Mostri, disintegrati e ipercalittici


Da: AA.VV., 50 anni dopo apocalittici e integrati di Umberto Eco, a cura di Anna Maria Lorusso, DeriveApprodi, Roma, 2015.


 

O memoria con meco t’incammini,
lo sparso accordi e riconformi il fratto:
qui già per lei venni in furore e matto
qui da lei ebbi i succhi suoi più fini.
(A. Zanzotto, Sonetto dell’amoroso e del parassita)

In un convegno AISS sul Multinaturalismo, la richiesta di tornare, col senno semisecolare di poi, sui saggi di Umberto Eco, raccolti nell’iconico titolo Apocalittici e integrati (A&I), merita la curiosità del frattempo (cos’è successo ad un’opera di successo?) e la cura del contempo (un’attenzione attualizzata nel presente). Abbiamo tutti bisogno del passato per stupirci del futuro e tornare al presente.
Ho pensato dapprima che il ricordo inganna (ed è per questo che conta?) mentre avrei voluto riaprire questo libro attempato con lo spirito antievolutivo del personaggio di Salinger: il giovane Holden frequentava i musei di storia naturale per ritrovarvi i diorama immobili di antichi processi sedimentari, un luogo in cui la sola cosa diversa era lui. Si legge in altro modo in età differenti e un piacere d’invecchiare è scoprire quanto possano cambiare le proprie opinioni su testi già preferiti. Sapevo però per esperienza che l’esito felice di un libro – oltre alla giustezza figurativa del titolo – risiede in quel non detto che il tempo ci fa ricordare. (È la condizione per cui uno scritto non vada in prescrizione?) E non temevo la figura epidittica dell’elogio – inevitabile nella società adulatoria dei media di massa – la quale non si limita a ridondare valori perché combatte obbiezioni future. Elogio più che meritato da un libro sopravvissuto ai ritorni a passo di gambero degli anni Novanta: quando si chiedeva a gran voce – proprio contro A&I – di ristabilire la distinzione tra alta e bassa cultura (“La società creata dalla TV è una società naturaliter di destra”, sentenziava Norberto Bobbio).
Per i nolenti e i volenti, A&I è passato a miglior vita e resta in memoria come il testo seminale degli strabocchevoli studi della cultura di massa e dei suoi media. Eppure non era certo che l’autore d’un libro di grande impianto come Opera Aperta, pubblicato in precedenza, volesse collocare i segnavia perché i futuri massmediologi si mettessero per quella strada. Ma questa intempestività è il segno del sapere che esita, il solo che conta (e manca ancora ai computer!).
Il mediologo contemporaneo, semioticamente formato, può usare del testo cinquantenario oltre il compleanno burocratico, se inverte l’abituale percorso della significazione. Anziché partire dal significante verso il referente, può selezionare dal piano semantico di A&I un tratto saliente da esemplificare per l’attualità della ricerca.
Per noi si tratta della tenace attrazione di Eco per l’orrore e il suo attante collettivo: il Mostro (v. “Il nostro mostro quotidiano”, l’ultimo capitolo di A&I). Per gli “amatori dell’orrido”, il futuro narratore di Baudolino descrive con particolareggiata dovizia la voga che ha introdotto nella cultura popolare il gusto macabro di “vampiri e mad doctors, golem e zombie”. Cerca poi i moventi di questa “libera espansione dell’irrazionale”: esclude l’estetismo delle radici neogotiche e dell’umor nero surrealista; i sintomi di nevrosi collettiva avanzati dalle diverse psicanalisi e le compensazioni di un pubblico desabusé in cerca di basiche emozioni. Trova una “chiave di senso per li segni bui” (Dante) in un membro privilegiato della mostruosa panoplia: il mad doctor è l’Eco-mostro “che non nasce dalla magia o dal disguido di forme naturali, ma dalla scienza” (A&I). Il sapere rigoroso ha generato la più terrificante delle creature: la bomba atomica. Non è la storditaggine di Epimeteo, il fratello stolto di Prometeo, che libera i mali contenuti nel vaso di Pandora. È la ragione ben vigile e desta che genera i mostri. L’immaginazione massiva attribuisce alla prassi dello scienziato le più spaventevoli invenzioni: come Frankenstein, il Vampiro e Godzilla per attenerci a quelli di sicura reputazione. Di qui l’angoscia fluttuante che farebbe vendere rifugi contro le invisibili radiazioni atomiche e maschere-giocattolo, ripari salvavita per l’inconscio. Tra lo stuolo crescente dei mostri, aggiunge Eco, barcolla lo zombi che, “come sanno anche i bambini”, sarebbe “un cadavere riportato in vita con procedimenti di magia, che se ne va in giro privo di autocontrollo e sottomesso ai desideri di una volontà malefica che lo guida” (A&I).
Mezzo secolo fa, Eco additava dunque, con gesto sicuro, il gusto smodato, lo stranamore dei media – dal fumetti, al cinema, ai feuilleton televisivi, ai videogiochi – per un genere, l’orrore, che circola oggi con l’aria del tempo. Preconizzava l’ubris di nuove ibridazioni e nuove paure; anticipava con un’alzata d’ingegno il prodromo dello zombi, figura onnivora dell’immaginario al presente. L'”ermeneutica […] tratta il mostro come un testo rivelato” (Eco, 2012). Si interrogava filosoficamente sulla metamorfosi in termini che sarebbero piaciuti a S. Cavell, filosofo cinefilo: “coscienza dell’umana precarietà […] che può essere perduta o invasa e che possiamo essere o diventare qualche cosa d’altro rispetto a quel che siamo e che immaginiamo di essere”. Allora cogitamus. Per Eco il mostro non è una svogliatura massmediatica, ma un Operatore semiotico che chiameremmo Teratologico. È una passione per il segno prodigioso e portentoso – i mirabilia – e una tenace inclinazione estetica e narrativa (Eco, 2007). Presente nella recente summa dei suoi scritti medievali su “La bellezza dei mostri”, turpi e difformi come quelli descritti da Agostino (Civitas Dei, XVI, 8), che sono gli antonimi dell’estetica provvidenziale della natura ed ammaestrano a significazioni moralizzate. Passione che perdura fino all’accurata lista dell’armata dei mostri in Baudolino – sciapodi, giganti, pigmei, blemmi, ponci, panozi, senzalingua, satiri che non si vedono mai ecc., (ispirata al Romanzo d’Alessandro, XII sec.). E soprattutto nell’ardente romanzo d’amore del narratore per la semi-apatica Ipazia, femmina delicata fino alla vita e dalle gambe caprine e zoccoli d’avorio.
In conclusione: A&I maneggiava un teratoscopio: preconizzava con sicurezza le forme del mostruoso dopo la mutazione moderna, l’evoluzionismo eso-darwiniano dell’idea di natura e dell’immaginazione teratologica.

2.1

simile mostro visto ancor non fue
(Dante, Purgatorio, XXXII, v. 147)

I mostri reali o immaginari sono ambivalenti per le emozioni che suscitano e per i segni che anticipano1. In quanto violazioni dell’ordine naturale e collettivo, i mostri suscitano ripugnanza, il prezzo che la natura pagava per la semplicità e regolarità da cui deviavano. Le creature mostruose non erano tanto innaturali o sovrannaturali quanto sessualmente e socialmente indecorose. Esiti di rapporti peccaminosi, oltraggiavano la morale collettiva. La loro anatomia è stata ed rimane il significante di proposizioni teologiche e sociali, di filosofia naturale e di estetica. L’anomalo è un normale deviato che conferma come eccezione la regola. Ma le deviazioni morfologiche erano cariche di avvertimenti, prescrizioni di condotte, insegnamenti malamente somatizzati. Non c’è niente di così mutuo quanto il mutante.
Fuori dalla dottrina dei presagi, destavano però il piacere spettacolare della meraviglia, il godimento estetico davanti alla ingegnosa varietà naturale e ai capricci del caso e dell’arte. L’umana natura evolve lentamente ed è povera in mostri, mentre nell’immaginazione essi sono in costante speciazione e “saltazionismo”2. Eppure la scienza stessa, per la regola di tentare tutti i possibili, ha trattato la mostruosità come un esperimento sostitutivo sulla metamorfosi biologica e antropologica. Come succede all’immaginazione letteraria e visiva, le regolarità della natura lasciavano anche allo scienziato lo spazio di un anticosmo, d’un caos illecito di singolarità.

2.2

Queste condizioni sembrano oggi radicalmente mutate in un senso che chiameremmo Ipercalittico e Disintegrato. L’Ipercalissi è l’effetto di quello che M. Serres chiama “la seconda bomba atomica”, la scoperta del codice genetico e la possibilità inaudita di ricombinarlo per una nuova “ominiscenza”. Non sono solo le ibridazioni biotecniche realizzate o facilitate di truculenti trapianti di organi tra animali (es. maiali) e uomini, ma la possibilità troppo umana di diventare le cause operazionali della vita. Intervenendo sulle linee germinali diventiamo, da naturati, naturanti. L’ordigno termo-nucleare era l’oggetto-mondo della distruzione finale; l’insieme degli algoritmi genetici sono l’oggetto-mondo iniziale della creazione e annunciano l’uscita postumana dalle lente leggi evolutive. Quando l’organismo è pensato e sperimentato come una macchina informatica, l’onnivalenza o la totipotenza cellulare non si limitano a correggere gli “errori di battitura del codice della vita”. Travalicano l’ontologia, schiudono nuove modalità del possibile e del contingente, per esplorare le impossibilità e necessità impreviste degli organismi. Con tecniche di ingegneria genetica dall’acronimo retoricamente significativo – CRISPR, clustered regularly interspaced short palindromic repets – possiamo ritrattare noi stessi, nel doppio senso di mutare e rinegoziare il nostro ritratto. Una seconda evoluzione? Di qui l’altra caratteristica, la Disintegrazione potenziale delle forme canoniche. Se il portento è un segno prospettico, lo spiegarsi allo sguardo di larghe porzioni di avvenire, è conseguente predire una teratologia postumana. Non è un caso che i vocabolari abbiano accolto il verbo mostrificare. Il mostro infatti è Babele, frutto della de-programmazione degli automi genetici. Poiché la vita è l’incarnazione di linguaggi simbolici, gli esiti della dissociazione di virtualità incarnate possono essere mostruosi – in tutti i sensi orridi o eccelsi del termine. Mostri algoritmici, morfologie aberranti, effetti di una tecnologia ricombinante dei fondi neri nella banca genetica. Tecnologia “dolce”, chirurgia estetica virtualmente surrealista che resta però in dipendenza di miti, riti e feticci iscritti nella memoria del nostro immaginario. Possiamo realizzare tutti gli antichi mostri che perdurano nei miti e nelle favole e proliferano nei nostri videogiochi. Per Rosi Braidotti che considera inesorabile la marcia dei nuovi soggetti mostruosi, “un nuovo patto si è stretto tra i corpi post-moderni, l’immaginario grottesco e le tecnologie”. Un Tecnokitsch che può anche restare rigorosamente darwiniano: nei migliori esempi di videoludica gli svariatissimi Mostri vivono in ecosistemi congruenti e verosimili: sviluppano le anatomie e i comportamenti più improbabili, ma adatti ai luoghi e ai climi, secondo i dettati dalla selezione naturale3 (v. Dark Souls, Monster Hunter).
Il mostro dei mostri resta comunque lo Scienziato Pazzo, anche se molto cambiato nella fisionomia e nell’episteme rispetto all’anticipazione di A&I. Non è quello che frequenta l’immaginario massificato: sciatto e irsuto, asociale e distratto; bricoleur inventivo dal riso maniacale e l’accento straniero, che vive in laboratori ingombri di macchine, tra liquidi ribollenti e vapori inquietanti. E neppure quello ebbro di potere politico e dominazione planetaria. È lo scienziato che si immagina di poter “naturalizzare” tutta la vita collettiva e sociale. Ben ritratto da B. Latour: il “savant fou s’avanza tutto solo, per lo più armato di fatti che dovrebbero logicamente valergli il generale consenso. Esige che li si prendano sul serio i fatti, come raccomandano i trattati di epistemologia. S’indigna in nome dei valori della scienza che la sua proposta non sia riconosciuta come scientifica”. Scordandosi che è proprio della scienza l’assenza di ogni valore a priori per (con)vincere il costituzionale scetticismo dei colleghi, dando luogo ad appassionati dibattiti senza i quali i fatti bruti sono privi di scientificità. Questo “mostro di scienza” si pretende a ruota libera; non riconosce il noi, che non è pluralità di io, ma rete di interazioni. Prima il giudizio collettivo dei pari, poi quello del sociale è integrale alle tecnoscienze: l’etnico decide del tecnico. La società, teniamolo a mente, evolve attraverso fenomeni non sociali e la tecnologia per mezzo di pratiche non soltanto tecniche. Verifichiamo da cittadini le competenze delle scienze: “collaudo” implica la “lode”, ma “perizia” è connessa a “pericolo”. Altrimenti i mad doctors potrebbero e/o possono ricombinarne di tutti i valori: il bambino perfetto o l’individuo “chimera”.

3.1

the past is never dead. It’s not even past
(Faulkner)

Il mostro è dunque un promemoria semiotico, un semioforo sociale. Una decorazione a grottesca del mediascape. Ma rispetto ad A&I, il suo significato immaginario (soprannaturale), muta in ragione delle nuove interdefinizioni in cui si trova coinvolto: rispetto al nuovo statuto dell’animale e delle creature dell’automatica, la disciplina dell’automazione.
1. Il paleo-mostro che s’aggirava e ci aggrediva nel nostro immaginario collettivo, era l’effetto d’un sentimento ambivalente di attrazione/ribrezzo, pietà e fascinazione per il mondo animale. Per quello prossimo, soggetto alla domesticazione (gli animali di compagnia, il bestiame) e quello lontano (la selvaggina e la belva). Ma dopo che la zootecnologia ha segnato la fine della domesticazione – le stalle/hangar – le “bestie” devono smettere di essere delle macchine proteiche cartesiane. E diventeranno con noi gli attanti di un nuovo contratto di co-domesticazione, preconizzata da Esopo, Fedro o Lafontaine. Alle scimmie superiori è stata è chiesto (e finora rifiutato) di estendere la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo!
2. Il mostro diviene l’attrattore e repulsore di una nuova ibridazione tra l’uomo e la macchina; non il robot e la macchina mostruosa, ma il Cyborg, di cui si è lungamente ipotizzato, discettato e sognato con i termini di post-umano o Terminator. E il “sex appeal dell’inorganico”, per le commistioni con automatismi di ogni ordine e grado, meccanico ed informatico; una dissolvenza incrociata tra umano e inumano; un morphing comprensibile nel mondo digitale delle macchine cerebrali che pullula di “angeli”, cioè di messaggeri catodici e digitali, gelati e disincarnati.

3.2

C’è tuttavia un (brutto) semioforo ad indicare che l’Occidente può ancora produrre favole e che i “miti possono continuare a fluire”(Wittgenstein). Un nuovo attante collettivo, l’apice attuale del la mostruosità, il quale non ibrida la natura e la cultura, l’animato e l’inanimato, ma si colloca tra la vita e la morte: lo Zombie. Il Non Morto, figuro eso-darwiniano evoluto dal ghol caraibico di A&I, fino ad occupare, scervellato com’è, i laboratori neurali e i manuali di filosofia analitica (col nome di Zimbo). “This disconcerting fantasy helps to make the problem of phenomenal consciousness vivid (sic!) especially as a problem for physicalism”, recita la Stanford Encyclopedia of Philosophy nell’ampia voce a lui dedicata.
I Non Morti, testimoni di un macabro decadentismo suburbano, sono diventati icone della mondializzazione. Il luogo sinistro dei loro sepolcreti abbandonati, lo Zombistan, è infiltrato nell’immaginario collettivo fino a suscitare sfilate carnevalesche di maschere neogotiche e grottesche. Halloween bachtiniano in cui i giardini tornano alla loro origine, il cimitero, così come le città alle necropoli. Folle di giovani attivisti, tra contestazione e parodia, partecipano perinde ac cadaver a marce festose e civilmente impegnate di Non Morti semimarciti. I morti non ridono, ma i Non Morti azzannano. “Si ride invece di divorare” (Canetti); il morso infetto dello zombi è sostituito dal riso di simulatori travestiti. Sono Zombie walk, flash mob semi-spontanee, performance alternative rispetto al modello processionale dei cortei politici.
Lo Zombi, salma imperfetta, è ricollocato in nuova cladistica del genere orrorifico, in una tassonomia teratologica che ha redistribuito. Il Non morto barcolla ormai definitivamente nella mediasfera contemporanea; è una sillaba di contenuto della parola Orrore. Il suo turpe genere occupa un posto di spicco nella biodiversità immaginaria della cultura de-massificata4. La sua strategia di sopravvivenza lo obbliga ad evolvere adattandosi all’ambiente e a lottare per durare. Si è già confrontato con tutti i supereroi, dall’Uomo Ragno a Hulk, da Giant-man a Wolverine. Si è posto in relazione e tensione con tutti i figuri dello spavento: Luciferi e Robot, Cyborg e Alieni, Replicanti e Cloni, Fantasmi e Mummie, Licantropi e Ultracorpi, Estraterrestri e Vampiri, con cui condivide differenze che si somigliano. “Lo Zombi, solidamente intra-terrestre è contrario, per la sua corrotta fisicità, agli ectoplasmatici Angeli e Fantasmi e alla perfezione meccanica del Robot […]. Tra i morti di ritorno dalla loro società di conservazione, lo Zombi si ridesta come la Mummia o lo Scheletro, da cui si differenza per lo stadio di decomposizione. Lo scheletro è secco e articolato come il Robot, mentre il Non Morto suscita il disgusto per l’avanzato marciume che li deforma e trascolora; la Mummia, meglio conservata, pour cause, si situa tra lo Scheletro e lo Zombi di cui condivide, con il Golem, l’incerta andatura. Ma è nel Vampiro, per i condivisi istinti cannibali, che il Non Morto trova il competitor dai maggiori addentellati nella semantica sepolcrale. Un “mitema” che le stesse proprietà “emergenti”, ma ne differisce nello stile di vita e di consumi: il Vampiro è (ancora, ma per poco) l’elegante abitatore di dimore e sepolcri, gli Zombi frequentano fosse comuni in periferia e supermercati middleclass, parchi di attrazioni, isole-prigione e persino set del Grande Fratello; il seducente per quanto declassato Vampiro sugge sangue da zone erogene, mentre gli Zombi, sfuggiti appena agli inceneritori, escono sgualciti dalle bare e divorano surplace lacerti di carni umane, crude e scondite”. Ne abbiamo già detto altrove (Fabbri, 2013 v. bibliografia), ma un tratto ci punge ancora l’attenzione. Zombi è il nome collettivo di ribelli alle tautologie cadaveriche dell’ontologia: “chi muore giace e il vivo si da pace”. I Non Morti però non vanno in Massa come quella invisibile dei morti – le “strapotenti masse dell’Aldilà” (Canetti) – coi quali pur condividono alcuni tratti salienti: apertura, accrescimento, lentezza ritmica, eguaglianza, concentrazione, ecc. Gli Zombi sono un rizoma in movimento, una Muta di deleuziana memoria, un collettivo in tensione permanente verso un’unica meta: la caccia all’uomo. Una preda che, nella prospettiva astiosa del morto, sopravvive indebitamente. La muta – che è etimologicamente, movimento, sommossa e partita di caccia – è volta ossessivamente alla comunione di un tacito pasto collettivo. “Tutti afferrano, mordono, masticano, inghiottono la stessa cosa” (Canetti), cioè gli esseri umani, ridotti ad una massa di Disintegrati. Senza tema di buonismo, C. Lévi-Strauss, ragionando di cannibalismo, vedeva la vita sociale come “limite inferiore della predazione” e riteneva che “Tutto sommato, il mezzo più semplice di identificare l’altro a se stessi è ancora quello di mangiarlo”. La convivenza collettiva sarebbe l’effetto della deliberata sospensione della differenza primaria e divorante tra prede e predatori, e gli Zombi una sospensione regressiva di questa stabilizzazione.

3.3

Gli Zombi ci fanno orrore poiché non sono Loro, i radicalmente Altri; sono insieme Noi e Voi, con un’umanità che ci ributta per l’atroce sospetto di farne parte. Ma più ancora ci spaventano come protagonisti dell’Ipercalissi delle pandemie postmoderne, le estinzioni di massa che hanno il pianeta come teatro di operazioni. Nella finzione i Non morti si rappresentano come il rumore epidemico che infesta lo stato di salute dell’umanità, la manifestazione infettiva e virale della morte nel suo ritorno in vita. La loro conquista planetaria anticipa e forse preconizza un mondo ecatombale ed ossidionale. I Vivi superstiti, assediati in isole settarie di cacciatori, devono far ri-morire gli Zombi risorti e insorti, mentre questi contagiano i vivi e li risuscitano come Non Morti. La vita resiste alla morte e il Non morto assalta la vita. Come un kamikaze, avanza verso l’avversario vivente senza tema di rimorire. Il risultato complessivo è la fine di ogni forma d’inumazione e una Non umanità, incivile – direbbe Vico – perché insepolta. Votata quindi ai fantasmi divoranti della propria carne: necrofobia e necrofilia. Nella simulazione tecno-scientifica esiste già un modello diagnostico di questi parassiti paradossali, con prognosi calcolate. Per sradicare l’infezione sono previste riduzioni quantificabili del numero deli Zombi: con attacchi rapidi e violenti si potrebbe evitare il collasso dell’umanità, soverchiata dai nuovi barbari estinti. È, appunto, l’Ipercalisse.
È difficile, se non acrobatico, correlare gli sciami acefali dell’immaginario mostruoso con le complessità dei collettivo socio-culturale, con la storia sociale della tecnologia e l’idea dell’umano, ma è nel cuore delle nostre mitologie che l’anti-comportamento dei vivi provoca il contatto coi morti. Come evitare allora soluzioni sociologiche chiavi in mano: lo Zombi come geroglifico sociale, “sintomo di insoddisfazione culturale e crisi economica” ed altri solecismi: la desacralizzazione e la modernizzazione, e via dicendo? Eppure, nonostante tutto, ci attendiamo etimologicamente dall’Ipercalisse, rivelazioni che rispondano alle domande più cogenti sulla necrosi individuale e la narcosi collettiva. Sullo statuto attuale della persona, le sue identità e appartenenze, reso fluido dalla medicina: i pazienti in coma profondo – PDV, stato vegetativo permanente – sono ancora vivi (quasi-soggetti) o non morti (quasi-)oggetti? Ancora. L’esigenza biblica che i morti seppellissero i morti era un provvedimento d’estradizione per impedire la permanenza dei trapassati come Antenati ingombranti. Da piangere ritualmente per liberare o almeno schiarire l’avvenire. Oggi dai Non Morti, Lazzari ridestati da trascendenze incognite, giunge al presente dei vivi un interrogativo “storico” ineludibile: “Come convivere con le esperienze del passato? Senza una tensione progettuale per il futuro!?” Per il presentismo contemporaneo i vivi e Non morti non sono forse equipollenti? In assenza di risposte, le immagini decomposte e cannibali degli Zombi continueranno ad inquietare i nostri incubi.

4

Nel presentismo che ci abita non v’è nulla di inattuale. A&I è stato assemblato anni or sono, nel “presente remoto” in cui Eco stava per varcare la soglia di quella bolla semiotica che sembra sgonfia e ad alcuni esplosa5. In tempi di disarmo critico – vacche magre e cavalli di Troia al galoppo – le preterizioni sono numerose quanto le stanze segrete del noir. Tanto meglio: dai libri e dai metodi che non si condividono si può imparare parecchio, se stimolano pensieri imprevisti. A mio avviso però il libro, in molti suoi luoghi, addita ancora temi (allora) nuovi e analisi (oggi e domani) più rigorose. Sul tema dell’orrore e del mostro – così conosciuto da non venire ri-conosciuto – A&I merita orecchie più biforcute delle mie: sulle utopie di immortalità e sui segnali di apoptosi che permetteranno di scegliere la propria morte. Ci sembra però di aver mostrato che il passaggio dall’Apocalisse all’Ipercalisse e dall’Integrazione alla Disintegrazione hanno una fecondità che non si limita all’eco-tassa degli scritti d’occasione. Si chiama “de-revoluzione” far derivare l’uno dall’altro due punti di vista innovativi.


Note

  1. Per una buona descrizione del Mostro (Abruzzese, 2003). “Una figura che si distingue per la forza immaginifica con cui le sue forme sconvolgono l’ordinaria percezione della natura e degli uomini, per la paura che incute il loro carattere caotico, assai più che alieno, straniero, strano. Creatura informe. Figura ibrida, spesso tra l’umano e il bestiale, in cui una diabolica scissione tra anima e carne, spirito e materia, esclude ogni sua pur minima armonia, ogni pur velata bellezza. Figura dell’inferno, della notte, dell’ombra, del profondo”. Mi permetto di aggiungere: (i) definito dalle emozioni ambivalenti che suscita: orrore, piacere e ripugnanza; (ii) semioforo di divine ire e imminenti catastrofi, causate da umani peccati lesivi di ordini naturali e/o morali. torna al rimando a questa nota
  2. Fin da Michelangelo Buonarroti: “Son lieto di dirvi perché si costumi dipingere quel che non si è mai veduto al mondo e quanta ragione e verità vi sia in sì grande licenza […] i pittori e i poeti possono tutto osare, dico osare ciò che preferiscono. E questo potere, questo retto giudizio sempre possedettero, perché se un grande pittore (e poche volte accade) fa un’opera che appare falsa e mentitrice, in quella tale falsità vi è molta verità. E se dimostrasse più verità sarebbe menzogna”. V. F. De Hollanda, De pintura antiqua, 1548. Per arrivare a Lévi-Strauss: “Quanto a lui, il pensiero mitico non è solo prigioniero di eventi ed esperienze che incessantemente dispone e ridispone per scoprirvi un senso; è anche liberatorio per la protesta che eleva contro il non-senso, con cui la scienza si era dapprima rassegnata a transigere”. Il Pensiero Selvaggio, cap. 1. (trad. mia). torna al rimando a questa nota
  3. Mentre l’invenzione del mostro classico veniva arricchita dall’Iconologia e dai blasoni è nel medium videoludico che proliferano i mostri ibridi con la convergenza di figuri occidentali ed estremo-orientali nei videogiochi di ruolo del genere epico. Eccone alcuni tratti da Dark Souls, videogioco ideato e diretto da H. Miyazaki e sviluppato dalla giapponese FromSoftware, 2011.
    Boss, mostri dominanti come Viarianri detto Wyvern, drago viperone araldico. Seltas (un grande insettoide volante, controparte maschile di Seltas Quee); Ruby Basarios (una sottospecie del Basarios, ricoperto di cristalli rosati); Najarala (bizzarro e pericoloso wyvern dal corpo serpentesco e sormontato da creste); Seltas Queen (gigantesco e potente insettoide terrestre, controparte femminile di Seltas); Gore Magala (mostro di classificazione incerta, capace di infettare gli altri mostri con un virus che provoca pazzia); Kecha Wacha (particolare Primatius delle foreste, che minaccia il nemico mostrandogli una “maschera” disegnata sulle sue orecchie); Nerscylla (enorme ragno molto velenoso, che tesse la sua tela sugli alberi e nelle caverne); Tetsucabra (un wyvern anfibio con grosse zanne nella mandibola, la cui colorazione vivace ne indica la pericolosità); Tigrex Rare Species (una nuova sottospecie cremisi del Tigrex, molto più potente); Zamtrios (wyvern delle regioni polari, capace di ricoprirsi con una armatura di ghiaccio protettiva); Dalamadur (drago anziano di enormi dimensioni, dalla schiena coperta di aculei); Daren Mohran (simile al Jhen Mohran, se ne distingue per il muso a forma di trapano); Kirin Subspecies (sottospecie scura del Kirin, che attacca con il ghiaccio); Shagaru Magara (la forma adulta del Goa Magara, è molto più potente ed aggressivo della sua controparte giovane).
    Matteo Maria Boiardo non avrebbe fatto meglio. Inoltre il giocatore-cavaliere può scontrarsi con una sottospecie di mostriciattoli di cui seguono i soli nomi.
    Altaroth, Aptonoth, Bnahabra, Conga, Delex, Felyne, Gargwa, Genprey, Ioprey, Jaggi, Jaggia, Kelbi, Melynx, Popo, Remobra, Rhenoplos, Slagtoth e Velociprey.
    E ancora: Akantor, Basarios, Brachydios, Congalala e Congalala Smeraldo, Deviljho (incluso il Deviljho Selvaggio), Fatalis e Fatalis Cremisi, Gendrome, Gran Jaggi, Gravios e Gravios Nero, Gypceros e Gypceros Violaceo, Iodrome, Khezu e Khezu Rosso, Kirin, Kushala Daora e Kushala Daora Arrugginito, Lagombi, Rajang (incluso il Rajang Dorato), Rathalos (con le sue sottospecie Rathalos Azzurro e Rathalos Argentato), Rathian (con le sue sottospecie Rathian Rosa e Rathian Dorata), Teostra, Tigrex e Tigrex Nero, Velocidrome, Yian Garuga, Yian Kut-Ku e Yian Kut-Ku Blu, Zinogre e Zinogre Stigeo.
    Altri mostri policromi e parzialmente coincidenti in Monster Hunter G, edito nel 2005.
    Lao-Shan Lung, cinereo; Rathalos, azzurro, e argenteo; Diablos, nero; Gravios, nero; Yian Kut-Ku, blu; Rathian, dorata e rosa; Fatalis, cremisi; Plesioth, verde; Gypceros, violaceo; Khezu, rosso; Monoblos, bianco. torna al rimando a questa nota
  4. Quando Eco scrive A&I sono già usciti i migliori film sul mostro: Frankenstein (1931), Godzilla (1954) e il contemporaneo Lo squalo (1975). Seguirà la serie degli Alien (i più riusciti quelli del 1979 e del 1986); La cosa (1982); La mummia (1991); Jurassic Park (2001), King Kong (2005). E numerosi Zombi (v. Fabbri, 2014). torna al rimando a questa nota
  5. Dalla fine degli anni 60, Eco intraprese il suo periplo semiotico improntato alla semio-logica di C. S. Peirce. Qui come ebbe a scrivere T. Folengo: “Argumenta volant dialectica, mille sophistae / adsunt baianae: pro, contra, negoque, proboque. / Materiae non mancant ibi, non forma, lyhomo, / ens, quiditas, acidens, substantia, cum solegismo”, Baldus, L. XXV, 4490-3. torna al rimando a questa nota

Bibliografia

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