosofia e linguistica, è il ponte simbolicamente abitato tra la tradizione germanica e quella transatlantica. torna al rimando a questa nota
  3. In alcune accezioni analitiche, rigorosamente binarie quanto idiosincrasiche all’orecchio continentale (Cohnitz, Rossberg), Nelson Goodman è un realista sui generis: fenomenalista (e non fiscalista), particolarista, pluralista (e non monista). Nel metodo della costruzione teorica, è nominalista (e non platonico!): pensa, cioè, in termini di singolarità e non di classi, pur se “accetta qualia, cioè individui astratti”. Un approccio congruente, quindi, alla mereologia e non alla teoria degli insiemi, a un calcolo degli individui e non delle classi. torna al rimando a questa nota
  4. Per Putnam, Goodman è stata una delle grandi figure dell’empirismo logico, ma lo sviluppo delle sue ricerche lo ha condotto all’esterno del suoi dogmi, se non del suo spirito. Di qui l’imbarazzo di chi dice, con ragione, che non è pragmatista, e dello stesso Goodman per cui è quella la sola etichetta che gli si possa affibbiare. A noi sembra che vada piuttosto in controtendenza allo stantio broccardo: “val più la pratica della grammatica“. Il suo progetto conduce dal diffusionismo della pragmatica alla costruzione di una sintassi simbolica. torna al rimando a questa nota
  5. Cfr. Goodman 1968, trad. it., p. 115, nota 4. Purtroppo il traduttore italiano rende type con tipo, token con replica e replica con copia… e mark con segno! torna al rimando a questa nota
  6. La stessa incertezza tra simbolo e significante ha caratterizzato l’impiego del termine “segno” in Saussure (parole, scritture, personaggi di racconti, ecc.) prima della sua definizione programmatica della semiologia in termini di arbitrarietà e valore: differenziale nel paradigma e sintagmaticamente posizionale. torna al rimando a questa nota
  7. Nelson Goodman contro Chomsky: “il linguista può essere perdonato se una miopia professionale lo rende cieco a tutti i sistemi simbolici diversi dal linguaggio“. E aggiunge che una teoria della mente è possibile solo a partire da idee incarnate, cioè da contenuti articolati e formalmente espressi con diversità di sostanze; cioè attraverso sistemi e processi semiotici. Cfr. Hook 1971, p. 181.
    D’altronde come segnala R. Barthes fin dal 1971, “c’est contre le mentalisme chomskien qu’une nouvelle sémiotique se cherche” torna al rimando a questa nota
  8. Vedi Goodman 1988. torna al rimando a questa nota
  9. Le opere di Hata no Chitei sono state studiate di recente da Ikumi Kaminishi. Cfr. Ikumi Kaminishi, Explaining pictures: Buddhist propaganda and etoki storytelling in Japan, University of Hawaii Press, Honolulu, 2006. torna al rimando a questa nota
  10. Per l’interesse sulle variazioni, come quelle di Picasso su Las Meninas di Velázquez, cfr. Goodman 1988. torna al rimando a questa nota

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