L’opera al verde: a partire da un’installazione di Grazia Toderi


Da: Catalogo della mostra di M. Grazia Toderi, a cura di F. Mancini, Rencontres rossiniennes, Galleria Franca Mancini, Pesaro, 2004.


 

Réflechir sur les beaux arts fait sentir
(Stendhal, “Vie de Rossini”)

Le Rencontres rossiniennes hanno, per me, un doppio interesse. L’intreccio tra attività ed esperienze artistiche differenti, percepibile nel tempo lungo dei confronti critici e quello più teorico delle differenze di senso, che ogni autore opera se confrontato al tema rossiniano. Un interesse dunque per la sorpresa estetica offerta da ciascuna mostra e per le soluzioni che essa escogita al problema persistente del passaggio tra le arti. In particolare alla traduzione tra la musica e la pittura, tra la multimedialità della lirica e quella delle installazioni che i francesi chiamano “plasticiennes”.
L’installazione di Grazia Toderi presso la Galleria di Franca Mancini e il Teatro degli Artisti ha scelto il dittico. Una forma interattiva che lascia intatta l’autonomia visiva di ciascuna opera, mentre permette al visitatore di stabilire tra l’una e l’altra parti un rete fitta di relazioni sonore e visive; un rinvio incessante di categorie plastiche, cromatiche e figurative; un andirivieni di allusioni, un incrociarsi di sensi e di significati.
Non sono sufficienti, per spiegare o a comprendere, la libera associazione, che è privata, il rinvio ad una intenzione autoriale, l’indicazione di contesto esterno, storico e geografico. Servirebbe una disciplina che prenda il tempo di descrivere la singolarità dello stile e il rigore del proposito, prima d’avventurarsi ad interpretarne la virtuosità delle simmetrie e delle inversioni, delle antifrasi e dei parallelismi che mi piace riscontrare tra le due ante del dittico. La semiotica, forse? Proviamo.

1. L’opera inversa: Orchestra

lo spazio è una delle principali seduzioni del teatro, e si comprende che lo scontrarsi tra esterno ed interno sia un derivato della musica da teatro
(S. Sciarrino, “Le forme della musica”)

L’installazione di GT, mostra la sala del Teatro Rossini dal punto di vista del palcoscenico, là dove, prima di sprofondare nella “purpuerea buca” (Montale) suonava l’orchestra. Al posto degli spettatori immobili, i palchi sono gremiti di suonatori in vitale e confuso movimento; nell’assenza di un direttore le esecuzioni di diverse partiture rossiniane si mescolano in un frastuono continuo. Un brusio che ricorda i tentativi di accordo che precedono l’opera e sottolinea l’assenza del canto.
Il teatro è luogo di apparizioni e sparizioni regolate. GT ha coerentemente deciso di invertire il punto di vista del palco reale, il posto del principe, il solo da cui sia visibile l’intero teatro. Scelta coerente: la sala all’italiana ha una struttura modulare la cui cellula è il palco. Il palcoscenico è solo il più grande dei palchetti, che sono piccoli palcoscenici. Chi occupa il palco è quindi un attore ed il grande palco reale è specularmente opposto ma assolutamente omologo alla scena. I palchi di GT sono piccoli specchi dell’orchestra o, se preferite, piccoli schermi televisivi.
Il teatro d’opera reclama cose che parlano agli occhi. “Non pure gli orecchi ascoltino, ma gli occhi stessi, trascendendo il proprio oggetto, veggiano il canto”, diceva Tesauro. Ma la sala ha una bellezza la cui forma plastica non è diversa dalle fontane, dove non c’è spettacolo senza il movimento d’acqua. La sua architettura è una musica congelata, destinata a liquefarsi nella scenografia, a dissolversi nella melodia e nel canto. Deve render visibile l’eloquenza e la musica.
Invece, nella prima installazione, Opera, dal pentagramma delle file di palchi viene solo un suono indistinto, una cacofonia babelica, un labirinto sonoro. GT ha scelto di negare la intensa passionalità – il galvanismo, diceva Stendhal – della musica rossiniana, fatta di malinconia e felicità. Vuole azzerarne l’etichetta stereotipata dei sentimenti? O evitare le romantiche associazioni pittoriche delle composizioni rossiniane, che agiscono sulle emozioni attraverso l’immaginazione e il suo repertorio fisso di immagini. (Per Stendhal il finale della Gazza Ladra era il grande quadro di un ritratto di gruppo, il flauto era il profondo blù degli arazzi e così via). Nel montaggio “neobarocco” di GT il rispecchirsi delle somiglianze si dissolve invece nella irriducibile, densa molteplicità delle musiche che non raggiungono la forma.

2. Gradini verdi: Il mondo privato

Il secondo “quadrante” della installazione presenta una maggiore complessità. Al centro della rappresentazione si trova un altro luogo di spettacolo: il (parzialmente) restaurato Teatro di Verzura della villa Caprile
La sua costruzione, contemporanea alla nascita di Rossini, nel 1792, ha motivato GT a ri-creare il simulacro d’un luogo che avrebbe potuto ispirare per forme, profumo e suoni -vento, acque, uccelli – il giovane Rossini.
Oltre le gradinate verdi, – che videro Stendhal – dominate da un alto cipresso, la prospettiva conduce lo sguardo verso un punto di fuga luminoso e pulsante. L’intera composizione si raddoppia poi specularmente e l’illuminazione trapassa lentamente dall’alba alla notte, come per riepilogare le differenti fasi del giorno. Scena muta, se non fosse per un pigolare sommesso di uccelli.
Per apprezzare il sottile intervento di GT, va ricordato il ruolo estetico, cognitivo e passionale del giardino ed in particolare quello neoclassico e romantico.
Ogni volta che si vuol tornare alla natura si finisce per coltivarla altrimenti. Quindi la storia dei giardini è un susseguirsi di seconde nature; nature vive tra cui l’arte “topiaria” sceglie i diversi elementi che assembla in un discorso estetico. Il giardino è un meta-genere, composto di elementi naturali e artificiali (piante e costruzioni), che trascrivono i “topoi” della musica, della pittura e della letteratura. È già un teatro con le sue quinte e le vedute: come diceva uno dei suoi maggiori teorici, “teatro di una sequenza di azioni successive, ciascuna qualificata da un episodio plastico sapientemente ordinate in un percorso visivo e fisico, finalizzato ad eccitare, con continue sorprese e mutazioni, i sensi e l’intelletto del visitatore” (Chambers). Quello di Verzura è quindi un teatro al quadrato, una scena messa in scena. Tocca all’autore drammatico inscenare il giardino e nel giardino, com’è il caso del gran ballo persiano nelle Indie Galanti di Rameau, vera imitazione plastica dei giardini.
Il giardino neclassico – romantico, filosficamente roussouviano e culturalmente inglese, non possiede l’ironia intellettuale di quello barocco. Sono cambiati il sistema segnico e la percezione simbolica. La nuova fisionomia è quella del sentire – una trappola somatica per il piacere sensibile (Kant, 1790). Dall’associazione di idee che caratterizzava i teatri della memoria si passa a quella delle emozioni. “Cosi agirà l’artista giardiniere, quale non renderà la fredda rappresentazione della natura insignificante ed inanimata, ma la (s)colpirà parlante all’anima con una sentimental azione” scriveva a Milano, nel 1801, E. Silva nella summa topiaria, Dell’arte dei giardini inglesi. E aggiungeva: “[…] destinazione generale dell’arte dei giardini sarà dunque quella di destare piacevoli sensazioni e […] nello scuotere l’altrui immaginazione e sensibilità con un’armoniosa catena di emozioni diverse”. Stendhal non avrebbe descritto altrimenti la musica di Rossini, la sua ispirazione figurativa: l’armonia dei colori e l’accordo musicale. Il giardino romantico insomma non è il romitaggio contemplativo d’una filosofia della natura, ma il Parnaso della sintesi artistica che trasforma gli stati dell’anima. L’utopia non è più quella di un mondo ordinato, ma d’una felicità originaria: “i giardini e i boschetti sono dentro di noi” (Shaftesbury)
In questo senso il dispositivo del parco ha un lessico e una sintassi proprie: si serve della della parola e della musica, della luce e dello specchio. La parola varca le soglie del giardino e s’iscrive poeticamente su tutti i supporti. Quanto alla musica – tralasciando quella scritta per i giardini, da Lully a Mozart – ha una predilezione per il suono naturale degli uccelli e delle arpe eoliche, strumenti a corde che vibrano al vento. Anche l’eco nello spazio del giardino è già musicalizzata.
Più importante, per la nostra descrizione è il ruolo dello specchio e della luce. La natura del giardino neoclassico-romantico è indiretta e riflessa, mediata dal sogno e dalla meditazione: terra e cielo si riflettono e si raddoppiano come un equivalente architettonico nelle acque correnti delle fontane o in quelle ferme degli stagni. Non si tratta soltanto di giochi ottici o di “trompe l’oeil”- gli specchi sono frequenti nei grandi parchi – ma di dispositivi d’illusione, disincantati o malinconici.
Il variare della luce, diretto o filtrato, introduce poi nello spazio coltivato i ritmi del tempo: il variare regolato delle stagioni e dei giorni, le aberrazioni e i capricci della meteorologia. Con una preferenza per i momento del trascolarare: l’alba e i tramonti. Rousseau nei suoi giardini non cercava il sole ma l’ombra.
GT ha sottoposto questi “motivi” ad una deformazione coerente, che è la definizione più persuasiva dello stile. Mentre il giardino romantico evitava la prospettiva e la costruzione spettacolare della distanza, preferendo l’intimità sensibile (Rousseau), GT ha costruito una rigorosa struttura prospettica contro la tortuosità serpeggiante del romanticismo inglese.
Il punto di fuga è però un punto-luce pulsante, che ricambia lo sguardo catturato dal dispositivo visivo. Una maniera sottile per rendere mobile e partecipe la vita silente del Teatro di Verzura? Il luccichio manca però nel riflesso “speculare” del paesaggio: le simmetrie attraenti sono sempre un po’ sbilenche!
Quanto alla luce, l’accellerazione dei passaggi temporalizza i due spazi, il naturale e il riflesso, creando un effetto trascolorante e intemporale di sogno, evocazione ed artificio. La musica vince il tempo col tempo: stringere o rubare i tempi della luce è il contrario dell’immutabilità dei sempreverdi!
Qui forse risiede l’equivalenza musicale suggerita dal secondo quadrante dell’installazione di GT: nell’armonia della prospettiva pulsante e nella melodia delle variazioni luminose. Non sta nella musica della natura, il vento o il fondo canoro degli uccelli che é un effetto di realtà e un operatore di memoria. L’installazione della giovane artista toglie al parco romantico ogni tonalità esistenziale fluida e fugace, ogni carattere pittoresco e passionale. Sostituisce alla malinconia del parco delle illusioni, vissuta romanticamente come immersione in se stessi e al “vivo lampo” della musica rossiniana, un distacco intellettuale e senza afflizione, animato da tensioni segrete. Una sensibità senza riso, un sorriso nell’ombra. È questa la polifonia del teatro-giardino di GT?

3. Il palco e il parco

Tra i due quadranti del dittico, al di là della cerniera che li articola e li separa, l’osservatore è condotto a far riferimenti e creare rapporti.
Il palco, unità scenica del teatro d’opera è, come il parco, un’appendice del palazzo o della villa. Il teatro di verzura, opera al verde, è il risultato di una doppia inversione: la trasposizione dello spazio esterno all’interno all’edificio scenico – il suo clima artificiale, poi il trasporto del modello architettonico nell’aperto giardino. Ovvio che si scambino le loro proprietà.
Non si tratta delle metafore morte, le musiche che sono fiori – da Frescobaldi a Kandinskji – e gli interpreti usignoli, ma delle relazioni create dall’installazione che proviamo a descrivere. La più visibile è la forma pentagrammatica dei gradini e dei palchi, ma è nel secondo quadrante che troviamo un segno più esatto. Sopra il fermo cipresso che domina la scena all’aperto, GT ha introdotto – intarsiato se preferite – un punto fermo (a diffenza del punto di fuga). Un elemento diacritico, simile ad altri collocati sugli obelischi o le colonne barocche, che segnala la natura architettonica dell’albero, non diverso dalle colonne dei grandi organi dell’epoca.
Un’indizio che è anche un indice e quasi una firma.
L’altra analogia è la funzione speculare che abbiamo riscontrato in entrambi i quadranti. Lo specchio, paradigma di simmetria e inversione,
è in grado, rovesciando i corpi e i paesaggi, di modificare magicamente le forze della natura, e soprattutto di creare l’illusione teatrale. Come la musica costruisce il tempo, così lo specchio incanta lo spazio. Della Porta, nella sua Magia Naturale, spiega con diletto come costruire gli specchi “teatrici” che mescolano insieme diverse immagini e le grotte nei giardini di A. Pope erano dotate di “perpective glasses”, vere camere oscure da cinematografia sperimentale. Specchi precursori di quanto realizza GT con le nuove tecnologie: la traduzione cinetica della arti statiche.
Un’ultima proprietà accomuna i due quadranti del dittico: quello denso del teatro inverso e quello rarefatto dei gradini verdi; la rinuncia alla parola, l’economia del canto. Al loro posto il brusio, “tormento di una finalità nella profusione, diceva Barthes, in cui tutto si riproduce e niente si ripete”. Rumore dissonante degli strumenti o pigolio di uccelli, non
non è certo qui la dimensione musicale dell’installazione. Che va cercata nei rapporti molteplici tra le diverse dimensioni sensibili e le proprietà più astratte: specularità, inversione e parallelismo sono proprietà del sonetto e della forma sonata!
Musicista e pittore prestano e passano senza sosta la mano all’architetto e al giardiniere. Nel brusio dell’attualità ci permettono di scegliere i suoni e i sensi ancora inauditi del possibile.


Bibliografia

D.S. Licachev, La poesia dei giardini, Einaudi, Torino, 1996.

F. Testa, “Il volto della natura” in AA.VV., Giardini di piacere, giardini di sapere, forme e colori del giardino storico, Torino, 1997.

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