Da: Scenari, 8 maggio 2015.
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In un convegno AISS sul Multinaturalismo, la richiesta di tornare, col senno semisecolare di poi, sui saggi di Umberto Eco, raccolti nell’iconico titolo “Apocalittici e integrati” (A&I), merita la curiosità del frattempo (cos’è successo ad un’opera di successo?) e la cura del contempo (un’attenzione attualizzata nel presente). Abbiamo tutti bisogno del passato per stupirci del futuro e tornare al presente.
(…)
Per i nolenti e i volenti, A&I è passato a miglior vita e resta in memoria come il testo seminale degli strabocchevoli studi della cultura di massa e dei suoi media.
Il mediologo contemporaneo, semioticamente formato, può usare del testo cinquantenario oltre il compleanno burocratico, se inverte l’abituale percorso della significazione. Anziché partire dal significante verso il referente, può selezionare dal piano semantico di A&I un tratto saliente da esemplificare per l’attualità della ricerca.
Per noi si tratta della tenace attrazione di Eco per l’orrore e il suo attante collettivo: il Mostro (v. “Il nostro mostro quotidiano”, l’ultimo capitolo di A&I). Per gli “amatori dell’orrido”, il futuro narratore di Baudolino descrive con particolareggiata dovizia la voga che ha introdotto nella cultura popolare il gusto macabro di “vampiri e mad doctors, golem e zombie“. Cerca poi i moventi di questa “libera espansione dell’irrazionale“: esclude l’estetismo delle radici neogotiche e dell’umor nero surrealista; i sintomi di nevrosi collettiva avanzati dalle diverse psicanalisi e le compensazioni di un pubblico desabusé in cerca di basiche emozioni. Trova una “chiave di senso per li segni bui” (Dante) in un membro privilegiato della mostruosa panoplia: il mad doctor è l’Eco-mostro “che non nasce dalla magia o dal disguido di forme naturali, ma dalla scienza” (A&I). Il sapere rigoroso ha generato la più terrificante delle creature: la bomba atomica. Non è la storditaggine di Epimeteo, il fratello stolto di Prometeo, che libera i mali contenuti nel vaso di Pandora. È la ragione ben vigile e desta che genera i mostri. L’immaginazione massiva attribuisce alla prassi dello scienziato le più spaventevoli invenzioni: come Frankenstein, il Vampiro e Godzilla per attenerci a quelli di sicura reputazione. Di qui l’angoscia fluttuante che farebbe vendere rifugi contro le invisibili radiazioni atomiche e maschere-giocattolo, ripari salvavita per l’inconscio. Tra lo stuolo crescente dei mostri, aggiunge Eco, barcolla lo zombi che, “come sanno anche i bambini“, sarebbe “un cadavere riportato in vita con procedimenti di magia, che se ne va in giro privo di autocontrollo e sottomesso ai desideri di una volontà malefica che lo guida” (A&I).
Mezzo secolo fa, Eco additava dunque, con gesto sicuro, il gusto smodato, lo stranamore dei media – dal fumetti, al cinema, ai feuilleton televisivi, ai videogiochi – per un genere, l’orrore, che circola oggi con l’aria del tempo. Preconizzava l’ubris di nuove ibridazioni e nuove paure; anticipava con un’alzata d’ingegno il prodromo dello zombi, figura onnivora dell’immaginario al presente. L'”ermeneutica (…) tratta il mostro come un testo rivelato” (Eco, 2012). Si interrogava filosoficamente sulla metamorfosi in termini che sarebbero piaciuti S. Cavell, filosofo cinefilo: “coscienza dell’umana precarietà (…) che può essere perduta o invasa e che possiamo essere o diventare qualche cosa d’altro rispetto a quel che siamo e che immaginiamo di essere“. Allora cogitamus. Per Eco il mostro non è una svogliatura massmediatica, ma un Operatore semiotico che chiameremmo Teratologico. È una passione per il segno prodigioso e portentoso – i mirabilia – e una tenace inclinazione estetica e narrativa (Eco, 2007). Presente nella recente summa dei suoi scritti medievali su “La bellezza dei mostri”, turpi e difformi come quelli descritti da Agostino (Civitas Dei, XVI, 8), che sono gli antonimi dell’estetica provvidenziale della natura ed ammaestrano a significazioni moralizzate. Passione che perdura fino all’accurata lista dell’armata dei mostri in Baudolino – sciapodi, giganti, pigmei, blemmi, ponci, panozi, senzalingua, satiri che non si vedono mai ecc. (ispirata al Romanzo d’Alessandro, XII sec.). E soprattutto nell’ardente romanzo d’amore del narratore per la semi-apatica Ipazia, femmina delicata fino alla vita e dalle gambe caprine e zoccoli d’avorio.
In conclusione: A&I maneggiava un teratoscopio: preconizzava con sicurezza le forme del mostruoso dopo la mutazione moderna, l’evoluzionismo eso-darwiniano dell’idea di natura e dell’immaginazione teratologica.
2.1.
“simile mostro visto ancor non fue” (Dante, Purgatorio, XXXII, v. 147)
I mostri reali o immaginari sono ambivalenti per le emozioni che suscitano e per i segni che anticipano. In quanto violazioni dell’ordine naturale e collettivo, i mostri suscitano ripugnanza, il prezzo che la natura pagava per la semplicità e regolarità da cui deviavano. Le creature mostruose non erano tanto innaturali o sovrannaturali quanto sessualmente e socialmente indecorose. Esiti di rapporti peccaminosi, oltraggiavano la morale collettiva. La loro anatomia è stata ed rimane il significante di proposizioni teologiche e sociali, di filosofia naturale e di estetica. L’anomalo è un normale deviato che conferma come eccezione la regola. Ma le deviazioni morfologiche erano cariche di avvertimenti, prescrizioni di condotte, insegnamenti malamente somatizzati. Non c’è niente di così mutuo quanto il mutante.
Fuori dalla dottrina dei presagi, destavano però il piacere spettacolare della meraviglia, il godimento estetico davanti alla ingegnosa varietà naturale e ai capricci del caso e dell’arte. L’umana natura evolve lentamente ed è povera in mostri, mentre nell’immaginazione essi sono in costante speciazione e “saltazionismo”. Eppure la scienza stessa, per la regola di tentare tutti i possibili, ha trattato la mostruosità come un esperimento sostitutivo sulla metamorfosi biologica e antropologica. Come succede all’immaginazione letteraria e visiva, le regolarità della natura lasciavano anche allo scienziato lo spazio di un anticosmo, d’un caos illecito di singolarità.
2.2
Queste condizioni sembrano oggi radicalmente mutate in un senso che chiameremmo Ipercalittico e Disintegrato. L’Ipercalissi è l’effetto di quello che M. Serres chiama “la seconda bomba atomica“, la scoperta del codice genetico e la possibilità inaudita di ricombinarlo per una nuova “ominiscenza”. Non sono solo le ibridazioni realizzate di truculenti trapianti di organi tra animali (es. maiali) e uomini, ma la possibilità troppo umana di diventare le cause operazionali della vita; di diventare naturanti, da naturati. L’ordigno termo-nucleare era l’oggetto-mondo della distruzione finale; l’insieme degli algoritmi genetici sono l’oggetto-mondo iniziale della creazione e annunciano l’uscita postumana dalle lente leggi evolutive. Quando l’organismo è pensato e sperimentato come una macchina informatica, l’onnivalenza o la totipotenza cellulare travalicano l’ontologia, schiudono nuove modalità del possibile e del contingente, per esplorare le impossibilità e necessità impreviste degli organismi. Ritrattiamo noi stessi, nel doppio senso di mutare e rinegoziare il nostro ritratto. Una seconda evoluzione? Di qui l’altra caratteristica, la Disintegrazione potenziale delle forme canoniche. Se il portento è un segno prospettico, lo spiegarsi allo sguardo di larghe porzioni di avvenire, è conseguente predire una teratologia postumana. Non è un caso che i vocabolari abbiano accolto il verbo “mostrificare“. Il mostro infatti è Babele, frutto della de-programmazione degli automi genetici. Poiché la vita è l’incarnazione di linguaggi simbolici, gli esiti della dissociazione di virtualità incarnate possono essere mostruosi – in tutti i sensi orridi e/o eccelsi del termine. Mostri algoritmici, morfologie aberranti, effetti di una tecnologia ricombinante dei fondi neri nella banca genetica. Tecnologia “dolce”, virtualmente surrealista che resta però in dipendenza di miti, riti e feticci iscritti nella memoria del nostro immaginario. Possiamo realizzare tutti gli antichi mostri che perdurano nei miti e nelle favole e proliferano nei nostri videogiochi. Per Rosi Braidotti che considera inesorabile la marcia dei nuovi soggetti mostruosi, “un nuovo patto si è stretto tra i corpi post-moderni, l’immaginario grottesco e le tecnologie”.
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Il mostro dei mostri resta comunque lo scienziato pazzo, anche se molto cambiato nella fisionomia e nell’episteme rispetto all’anticipazione di A&I. Non è quello che frequenta l’immaginario massificato: sciatto e irsuto, asociale e distratto; bricoleur inventivo dal riso maniacale e l’accento straniero, che vive in laboratori ingombri di macchine, tra liquidi ribollenti e vapori inquietanti. E neppure quello ebbro di potere politico e dominazione planetaria. È lo scienziato che si immagina di poter “naturalizzare” tutta la vita collettiva e sociale. Ben ritratto da B. Latour: “il “savant fou” s’avanza tutto solo, per lo più armato di fatti che dovrebbero logicamente valergli il generale consenso. Esige che li si prendano sul serio i fatti, come raccomandano i trattati di epistemologia. S’indigna in nome dei valori della scienza che la sua proposta non sia riconosciuta come scientifica“. Scordandosi che è proprio della scienza l’assenza di ogni valore a priori per (con)vincere il costituzionale scetticismo dei colleghi, dando luogo ad appassionati dibattiti senza i quali i fatti bruti sono privi di scientificità. Questo “mostro di scienza” si pretende a ruota libera; non riconosce il noi, che non è pluralità di io, ma rete di interazioni. Prima il giudizio collettivo dei pari, poi quello del sociale è integrale alle tecnoscienze: l’etnico decide del tecnico. La società , teniamolo a mente, evolve attraverso fenomeni non sociali e la tecnologia per mezzo di pratiche non soltanto tecniche. Verifichiamo da cittadini le competenze delle scienze: “collaudo” implica la “lode”, ma “perizia” è connessa a “pericolo”. Altrimenti i mad doctors potrebbero e/o possono ricombinarne di tutti i valori.
3.1
“the past is never dead. It’s not even past.” (Faulkner)
Il mostro è dunque un promemoria semiotico, un semioforo sociale. Una decorazione a grottesca del mediascape. Ma rispetto ad A&I, il suo significato immaginario (soprannaturale), muta in ragione delle nuove interdefinizioni in cui si trova coinvolto: rispetto al nuovo statuto dell’animale e delle creature dell’automatica, la disciplina dell’automazione.
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C’è tuttavia un (brutto) semioforo ad indicare che l’Occidente può ancora produrre favole e che i “miti possono continuare a fluire” (Wittgenstein). Un nuovo attante collettivo, l’apice attuale del la mostruosità, il quale non ibrida la natura e la cultura, l’animato e l’inanimato, ma si colloca tra la vita e la morte: lo Zombie. Il Non Morto, figuro eso-darwiniano evoluto dal ghol caraibico di A&I, fino ad occupare, scervellato com’è, i laboratori neurali e i manuali di filosofia analitica (col nome di Zimbo). “This disconcerting fantasy helps to make the problem of phenomenal consciousness vivid (sic!) especially as a problem for physicalism“, recita la Stanford Encyclopedia of Philosophy nell’ampia voce a lui dedicata.
I Non Morti, testimoni di un macabro decadentismo suburbano, sono diventati icone della mondializzazione. Il luogo sinistro dei loro sepolcreti abbandonati, lo Zombistan, è infiltrato nell’immaginario collettivo fino a suscitare sfilate carnevalesche di maschere neogotiche e grottesche. Halloween bachtiniano in cui i giardini tornano alla loro origine, il cimitero , così come le città alle necropoli. Folle di giovani attivisti, tra contestazione e parodia, partecipano perinde ac cadaver a marce festose e civilmente impegnate di Non Morti semimarciti. I morti non ridono, ma i Non Morti azzannano. “Si ride invece di divorare” (Canetti); il morso infetto dello zombi è sostituito dal riso di simulatori travestiti. Sono Zombie walk, flash mob semi-spontanee, performance alternative rispetto al modello processionale dei cortei politici.
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Zombi è il nome collettivo di ribelli alle tautologia cadaveriche dell’ontologia: “chi muore giace e il vivo si dà pace“. I Non Morti però non vanno in Massa come quella invisibile dei morti – le “strapotenti masse dell’Aldilà” (Canetti) – coi quali pur condividono alcuni tratti salienti : apertura, accrescimento, lentezza ritmica, eguaglianza, concentrazione, ecc.. Gli Zombi sono un rizoma in movimento, una Muta di deleuziana memoria, un collettivo in tensione permanente verso un’unica meta: la caccia all’uomo. Una preda che, nella prospettiva astiosa del morto, sopravvive indebitamente. La muta – che è etimologicamente, movimento, sommossa e partita di caccia – è volta ossessivamente alla comunione di un tacito pasto collettivo. “Tutti afferrano, mordono, masticano, inghiottono la stessa cosa” (Canetti), cioè gli esseri umani, ridotti ad una massa di Disintegrati. Senza tema di buonismo, C. Lévi-Strauss, ragionando di cannibalismo, vedeva la vita sociale come “limite inferiore della predazione” e riteneva che “Tutto sommato, il mezzo più semplice di identificare l’altro a se stessi è ancora quello di mangiarlo“. La convivenza collettiva sarebbe l’effetto della deliberata sospensione della differenza primaria e divorante tra prede e predatori, e gli Zombi una sospensione regressiva di questa stabilizzazione.
3.2.
Gli Zombi ci fanno orrore poiché non sono Loro, i radicalmente Altri; sono insieme Noi e Voi, con un’umanità che ci ributta per l’atroce sospetto di farne parte. Ma più ancora ci spaventano come protagonisti dell’Ipercalissi delle pandemie postmoderne, le estinzioni di massa che hanno il pianeta come teatro di operazioni. Nella finzione i Non morti si rappresentano come il rumore epidemico che infesta lo stato di salute dell’umanità, la manifestazione infettiva e virale della morte nel suo ritorno in vita. La loro conquista planetaria anticipa e forse preconizza un mondo ecatombale ed ossidionale. I Vivi superstiti, assediati in isole settarie di cacciatori, devono far ri-morire gli Zombi risorti e insorti, mentre questi contagiano i vivi e li risuscitano come Non Morti. La vita resiste alla morte e il Non morto assalta la vita. Come un kamikaze, avanza verso l’avversario vivente senza tema di rimorire. Il risultato complessivo è la fine di ogni forma d’inumazione e una Non umanità, incivile – direbbe Vico – perché insepolta. Votata quindi ai fantasmi divoranti della propria carne: necrofobia e necrofilia. Nella simulazione tecno-scientifica esiste già un modello diagnostico di questi parassiti paradossali, con prognosi calcolate. Per sradicare l’infezione sono previste riduzioni quantificabili del numero deli Zombi: con attacchi rapidi e violenti si potrebbe evitare il collasso dell’umanità, soverchiata dai nuovi barbari estinti. È, appunto, l’Ipercalisse.