Da: Musica Jazz, Rusconi, Milano, maggio 2004.
Pur soppesando le parole, com’è nostra abitudine, siamo orgogliosi di offrire ai nostri lettori questo testo – inedito in Italia – di uno dei più geniali autori del Novecento francese, Georges Perec (1936-1982). Intitolato «La cosa», in omaggio alla new thing, Hans Hartje ci avverte che «è stato ritrovato tra le carte di Perec nello stato in cui lo pubblichiamo, e cioè sotto forma di un dattiloscritto non datato e chiaramente incompiuto: esso termina alla fine di 17 cartelle con la parola “invenzione”, senza punto finale» (Magazine Litéraire 316, 1993). Alcune citazioni nel testo autorizzano a ritenere sia stato redatto nel 1967, anno dell’ingresso di Perec nell’OuLiPo1. Il valore culturale dello scritto va ben oltre il jazz, e più dei giudizi – spesso tranchant – su singole scuole e personaggi, sono illuminanti le riflessioni sulle procedure creative, o sui rapporti fra ambiti diversi, mai abbastanza indagati. La nostra gratitudine a Ela Bienenfeld dei Fonds Georges Perec per l’autorizzazione alla pubblicazione, a Paolo Fabbri per la sua illuminante postfazione (oltre che per averci segnalato l’esistenza di questo scritto) e a Sabina Sacchi per un’impervia quanto puntigliosa traduzione.
Filippo Bianchi
La cosa
di Georges Perec
Non dispongo di alcuna argomentazione musicologica, storica, estetica, sociologica, o, per farla breve, teorica, per definire in modo pertinente la distinzione che forse esiste tra il free jazz e la cosa nuova, anche ammesso che non esista già un terzo termine per questa o queste nuove scuole: di conseguenza, chiamerò qui «free jazz» ciò che alcuni, altrove, chiamano o potrebbero chiamare «new thing», raggruppando con questo unico vocabolo, l’insieme dei tentativi recenti compiuti nel campo della libera improvvisazione, e poiché il termine di «libera improvvisazione» non è certo chiaro, propongo subito una definizione operativa del free jazz: musica jazz che sfugge o cerca di sfuggire a due delle definizioni più tradizionali dell’intera musica jazz: la costrizione ritmica, più conosciuta con il nome di «tempo», la costrizione armonica, celebre con il nome di «giro»; tralascio la costrizione melodica che pone dei problemi che non sono in grado di formulare correttamente, né, a fortiori, di risolvere.
Una volta fornite queste precisazioni terminologiche e definitorie, se ne impone una terza: essa riguarda il sapere che soggiace alle riflessioni che sto facendo: mi accingo a parlare del free jazz, è giusto che dica quanto lo conosca; la mia risposta sarà breve: non conosco quasi nulla; il corpus sul quale mi baso si compone di una trentina di dischi (Coleman, Ayler, Shepp, Rollins, Taylor, Tusques, Kirk, Dolphy, Cherry, ecc.), a proposito dei quali è utile precisare che:
a) una buona decina non corrispondono, se non in modo abusivo, all’appellativo «free jazz» (per esempio «Tomorrow Is The Question» di Coleman/Cherry, per non dire del bellissimo «The Avant-Garde» di Coltrane/Cherry);
b) di una buona decina, che dovrebbe far parte del patrimonio di qualsiasi amatore degno di questo nome, mi fa crudelmente difetto l’ascolto: non ho mai ascoltato New York Contemporary Five; ho a malapena ascoltato un Charles Lloyd; non so nulla o quasi nulla di ciò che è stato prodotto di recente;
c) un buon numero, forse un terzo, dei dischi che restano, appartengono probabilmente al free jazz, ma non sostengono se non mediocremente, quando non smentiscono del tutto, le «idee» che ho sul free jazz.
Aggiungiamo che non vado ai festival, quasi mai ai concerti e assai di rado ai Jazzland, Chat qui pèche2 e altre terre di elezione di ciò che a Parigi si chiama il «jazz moderno». E, per finire di scoraggiare il lettore, precisiamo che non ho letto nulla sul free, né dichiarazioni di musicisti, né studi critici, se non l’articolo di Eric Plaisance (in questi stessi Cahiers, n.15), che non mi è stato di grande aiuto se non nella misura in cui esso si ferma precisamente al punto da cui vorrei partire: una volta ammesso che l’ideologia non basta a rendere conto del free jazz, una volta ammesse la specificità e l’autonomia relative al livello estetico, restano da esaminare il posto del free jazz nella musica jazz, l’interesse estetico del free jazz in quanto sistema; queste sono per l’appunto le questioni che mi sono posto.
L’esiguità della mia «cultura» in materia di jazz non significa comunque che io mi consideri, nei confronti del free jazz, come un puro consumatore, e neppure come un amatore illuminato. Il free jazz è arrivato in tempo per risvegliare un interesse per il jazz che 10 anni (diciamo 6 o 7 per essere più precisi) di minestrone (Modern Jazz Quartet, Jazz Messengers, West Coast, pastorizzazione di Miles Davis, declino un po’ rimbambito di Monk), avevano quasi irrimediabilmente annullato. Forse perché il free jazz si inscrive in una problematica generale dell’estetica contemporanea che riguarda anche la letteratura: per paradossale che possa sembrare, il free jazz si pone delle questioni che, da «romanziere» (la parola romanziere non vuole più dire nulla, ma neppure la parola scrittore va meglio) io mi pongo; meglio ancora: il free jazz rappresenta forse una risposta che la scrittura ancora va cercando: da questo incontro, d’altronde per nulla fortuito, sono nate queste riflessioni che hanno il solo scopo di chiarire alla luce del free jazz, questioni che appartengono soprattutto ai problemi della scrittura.
Questo studio non potrebbe quindi essere considerato un approccio estetico al free jazz: esso ignora il linguaggio specifico che un tale approccio implicherebbe: non parlo del free jazz; tutt’al più il free jazz mi permette di parlare della scrittura.
Costrizione e libertà
Costrizione e libertà definiscono i due assi di ogni sistema estetico. Questa figura spaziale (ascisse, odinata) dimostra sufficientemente che costrizione e libertà sono funzioni indissociabili dall’opera: la costrizione non impedisce la libertà, la libertà non è ciò che non è costrizione; al contrario, la costrizione è ciò che permette la libertà, la libertà è ciò che nasce dalla costrizione. Alcuni sistemi sembra propendano più dalla parte della costrizione (per esempio il sonetto, il romanzo epistolare, la fuga, la statua equestre), altri più dalla parte della libertà (per esempio «l’opera», che sia racconto, poesia, tela, numero d’opera, numero di catalogo, ecc.) ma questa distinzione è artificiale: qualsiasi pezzo di letteratura passa attraverso una serie di costrizioni lessicali, sintattiche, retoriche e cripto-retoriche; qualsiasi pezzo musicale passa attraverso un sistema tonale che fraziona la scala dei suoni e ne regola le combinazioni. Non esiste un sistema più o meno libero o più o meno costretto, perché costrizione e libertà rappresentano precisamente il sistema; si può, tuttavia, misurare il grado di compiutezza (o di perfezione se si preferisce) di un sistema sulla base del rapporto costrizione-libertà, o, in altri termini, a livello della sovversione che tale sistema consente. «Il genio, diceva Klee, è l’errore nel sistema»: più dura è la legge, più l’eccezione è eclatante, più stabile è il modello e più s’impone la deviazione.
Il pericolo che corre il sistema proviene principalmente dall’indebolimento di questo rapporto: o costrizione e libertà sono neutralizzate a beneficio di ciò che l’«artista» chiama la sua «natura», la sua spontaneità, la sua ispirazione, o la costrizione cessa di essere percepita come una convenzione, una regola, un fatto di cultura e si dichiara naturale, fondata sul buon senso o sul genio nazionale, oppure infine la libertà si fa irriducibile, essenziale: queste tre distorsioni hanno la stessa funzione: rinchiudere la pratica estetica in un al di là innocente, privilegiare lo spontaneo in luogo dell’elaborato, il «naturale» in vece del «culturale», la «creazione» (irresponsabile) piuttosto che la produzione (responsabile).
La naturalizzazione minaccia tutti i fatti culturali (se ne troverà dimostrazione definitiva nel «Système de la mode» di Roland Barthes). Le forme si fissano sempre più velocemente. Ma non è sufficiente denunciare l’artificio di una costrizione per trarre, dalla sua soppressione, l’occasione di una qualsivoglia libertà (per esempio, è vano pretendere di fare a meno di qualsiasi punteggiatura con l’unico pretesto che i cinesi non hanno mai impiegato una virgola, perché l’assenza della virgola non è per questo più naturale della sua presenza). È senza dubbio significativo che oggi si fantastichi sempre più frequentemente o di opere che non siano altro che costrizione (naturalmente Roussel, ma, ancor più, quel «don Quichotte» che in un racconto di Borges, un tal Pierre Ménard arriva parzialmente a riscrivere parola per parola, o ancora quegli aforismi ultra-kafkiani che, a Stoccarda, Max Bense ottiene programmando un computer con una scelta statisticamente significativa di parole e frasi tratte dall’opera di Kafka), o di opere che non siano altro che libertà: numerosi pittori hanno provato a farlo affidandosi al caso, ma il caso non fa mai se non la metà dell’opera: perché il pefettamente aleatorio come il perfettamente determinato sfuggono all’opera. Non esiste alcuna soluzione al di fuori della ricostruzione del rapporto libertà-costrizione.
Necessità del free jazz
Il jazz ovviamente non sfugge a queste regole: se esso è potuto apparire agli occhi di alcuni come più «libero» del resto della musica occidentale, è unicamente in base a un fraintendimento sulla nozione di improvvisazione: non è perché l’improvvisazione assomigli allo stesso tempo a due operazioni (composizione, esecuzione) che la musica occidentale usava dissociare, che il jazz sfugge alle leggi della composizione e dell’esecuzione; e, soprattutto, non è perché (e questo fraintendimento è ancora più frequente) le strutture all’interno delle quali s’inserisce l’improvvisazione ci paiono naturali, che esse non costituiscono costrizione: affinché cinque musicisti (o più) suonino insieme, è necessario che adottino una scansione comune del tempo, e per preservare una certa unità, è necessario (escluso qualsiasi altro problema di melodia) che scelgano un codice armonico, ma questa costrizione ritmica (il tempo) e questa costrizione armonica (il giro) non costituiscono i fondamenti naturali di una musica la cui sola realtà sarebbe l’ispirazione superba e sovrana, ma delle strutture che regolino le facoltà dei musicisti con lo stesso rigore di quelli della fuga o della forma sonata. Wolfgang Amadeus Mozart ha altrettanta libertà di Clifford Brown o, se si preferisce, Clifford Brown è sottomesso alle stesse costrizioni di Wolfgang Amadeus Mozart. E viceversa.
Da King Oliver a Miles Davis il jazz ha vissuto nel rispetto assoluto di questo sistema e ne ha esplorato le notevoli potenzialità. Vero è che la costrizione ritmica è sempre stata abbastanza elastica (questo fa parte della nozione stessa di «swing»), che il giro armonico ha sempre dato prova di grande spirito di adattabilità, e che il sistema nel suo insieme è sempre stato aperto alle influenze esterne, laddove poteva trovare fonti di rinnovamento (per esempio nel folclore «non-nero», nei «ritmi» sudamericani, nella «ingegnosità» degli arrangiamenti scritti, ecc.). Tuttavia, la naturalizzazione delle costrizioni, cioè delle forme in cui si organizzava l’improvvisazione, ha finito per bloccare quasi completamente il sistema. Tra la morte di Parker (che fu l’ultimo a dominare completamente i materiali di cui disponeva) e la nascita del free jazz (ammesso che il free jazz abbia una data di nascita), nessuno dei tentativi fatti per rinnovare il jazz (o semplicemente per dargli ossigeno) è davvero riuscito. Curiosamente, sembrerebbe che siano le grandi formazioni, Ellington o Basie, eredi del Middle Jazz, ad essere sopravvissute nel migliore dei modi. L’ingegnosità, l’ambizione, il virtuosismo di tutti gli altri, dal pseudoclassicismo del MJQ al pseudo africanismo dei Jazz Messengers, dall’ultra colto al simil-selvaggio, non hanno potuto impedire al jazz di rattrappirsi, riconducendo quasi immancabilmente qualsiasi esecuzione a uno schema immutabile: tirannia della melodia, graziosità degli arrangiamenti, struttura obbligata del tema e del ponte, impiego tradizionale dei break, successione pressoché canonica dei chorus che, dopo il principale o i principali solisti, permettono al bassista o al batterista di esibire tutta la loro bravura per finire su uno step-chorus prima della ripresa del tema «arrangiato»: questo modello vale per quanto valgono i modelli; non pone in discussione il «valore» dei musicisti: ciò che limita Donald Byrd, Cannonball Adderley, Clark Terry, Johnny Griffin o Jay Jay Johnson (ecc.), non è evidentemente la mancanza di «talento», sono le forme nelle quali sono obbligati a improvvisare che li condannano alla stagnazione.
Non sono sicuro che sia il bisogno di nuove costrizioni (in questo caso, nel senso quasi fisico del termine), ad aver spinto Roland Kirk a suonare più strumenti a fiato alla volta (sarebbe probabilmente una domanda da porgli), ma, sicuramente, il free jazz non è un paradosso: testimonia contemporaneamente la necessità di un rinnovamento delle forme e l’impossibilità di questo rinnovamento nelle strutture esistenti: il «radicalismo» del free jazz è ciò che, da subito, colpisce di più: vedo, da parte mia, maggior differenza tra il «primo» e il «secondo» Sonny Rollins, che tra Tatum e Monk, Armstrong e Clifford Brown: il free jazz rappresenta un irreversibile balzo in avanti, dopo di esso, il jazz non può più sopravvivere nelle forme fin lì conosciute, al punto che i musicisti che il free jazz non ha ancora conquistato (o semplicemente contaminato), ci sembrano cacciati indietro in una ancestralità che nessun revival saprà mai rianimare, al punto che tra Parker e il free jazz, non esiste già più niente, se non caramello, minestrone o tamburo.
Libertà e retorica
Date per buone queste considerazioni, diventa molto più difficile parlare del free jazz. In effetti, termini che ci vengono subito in mente si rivelano più o meno inutilizzabili: in generale sono ideologici, dunque tautologici per eccellenza: si può parlare di negritudine, di rivolta, di libertà, di spontaneità, di rifiuto, di rivendicazione, di collera, di visceralità (ecc.) ma nessuno di questi termini rappresenta uno strumento efficace per porre le basi alla nozione di free jazz: il free jazz è libero, mettiamo, ma cos’è la libertà nel jazz? La cosa nuova è nuova, certamente, ma in che cosa consiste e a cosa porta la sua novità? Il free jazz esprime la rivolta dei musicisti neri, è probabile, ma cosa significano «esprimere», «rivolta», «musicisti neri»? La «motivazione» dei musicisti, il loro desiderio o il loro bisogno di fare un’altra cosa non sono sufficienti a descrivere in cosa, precisamente, consista questa «altra cosa»; ora, la sola questione possibile è: nessun «perché» del free jazz può spiegare il suo «come», ed è proprio soltanto lì che risiede la verità del free jazz.
Il free jazz pone quindi una questione e una sola: cosa succede quando dei musicisti cominciano a suonare (insieme) abbandonando tutto quello che, fino a quel momento, assicurava loro coerenza, quando si danno come unica regola l’assenza di regole, quando decidono di disobbedire a qualsiasi costrizione, quando l’unica precisazione del contratto che li lega, prevede che ogni musicista suoni, in tutto e per tutto, «quello che gli passa per la testa»: possono suonare o non suonare, o suonare più veloce, più forte, interrompersi, intervenire, accelerare, rallentare, essendo l’unico criterio delle loro prestazioni, con tutta la sua ambiguità, l’immediatezza dell’improvvisazione, la sua sola «esistenza» liberata (sic) dalle basi ritmiche, armoniche e melodiche alle quali di solito veniva ricondotta. Ma allora, che cosa passa loro per la testa? Sarebbe bello, per la bellezza della cosa, credere alle virtù dell’ambiente e della comunione, spingersi fino a diventare gli apostoli della trasmissione extra-sensoriale per spiegare l’unità che, per quanto dicano i suoi detrattori, nel free jazz è del tutto evidente, essenziale: ma la comunione mistica che viene talvolta rivendicata dai consumatori o anche dai produttori di free jazz, a livello del metalinguaggio, non saprebbe avvalorare un concetto estetico: la strutturazione spontanea non esiste: qualsiasi struttura estetica è innanzitutto culturale, cioè fondata su un codice di costrizioni e di sovversioni: il caso, il «viscerale», le «forze sorde dell’istinto» (che, appunto, sono sorde dunque poco dotate per la musica), non possono avere spazio se non sottomettendosi a una scelta, a una immaginazione, a una regola, a una sensibilità, cioè a una storia: se il free jazz è una forma, è perché lo regge una struttura e questa struttura è culturale.
Non si riuscirà a sbarazzarsi del problema ritenendo (è un’opinione abbastanza diffusa) che il free jazz non abbia altra vocazione se non quella distruttiva e che l’ «arte» verrà dopo: è vero che i musicisti non sono sempre stati free e che, di conseguenza, une delle loro principali ossessioni sembra essere quella di non ricadere in ciò che facevano prima. Uno dei rimproveri che più frequentemente viene rivolto al free jazz è che i musicisti non seguono quelle che potremmo definire «le loro idee più belle»; se non le rompe lo stesso musicista , lo farà uno dei suoi partner, o tutto il resto della formazione; una buona parte della musica free assume così l’aspetto di un duello (per esempio Don Cherry contro Sonny Rollins in «Our man in Jazz: Sonny Rollins») e talvolta di un vero schieramento militare (come il famoso «Free Jazz» di Ornette Coleman col doppio quartetto): il punto è che queste idee troppo belle fanno necessariamente parte dell’eredità di cui il musicista free vuole liberarsi, anche (e soprattutto) se esse costituiscono l’elemento più positivo, tanto è vero che è il sistema intero a essere messo in causa e che si tratta di elaborare una forma nuova. La distruzione è dunque necessaria, nella misura in cui quasi tutti i musicisti free sono passati al free jazz dopo aver sperimentato i limiti del sistema nel quale il jazz soffocava sempre più. Ma la distruzione e il rifiuto delle convenzioni tradizionali, non rappresentano, da soli, costrizioni: vietano, definiscono un punto di non ritorno. Affinché qualcosa sia possibile, al di là di questi divieti, è necessario che intervenga un elemento nuovo, bisogna, necessariamente, che s’instauri un nuovo codice, un nuovo sistema.
All’inizio di qualsiasi pezzo free, ogni musicista è sull’orlo di un abisso: non ha nulla dietro di sé, eccetto il sistema che rinnega; ciò che è ancor più grave è che non ha ancora nulla davanti a sé, e che diventa sempre più urgente trovare una soluzione, un’uscita, un ponte, e cioè trovare, all’interno dei mezzi di cui dispone (come farebbe a trovarli altrove?) un sistema culturale che gli permetterà di avanzare, ma, è proprio questo il dramma, quei mezzi sono quasi interamente costituiti dall’eredità che rifiuta.
Questa scomoda situazione è condivisa, oggi come oggi, da quasi tutte le discipline estetiche: l’indebolimento, poi lo sprofondamento, lungo tutto il XIX secolo, di quel codice di costrizioni e sovversioni che era, per la letteratura, la retorica, ha assegnato al romanziere un posto sempre più difficile: il tragitto segnalato da boe, dalla pagina bianca alla scrittura, permetteva allo scrittore di «trovare le idee», di trasmetterle, di organizzarle, di renderle convincenti, in breve, di articolare un discorso suscettibile di essere capito, è stato sottoposto a uno spezzettamento che ha finito per non lasciar sopravvivere alcunché: è possibile rintracciare, nella storia del romanzo, le tappe di questa disintegrazione delle forme narrative; la prima sarebbe, con ogni probabilità, Bouvard et Pécuchet; l’ultima, il punto finale, è, naturalmente, Finnegans Wake: al di là tutto è scoppiato, il tempo, la storia, l’ordine, il personaggio, il veridico e il verosimile, al di là, qualsiasi lettura diventa sospetto e qualsiasi linguaggio diventa terrore. La scrittura (l’atto di scrivere) è ormai un pericolo che niente arriva a sanzionare: tutto è permesso, cioè niente è più possibile.
Sarebbe possibile, probabilmente, parlare negli stessi termini della pittura, della musica, del teatro e analizzare alla luce di questa situazione un buon numero di esperienze recenti se non del tutto contemporanee: ogni volta vedremo compiersi uno sforzo di rinnovamento radicale, che porta in germe, in modo a volta impreciso o forse difficilmente precisabile, le basi di un nuovo linguaggio, di un sistema culturale all’interno del quale potrà installarsi una nuova forma. Mi sembra evidente, ad esempio, che le attuali esperienze di happening o alcune manifestazioni della pop art permettono già, nonostante la debolezza o (soprattutto) il compiacimento delle produzioni di oggi, di immaginare ciò che potrebbero presto diventare un teatro, un’arte plastica, i cui principi estetici non avessero più niente a che vedere con quelli che a tutt’oggi regolano la maggior parte delle produzioni teatrali e pittoriche. Associando sempre più strettamente lo spettatore all’opera, distruggendo la singolarità (produzione in serie) e anche la specificità dell’opera (opere sintetiche che associano, per esempio, l’architettura, la scultura e la musica, o lo spazio, il tempo, il movimento), contestando l’individualismo dell’artista (opere collettive), le arti plastiche e il teatro entrano in un processo di trasformazione che lede principalmente la loro funzione (con buona pace degli stupidi collezionisti che si ostinano ad attaccare nei loro salotti, come fossero dei Boudin, le «pitture» di Warhol che non sono fatte per essere guardate), ma lede al tempo stesso la relazione, fino a quel momento univoca e intangibile, che unisce l’«artista» all’opera, l’opera al mondo. E si capisce bene che se questa metamorfosi è possibile, è perché essa avviene a partire da un sistema culturale concorrente, in questo caso i mass media, che ha fatto scoppiare le strutture della pittura e del teatro, consentendo poi la loro trasformazione; anche se l’happening non è ancora che teatro antico+mass media, non sembra esagerato dire che saprà trovare nelle tecniche dei mass media il sistema necessario al suo rinnovamento.
La pop art e l’happening sono probabilmente esempi scelti troppo bene: qualsiasi arte dello spettacolo trova oggi nella cultura di massa la base di un nuovo codice possibile. Ma è difficile generalizzare. È probabile che le tecniche generate dai media possano permettere alla scrittura di ritrovare i principi della discontinuità e della simultaneità (come appaiono, ad esempio, nel fumetto), che erano abbondantemente usati nel XVIII secolo (da Diderot, da Sterne, nei romanzi epistolari, nei racconti à tiroirs) e di cui la struttura attuale del racconto ha un bisogno evidente. Ma i mass media non costituiscono l’unico orizzonte della scrittura, e il ricorso a un altro sistema non è necessariamente la sola apertura possibile: Bartók e Ravi Shankar (per tornare all’argomento di cui devo parlare), hanno senza dubbio influenzato il free, ma il free non potrebbe per questo definirsi solamente in quanto jazz ripensato alla luce di Bartók e/o della musica indiana.
L’originalità del free arriva principalmente, mi pare, dal fatto che ha creato un nuovo linguaggio a partire dalle sue proprie tradizioni.
È possibile, grosso modo, reperire in un pezzo free, due tipi di elementi caratteristici che potremmo definire «negativi» e il cui ruolo è quello di rompere la struttura tradizionale soggiacente (sabotaggio dei chorus, rottura dei ritmi, ecc.), ed elementi «positivi», veri «agenti di unità», per quanto ritengo che è a partire da questi elementi che il pezzo si sviluppi . Che io sappia, ce ne sono almeno due e si tratta di due delle più celebri figure retoriche: la ripetizione (riff) e la citazione.
La funzione del riff è quasi identica nel free a quella che ha nel resto del jazz: è la figura elementare della coesione, quella che salda momentaneamente l’insieme dei musicisti, una figura di attesa, insomma, nella quale si risolve l’improvvisazione.
La funzione della citazione è più complessa; la citazione può essere pastiche (Archie Shepp che suona The Girl From Ipanema), omaggio, richiamo o convenzione. In ogni caso, essa rappresenta la figura privilegiata della connivenza; la citazione proviene da una riserva comune a tutti i musicisti; è là e là solo che, in assenza di ogni quadro armonico, i musicisti possono attingere; la citazione è quindi il luogo (in senso più retorico che spaziale) elementare dell’improvvisazione, il cammino o, almeno, il relais necessario a ogni invenzione.
Si interrompe sulla parola «invenzione» l’articolo di Georges Perec, dedicato al free jazz. Che uno dei grandi scrittori francesi del Novecento scrivesse con tale impegno sulla new thing può stupire gli specialisti e quanti pensano che per la musica serva un orecchio assoluto. Ma Perec aveva un altro orecchio: l’orecchio impossibile, quello che permette di «inventare» l’ascolto di sonorità che prima non erano udibili.
Questo articolo incompiuto era progettato per una rivista dal titolo eisensteiniano, La ligne generale, con altri testi sulla letteratura e le arti ora raccolti in L.G.: une aventure des années soixante, Seuil. Librairie du XXe siècle, Paris, 1992. La rivista non venne mai alla luce e l’articolo, offerto dapprima ai Cahiers du jazz, apparve infine nel numero monografico che a Perec dedicò il Magazine littéraire.
Nel 1967, anno in cui redige questo scritto, Perec entrava a far parte dell’OuLiPo, l’opificio di letteratura potenziale, con Raymond Queneau e Jacques Roubaud e Italo Calvino – che alla memoria di Perec, prematuramente scomparso, dedicò un’intensa, crittografica poesia. Poiché questo gruppo di letterati, matematici e scacchisti non prevede abbandoni ed espulsioni – se non con suicidio davanti a notaio – Perec continua a farne parte a pieno titolo. Ragionevole dunque discutere con lui il suo scritto, interrogarsi insieme della sua interruzione e cercare una «consonanza» nella sua possibile conclusione. Il momento sonante c’interessa di più di quel che è stato già suonato.
L’incontro e la leggibile passione di Perec per la new thing e il suo posto nella storia del jazz, non è fortuito. Si inscrive pienamente nella temperie anni Sessanta, nel moto utopico di rottura e rinnovo delle arti, nella loro forma e nella relazione all’artista e al mondo: pop, fumetto, teatro, danza, happening, e il riesame critico della cultura di massa. Perec, scrivendo di free jazz e riferendosi alla teoria dell’informazione e alla semiotica (vedi le citazioni di Max Bense e di Roland Barthes), non ripensava però un’estetica. Al tempo della disintegrazione delle forme romanzesche, e dello strutturalismo, cercava in altri sistemi di segni, non le risposte, ma le domande pertinenti per la letteratura. Per lui il free jazz «è una forma, sorretta da un quadro culturale, un codice» e «pone domande che mi pongo come romanziere».
Non spetta a me valutare le sue competenze jazzistiche. Quel che sta al cuore del grande ulipista è la forza di rottura che la new thing porta nello stallo e nella stagnazione che segue la morte di Charlie Parker. Potrebbe sembrare quindi un momento qualsiasi dell’ideologia modernista delle avanguardie europee negli anni Sessanta. Ma non è così: Perec gioca tra più linguaggi senza la pulsione ridondante di caricaturare e distruggere la tradizione. (Coazione a ripetere che caratterizza anche il postmoderno; un avanguardismo della fine delle avanguardie!). Del free jazz lo affascina il gioco esemplare dei vincoli e delle libertà: come il game – il codice, le strategie, le regole del linguaggio sonoro – si trasforma in play, nella esecuzione inventiva che re-inventa l’originale. Lo scrittore della contrainte sente e sa, che la libertà fa sistema con i vincoli da cui è tenuta. Non basta accusare l’artificio delle strutture e delle strettoie per prendersi delle libertà creative. Anzi, per una produzione assunta – che non sia creazione irresponsabile – la costrizione permette quella libertà fantastica che ne emerge. La contingenza diventa allora l’allegoria della potenzialità. Perec si schiera contro la comunione mistica e l’estetica dell’estasi, dove tutto è permesso e niente è possibile. A favore d’una creatività secondo le regole – ogni combinatoria ristretta permette combinazioni illimitate – e contro le stesse regole, per «inventare il labirinto da cui trovare l’uscita» (Calvino). L’inventore di giochi è sempre stato il migliore dei bari.
Questa creatività ridefinisce, in letteratura come nel jazz, il problema della soggettività: come intenzione poetica e come riconoscibilità stilistica d’un corpo e di una mano, d’un fiato e d’una voce. Seguire caparbiamente una regola è una firma e una forma, che lascia emergere le mitologie personali più segrete. Come ne La sparizione di Perec, dove il vincolo lipogrammatico – usare solo parole senza la «e», la più frequente delle vocali – ha condotto l’autore a costruirsi una mitologia personale e una favola metaforica della Shoa.
Per i matematici dell’Oulipo, attenti al numero e al ritmo, è soprattutto il caso della poesia, che, come la musica, «dice quel che dice dicendolo,(…) non tace niente e parla per noi, per tutti e per nessuno» (Roubaud). Ma essi non lo fanno ripetendo il gesto ossessivo della rottura o celebrando i sussurri d’un suono ai bordi dell’estinzione. Usano invece o inventano nuove regole di prosodia che promettono e talvolta permettono l’emergenza di quel magico momento in cui un gioco che non lascia nulla al caso finisce, per una strutturazione «spontanea», per assomigliare a ciò che sembrava sfuggire: l’«improvvisazione intattesa».
Al limite dell’«invenzione», senza mettere il punto, si arresta un testo ancora legato al pensiero (e all’impasse?) del codice e della rottura radicale. Con e oltre Perec, la new thing continua però a farci pensare: in particolare alla pratica e al problema dell’improvvisazione collettiva, che oggi collochiamo nel quadro linguistico della conversazione – parlare insieme, fuori dai pochi rituali fissi, è sempre improvvisare!
Nelle arti del tempo l’improvvisazione collettiva del jazz ci interroga sul problema del presente dell’esecuzione, che può essere un presente del passato o del futuro. Improvvisare infatti è un processo fatto d’istanti, eventi puntuali che coinvolgono gli esecutori quanto il pubblico, i luoghi e le circostanze. Si riferisce a generi riconosciuti e condivisi che rispetta e deforma, a regole che segue e trasgredisce. Come la commedia dell’arte, ricombina canovacci e battute già sceneggiate, ripete formule di cui sottolinea l’uso attraverso la citazione esplicita, il pastiche o l’allusione. Li sottopone al pubblico per una valutazione istantanea e vuol suscitare riconoscimento o stupore, complicità o connivenza. Inventa collettivamente attacchi e stacchi, scambi di turni, aperture e (più difficile ancora!) chiusure. Dovremo tornarci su, Perec alla mano, sapendo che reinterpretare è dare un altro ritmo a un testo, letterario o musicale.
Osserviamo soltanto che il contributo di Perec potrebbe smussare il duro giudizio sull’esoterismo delle avanguardie – e il loro «lezzo di morte» – pronunciato dal grande storico del Novecento Eric J. Hobsbawm. Attento all’«odore sonoro» dei tempi moderni, Hobsbawm ha sempre pensato che, più del cubismo e delle ricerche musicali dotte, siano stati il jazz e il cinema l’esperienza estetica più ricca di senso per gli uomini del XX secolo. Nel suo articolo «Il jazz dal ’60», è disposto a riconoscere che «dopo il 1962 il free jazz» – nero e politicamente radicale – «diventò il primo stile jazzistico la cui storia non possa essere scritta senza tener conto d’importanti sviluppi in Europa». L’articolo di Perec è un capitolo di questa storia futura: le avanguardie estetiche e la new thing erano davvero vicine.Paolo Fabbri
Note
- Ouvroir de Littérature Potentielle, gruppo di scrittori composto da Raymond Queneau, Le Lionnais, Bens, Lescure, Queval, e successivamente Perec e Italo Calvino. Fondamento dell’Oulipo è il concetto secondo il quale l’opera narrativa è tanto più creativa quanto più stretti sono i vincoli cui viene sottoposta. Capolavoro fra le opere realizzate dagli autori dell’Oulipo, è La disparition dello stesso Perec, nella quale l’autore scrive un intero romanzo senza mai impiegare la vocale «e», di gran lunga la lettera dell’alfabeto più usata in francese.
- Noti jazz club parigini.