Luis J. Prieto, in Saggi di Semiotica. Volume II. Sull’arte e sul soggetto, Pratiche ed., Parma, 1991, pp. 23-47.
Apparso per la prima volta, in italiano, in Museo dei musei (catalogo dell’esposizione omonima organizzata a Firenze, nel 1988, da Luccio Passetto).
1.
Un po’ più di un anno fa, in un museo di Berlino Est, ho visto esposta una macchina da scrivere, un’Erika portatile di un modello corrente negli anni ’30 che, secondo il cartellino, era stata utilizzata nella stampa clandestina della resistenza al nazismo. Forse ciò che era scritto sul cartellino non era vero, ma io sono stato comunque commosso. La domenica precedente, invece, avevo visto, su una bancarella del mercato delle Pulci di Berlino-Ovest, una macchina da scrivere della stessa marca e più o meno dello stesso modello, e seppure, a dire il vero, non avessi nessuna ragione di pensare che questa macchina non avesse servito anch’essa ai resistenti (e, certamente, nemmeno di pensare il contrario), il fatto è che essa mi lasciò del tutto indifferente. Devo dire che ho una fiducia probabilmente esagerata nei confronti dei conservatori dei musei e non mi viene mai in mente che ciò che è scritto sui cartellini possa essere una bugia e neanche un errore. Siccome, d’altra parte, sono piuttosto pessimista quanto alla possibilità di trovare tesori storici (o di un altro tipo) sulle bancarelle delle Pulci, le mie reazioni davanti all’una e all’altra macchina da scrivere si spiegano facilmente. Mettiamo però al mio posto qualcuno meno influenzato di me dai suoi pregiudizi sia favorevoli che sfavorevoli; qualcuno quindi che non tenga conto, per esempio, per commuoversi o meno davanti a un oggetto, né di ciò che si è detto su di esso né del posto dove lo trova, ma soltanto di quello che può osservare nell’oggetto stesso: sarebbe stato possibile, a questo discepolo di Didimo, accorgersi così facendo se l’una, l’altra o ambedue le macchine da scrivere erano state effettivamente utilizzate dagli antinazisti, ossia stabilire se erano autentiche macchine utilizzate da loro? Che cosa sia in generale l'”autenticità” di un oggetto e in quale misura essa possa essere accertata tramite l’osservazione sono appunto i problemi che mi propongo di esaminare in questa prima parte del mio saggio.
Supponiamo che, alle Pulci, il rigattiere responsabile della bancarella mi avesse detto: “È la stessa macchina da scrivere utilizzata dal gruppo di resistenti di cui faceva parte mio padre”. Egli poteva voler dire con questo due cose molto diverse. Poteva infatti affermare sia che la macchina da lui offerta era della stessa marca e modello di quella dei resistenti, sia che la macchina in questione era in quanto oggetto individuale la stessa macchina utilizzata da loro. Nel primo caso, con l’aggettivo “stesso” il rigattiere avrebbe fato riferimento a una identità specifica di cui era provvista la macchina da lui offerta e che la macchina dei resistenti, stando a quanto asseriva, presentava anch’essa. Se quello che voleva dire era invece che la macchina da scrivere offertami era in quanto oggetto individuale la stessa macchina di cui si servivano gli antinazisti, l’aggettivo “stesso” avrebbe fatto riferimento non a un’identità specifica della macchina, bensì alla sua identità numerica, che sarebbe stata la stessa identità numerica di una delle macchine dei resistenti.
Queste due maniere di “essere lo stesso”, ossia l’esserlo specificamente o numericamente, proprie peraltro ai soli oggetti materiali, devono essere distinte accuratamente. Un’identità specifica di cui è provvisto un oggetto può essere definita come una caratteristica o un insieme di caratteristiche che esso presenta. Poiché un oggetto presenta sempre un’infinità di caratteristiche, esso è sempre provvisto di un’infinità di identità specifiche diverse (seppure, evidentemente, mai contraddittorie tra loro). Inoltre un oggetto può trasformarsi, ossia perdere ed acquistare delle caratteristiche e quindi perdere ed acquistare delle identità specifiche. Infine, poiché una caratteristica che presenta un oggetto può sempre figurare tra le caratteristiche che presenta un altro oggetto, ognuna delle identità specifiche di cui è provvisto un oggetto può sempre essere un’identità specifica di cui è ugualmente provvisto un altro oggetto e, di conseguenza, un oggetto può essere specificamente identico a un’infinità di altri oggetti. Per quanto concerne l’identità numerica di un oggetto, si può dire, per Dar un’idea approssimativa, che essa è ciò che fa sì che un oggetto sia un tale oggetto determinato in quanto individuo e non sia un altro. Un oggetto possiede un’unica identità numerica, e questa è immutabile, giacché le trasformazioni che l’oggetto può subire concernono esclusivamente le sue identità specifiche. Inoltre, un oggetto non condivide la sua unica identità numerica con nessun altro oggetto e, di conseguenza, un oggetto può essere numericamente identificato soltanto a se stesso.
La distinzione tra questi due tipi di identità è indispensabile per essere in grado di precisare che cosa sia l’autenticità di un oggetto. Infatti, viene detto autentico l’oggetto numericamente determinato o ognuno degli oggetti numericamente determinati che sono i soli, tra tutti quelli che possiedono una certa identità specifica, a trovarsi in un dato rapporto con un altro oggetto, a sua volta numericamente determinato, ed eventualmente con una determinazioone temporale di questo. Per esempio, tra tutti gli oggetti provvisti dell’identità specifica “macchina da scrivere”, cioè che presentano tutte le caratteristiche che definiscono questa identità specifica, costituiscono autentiche macchine da scrivere utilizzate dagli antinazisti solo quelli, per forza numericamente determinati, che sono effettivamente stati in questo rapporto con loro. Al contrario di quanto succede con l’identità numerica che, come abbiamo visto, un oggetto non condivide mai con nessun altro oggetto, l’autenticità posseduta da un oggetto, nella misura in cui questo non è l’unico a trovarsi rispetto a un altro oggetto nel rapporto dal quale essa risulta, può invece essere condivisa con altri oggetti. Nulla impediva, ad esempio, che tanto la Erika del museo quanto quella delle Pulci fossero ambedue autentiche macchine da scrivere di cui si erano serviti i resistenti. D’altra parte, un oggetto può essere autentico o meno da parecchi punti di vista, tanti punti di vista quanti sono gli oggetti numericamente determinati coi quali esso può trovarsi in rapporto. La macchina da scrivere in vendita alle Pulci, ad esempio, era o meno un’autentica macchina utilizzata dai resistenti a seconda che essa fosse stata o meno utilizzata da loro. Ma, autentica o no da questo punto di vista, essa poteva essere un’autentica Erika portatile modello 1930, vale a dire essere uno degli oggetti provvisti delle caratteristiche che definiscono l’identità specifica “Erika portatile modello 1930” prodotti negli anni ’30 dal fabbricante di questa marca.
Beninteso, la macchina da scrivere poteva pure essere una falsa Erika portatile modello 1930 ed essere cioè un oggetto provvisto delle caratteristiche che definiscono l’identità specifica “Erika portatile modello 1930” ma non un oggetto prodotto dalla fabbrica Erika o un oggetto prodotto negli anni ’30. Infatti, accanto agli oggetti autentici da un certo punto di vista, ossia agli oggetti provvisti di una certa identità specifica che si trovano in un dato rapporto con un altro oggetto numericamente determinato, possono sempre esserci oggetti non autentici da tale punto di vista e cioè oggetti provvisti ugualmente dell’identità specifica in questione che non si trovano tuttavia nel rapporto accennato: si osserva qui una conseguenza del fatto già menzionato che ognuna delle identità specifiche di cui è provvisto un oggetto può sempre ritrovarsi in un’infinità di altri oggetti. Anzi, la produzione di oggetti provvisti di una data identità specifica (ottenuta necessariamente grazie alla trasformazione di oggetti che non ne sono provvisti) non è necessariamente collegata con nessun oggetto numericamente determinato né, di conseguenza, con nessuna determinazione temporale. Non è pertanto affatto da escludere che un atelier dei dintorni di Parigi, per esempio, produca ai nostri giorni oggetti provvisti di tutte le caratteristiche che definiscono l’identità specifica “Erika portatile modello 1930” ma che non sarebbero beninteso autentiche macchine Erika portatili modello 1930.
Per poter rispondere alla seconda parte della domanda che ci siamo posti sopra, ossia per stabilire in che misura l’osservazione consente di accertare l’autenticità di un oggetto, bisogna evitare due errori in cui si incorre di frequente in rapporto con l’identità numerica degli oggetti. Il primo di tali errori consiste nel pensare che l’identità numerica di un oggetto non sia altro che la sua identità specifica “assoluta” e cioè l’identità specifica che verrebbe determinata dalla “totalità” delle sue caratteristiche. Lasciamo da parte il fatto di sapere se ha un senso parlare di una siffatta “totalità”. Non vediamo comunque perché, dal momento che una caratteristica di un oggetto può sempre ritrovarsi in un altro, non potrebbe succedere altrettanto con la totalità delle caratteristiche di un oggetto e perché, di conseguenza, due oggetti numericamente distinti non potrebbero essere provvisti della stessa identità specifica “assoluta”. Ciò non toglie beninteso che più precisa è l’identità specifica riconosciuta a un oggetto, vale a dire più sono le caratteristiche che la definiscono, meno probabile è che essa si ritrovi in un oggetto numericamente distinto: vedremo che questo fatto svolge un ruolo considerevole quando si tratta di accertare l’autenticità e quindi l’identità numerica di un oggetto.
L’altro errore al quale ho accennato sopra consiste nel pensare che l’identità numerica di un oggetto, e cioè il fatto di “essere tale oggetto determinato in quanto individuo”, costituisca una sua caratteristica, la quale sarebbe tuttavia eccezionale, giacché, al contrario di tutte le altre, non potrebbe evidentemente figurare tra le caratteristiche presentate da un altro oggetto. Ammettiamo tuttavia che le cose stiano effettivamente così: basterebbe allora constatare la presenza in un oggetto della caratteristica costituita dall'”essere tale oggetto” per accertare la sua identità numerica, e non ci sarebbe di conseguenza bisogno, per accertarla, di tener conto di nessun’altra caratteristica. Ora, il modo in cui si procede è esattamente l’opposto. Per esempio, nel film di Daniel Vigne Le Retour de Martin Guerre (1982), basato su un processo per usurpazione d’identità (numerica, beninteso) che ebbe effettivamente luogo nel Medioevo, quando si deve accertare se l’uomo che afferma essere Martin Guerre, partito per la guerra dieci anni prima, è davvero lui, gli argomenti portati a sostegno dell’una o dell’altra ipotesi si fondano tutti su caratteristiche quali la misura dei piedi (la cui prova è detenuta dallo zoccolaio) o la presenza di una cicatrice sul collo (di cui si ricorda una zia), ma mai sulla caratteristica che costituirebbe l'”essere Martin Guerre”, la cui presa in considerazione sarebbe tuttavia bastata per stabilire se si aveva a che fare con Martin Guerre o con un usurpatore. Lasciamo a più tardi la spiegazione del perché i personaggi del film cercano invece di stabilire se il nuovo arrivato presenta o meno caratteristiche come quelle accennate, le quali possono definire soltanto identità specifiche di cui egli è o meno provvisto. Il motivo per cui essi non cercano di stabilire se il nuovo arrivato presenta o meno la caratteristica che costituirebbe l'”essere Martin Guerre” è che, pur ammettendo che l’esserlo costituisca effettivamente una caratteristica, la presenza o l’assenza in un oggetto di una siffatta caratteristica non può comunque mai essere accertata attraverso l’osservazione.
Le caratteristiche la cui presenza o la cui assenza in un oggetto può essere accertata attraverso l’osservazione sono soltanto quelle che definiscono le identità specifiche di cui sono provvisti gli oggetti. Prendendo in considerazione tali caratteristiche e quindi le identità specifiche degli oggetti si riesce tuttavia, grazie all’esperienza che si ha delle condizioni in cui la realtà si trasforma (o non si trasforma), a calcolare la probabilità che l’oggetto con cui si ha a che fare in un momento dato sia o no un certo oggetto numericamente determinato. I personaggi di Vigne, ad esempio, tenendo conto di identità specifiche di cui è provvisto l’oggetto (l’uomo) col quale hanno a che fare nel momento della vicenda del film, possono calcolare la probabilità che tale oggetto sia o no l’oggetto (l’uomo) numericamente determinato che dieci anni prima veniva conosciuto sotto il nome di Martin Guerre. La probabilità così calcolata può essere più o meno grande, ma totale soltanto per l’ipotesi negativa. Infatti, si può essere sicuri che, se un oggetto presenta (o non presenta) una data caratteristica, esso non è un certo oggetto numericamente determinato; invece né la presenza né l’assenza in un oggetto di una qualsiasi caratteristica possono mai darci la sicurezza totale che tale oggetto è un certo oggetto numericamente determinato. Ammettiamo, ad esempio, che nell’esemplare del Capitale della biblioteca universitaria di Ginevra l’angolo superiore destro della pagina 47, dopo essere stato per molto tempo piegato, si sia infine staccato. Se tale esemplare viene rubato e qualche settimana dopo appare alle Pulci un esemplare del Capitale nel quale la pagina 47 ha tutti i suoi angoli, si può dedurre soltanto la probabilità, abbastanza elevata certo in questo caso, che tale esemplare sia l’esemplare rubato, ma, almeno teoricamente, non si può totalmente escludere che al contrario non lo sia.
Quanto detto finora spiega il modo di procedere degli esperti e i limiti entro i quali sono in grado di giungere al loro scopo. Anche se il problema che si pone loro è il problema di accertare se l’identità numerica di un dato oggetto è quella dell’unico oggetto o di uno degli oggetti autentici da un certo punto di vista, gli esperti, come i personaggi de film di Vigne e come chiunque si ponga un siffatto problema, fondano per forza le loro conclusioni sulla presenza o l’assenza, nell’oggetto in questione, di certe caratteristiche e dunque sul fatto che esso sia provvisto o meno di una certa identità specifica. Tali caratteristiche sono quelle la cui presenza nell’oggetto o negli oggetti autentici si considera sicura; le caratteristiche quindi il cui insieme definisce l’identità specifica più precisa la cui presenza in un oggetto viene ritenuta condizione necessaria, sebbene mai sufficiente, perché l’oggetto in questione sia autentico. Se, di conseguenza, le caratteristiche accennate non si ritrovano tutte in un dato oggetto, questo può essere dichiarato non autentico, ma non può invece essere dichiarato autentico per il fatto che le presenti tutte. In questo caso l’autenticità dell’oggetto può essere ritenuta soltanto probabile, e più o meno probabile a seconda della probabilità di ritrovare tutte le caratteristiche in questione in un oggetto non autentico. Nell’ipotesi dell’esemplare del Capitale trovato alle Pulci, la presenza in esso di una caratteristica, osservata nell’esemplare della biblioteca, del tipo della mancanza di un angolo di una data pagina, o ancora di una macchia d’inchiostro in un certo posto, ecc., può rendere praticamente sicuri che si ha a che fare, in ambedue i casi, con lo stesso esemplare. L’alto grado di probabilità col quale si può dichiarare l’esemplare delle Pulci l'”autentico” esemplare di proprietà della biblioteca è dovuto al fatto che è molto improbabile che un altro esemplare del Capitale provvisto delle caratteristiche menzionate risulti dal caso, ed è pure inverosimile che qualcuno si sia dato la pena di produrlo. Non sempre però la situazione si presenta in modo così favorevole. Per esempio, anche se dal punto di vista pratico è ugualmente impossibile che un oggetto provvisto dell’identità specifica più precisa di cui deve essere provvisto un oggetto per poter essere un’autentica Erika portatile modello 1930 risulti dal caso, non è invece da escludere che qualcuno si sia preoccupato di produrlo per farlo passare per autentico e, di conseguenza, la probabilità che un siffatto oggetto sia un’autentica Erika portatile modello 1930 è assai più bassa che nel caso dell’esemplare del Capitale rubato alla biblioteca. Infine, si ha a che fare con un caso che si colloca all’opposto di questo con l’esempio, dal quale siamo partiti, della macchina da scrivere dei resistenti. In linea di massima, può essere una macchina da scrivere utilizzata dagli antinazisti una qualsiasi macchina da scrivere che sia stata in uso in Germania negli anni ’30 o ’40. L’identità specifica più precisa la cui presenza in un oggetto è condizione necessaria (sebbene, nel caso considerato, particolarmente insufficiente) perché esso sia un’autentica macchina da scrivere utilizzata dai resistenti, è, di conseguenza, quella stessa identità specifica di cui deve essere provvisto un oggetto per poter essere un’autentica macchina da scrivere in uso in Germania negli anni ’30 o ’40. Il numero degli oggetti che sono o meno autentiche macchine da scrivere in uso in Germania negli anni ’30 o ’40, ma sono comunque provvisti dell’identità specifica necessaria per esserlo, è senz’altro di gran lunga più elevato del numero degli oggetti – provvisti tutti beninteso dell’accennata identità specifica – che sono macchine da scrivere utilizzate dagli antinazisti. Di conseguenza, il grado di probabilità col quale si può stabilire, prendendo in considerazione le caratteristiche di un oggetto e cioè tramite la sua osservazione, se tale oggetto è o meno un’autentica macchina da scrivere di cui si sono serviti gli antinazisti, è praticamente nullo.
Nella definizione di autenticità proposta sopra interviene, come si ricorderà, una certa identità specifica: gli oggetti autentici da un determinato punto di vista sono infatti oggetti che figurano tra quelli che presentano una certa identità specifica. La questione dell’autenticità di un oggetto si pone quindi solo a proposito di un oggetto che è provvisto di tale identità specifica. Ci si può chiedere, ad esempio, se è o meno una macchina da scrivere utilizzata dai resistenti a proposito di una macchina modello 1930, ma non a proposito di una macchina modello 1950. L’identità specifica di cui un oggetto deve essere provvisto affinché venga posta la questione della sua autenticità da un certo punto di vista può tuttavia variare da una persona all’altra, ed è, nella maggioranza dei casi, più precisa per gli esperti che per quelli che non sono esperti. Si potrebbe peraltro discutere sul rapporto logico che collega, da una parte, l’identità specifica di cui un oggetto deve essere provvisto perché un esperto si ponga la questione della sua autenticità da un certo punto di vista e, dall’altra, l’identità specifica sulla quale egli si basa per rispondere a tale questione, vale a dire l’identità specifica più precisa la cui presenza nell’oggetto egli ritiene condizione necessaria perché esso sia autentico. Mi sembra che le possibilità non possano essere che due: la coincidenza e il rapporto di inclusione. È probabile, per esempio, che l’identità specifica di cui deve essere provvisto un oggetto perché un dato esperto si domandi se esso è o no un’autentica Erika portatile modello 1930 coincida con l’identità specifica con la quale egli cerca di rispondere a tale questione, vale a dire con l’identità specifica definita dall’insieme delle caratteristiche la cui presenza nell’oggetto egli ritiene condizione necessaria per la sua autenticità. Invece l’identità specifica di cui deve essere provvisto un oggetto perché un esperto si domandi se esso è o no l’autentico esemplare di Das Kapital che fu proprietà di Engels è probabilmente includente rispetto all’identità specifica sulla quale l’esperto si basa per rispondere: infatti, la prima di queste identità specifiche è probabilmente quella che un oggetto deve presentare per essere un autentico esemplare di una certa edizione di Das Kapital, mentre l’ultima è quella che definiscono, assieme alle caratteristiche che definiscono la prima, caratteristiche del tipo di quelle che, nell’esempio discusso sopra, consentivano di riconoscere l’esemplare del Capitale trovato alle Pulci come quello rubato alla biblioteca. Ritroviamo comunque i limiti entro i quali l’esperto riesce a rispondere alla questione dell’autenticità di un oggetto: l’esperto non è in grado di stabilire se un oggetto è autentico o meno, ma soltanto se esso soddisfa o no le condizioni per poterlo essere. Quanto più è probabile che queste condizioni vengano soddisfatte da oggetti non autentici (prodotti sia spontaneamente che intenzionalmente), tanto meno è probabile che l’oggetto in questione sia effettivamente autentico.
Succede tuttavia di frequente che l’autenticità di un oggetto da un certo punto di vista venga ritenuta sicura anche in casi, come ad esempio quello della macchina da scrivere dei resistenti, nei quali l’accertare che l’oggetto in questione soddisfa le condizioni per poter essere autentico da tale punto di vista non consente di affermare con nessuna probabilità accettabile che esso lo sia effettivamente. Per spiegare questo fatto bisogna tener conto di qualcosa che può essere caratterizzato come una specie di tradizione o di “pedigree” e che manifesta il discorso che accompagna l’oggetto. Tale discorso, dal momento che l’osservazione consente eventualmente di stabilire che un oggetto non è autentico ma mai che esso lo è, svolge necessariamente un ruolo ogniqualvolta un oggetto viene dichiarato autentico. L’importanza di questo ruolo può tuttavia variare molto da un caso all’altro: esso è tanto più importante, si potrebbe dire, quanto più la condizione necessaria perché un oggetto sia autentico è insufficiente perché esso lo sia effettivamente. Se, per esempio, il museo di Berlino-Est può presentare la Erika portatile lì esposta come un’autentica macchina da scrivere utilizzata dagli antinazisti, è in definitiva grazie al “pedigree” di tale macchina rivelato dal discorso di colui che l’ha venduta o donata al museo, discorso eventualmente basato a sua volta su un altro discorso, per esempio quello di un resistente, e così di seguito. Ed è ugualmente, per quanto mi riguarda, un discorso, quello rappresentato dal cartellino che accompagna la macchina esposta nel museo, e soltanto questo discorso, che spiega la mia reazione davanti ad essa.
2.
Ritengo che un’opera d’arte non sia altro che un caso particolare d’invenzione. Un’invenzione non è un oggetto, bensì un concetto, ossia un’identità specifica, quella di cui l’inventore ritiene che un oggetto debba essere provvisto per essere efficace come mezzo per raggiungere un certo scopo. Un’invenzione viene “realizzata” o “eseguita” quando viene prodotto un oggetto provvisto dell’identità specifica che la costituisce. Poiché un’invenzione viene costituita da un’identità specifica e soltanto da una tale identità, un oggetto è una realizzazione di essa qualunque sia la sua identità numerica, vale a dire che due oggetti numericamente distinti, purché siano ambedue provvisti dell’identità specifica che costituisce l’invenzione, sono ambedue, e allo stesso titolo, realizzazioni di questa. L’inventore è il creatore dell’identità specifica che costituisce l’invenzione; un esecutore è chiunque realizzi l’invenzione e produca cioè un oggetto provvisto dell’identità specifica che la costituisce. L’inventore può certamente essere lui stesso un esecutore, ma non ha bisogno di esserlo per essere l’inventore. D’altra parte, si può evidentemente essere un esecutore di un’invenzione senza esserne l’inventore.
Il radioricevitore inventato da Marconi, per esempio, non è costituito né da un oggetto né in particolare dagli oggetti prodotti da Marconi stesso coi quali egli riusciva a cogliere le radioonde, bensì da una certa identità specifica di cui questi oggetti erano provvisti e che li rendeva atti a cogliere le radioonde. Producendo tali oggetti Marconi agiva non da inventore, bensì da esecutore della sua invenzione, vale a dire che egli sarebbe stato comunque l’inventore del radioricevitore anche se non li avesse prodotti. D’altra parte, qualsiasi oggetto, purché esso sia provvisto (come, ad esempio, il mio apparecchio radio) dell’identità specifica creata da Marconi costituisce, da chiunque esso sia stato prodotto e allo stesso titolo che i radioricevitori prodotti da Marconi, una realizzazione della sua invenzione.
Ora, l’autore di un’opera d’arte, sia nei casi in cui è egli stesso che realizza la sua opera che nei casi in cui egli delega invece questo compito ad un esecutore distinto da lui, non procede in maniera diversa da un inventore. Quando è egli stesso che esegue la sua opera, l’autore sembra non cercare altro che la produzione di un oggetto che presenti certe caratteristiche e che sia cioè provvisto di una determinata identità specifica. In particolare, l’identità numerica dell’oggetto da produrre non sembra interessarlo affatto e non è mai tenendo conto di essa che, una volta prodotto l’oggetto, l’autore lo accetta o meno come una realizzazione riuscita della sua opera. L’identità specifica dell’oggetto da produrre sembra ugualmente essere l’unica cosa che interessi l’autore nei casi in cui egli delega ad un altro la realizzazione dell’opera. In questo caso l’autore deve comunque produrre egli stesso un oggetto di cui l’esecutore possa servirsi per adempiere al suo compito; l’autore deve cioè produrre sia un segnale: lo spartito musicale, il progetto di architettura, l’abbozzo di un affresco, ecc., sia una matrice: la forma da fondere, il negativo fotografico, ecc. Ora, il segnale prodotto dall’autore indica all’esecutore certe caratteristiche, dunque una certa identità specifica di cui l’oggetto da produrre deve essere provvisto per costituire una realizzazione dell’opera, ma mai l’identità numerica di tale oggetto. Quanto alla matrice, che mi sembra peraltro dovere essere sempre accompagnata da segnali, l’autore può assicurarsi che l’esecutore, servendosi di essa come mezzo materiale per realizzare l’opera, riuscirà a produrre un oggetto provvisto di una certa identità specifica, ma non l’oggetto dotato di una determinata identità numerica.
C’è peraltro da notare che la produzione di un oggetto materiale provvisto di una certa identità specifica si ha sempre tramite una trasformazione e che una trasformazione concerne soltanto l’identità specifica dell’oggetto, vale a dire cha ha luogo una trasformazione quando un oggetto, rimanendo necessariamente lo stesso dal punto di vista numerico, cambia di identità specifica. Se, di conseguenza, l’autore o l’esecutore cercassero di produrre un oggetto provvisto non soltanto di una identità specifica determinata, bensì anche di un’identità numerica determinata, non potrebbero riuscire a produrlo se non trasformando l’oggetto, necessariamente unico, che possiede già, prima della trasformazione, l’identità numerica menzionata, e dovrebbero dunque cominciare dalla ricerca di questo oggetto. Ora, mi sembra evidente che non è mai così che essi procedono.
Abbiamo visto che l’identità specifica che costituisce un’invenzione è quella di cui l’inventore ritiene che debba essere provvisto un oggetto per essere efficace nell’ottenimento di uno scopo. Ora, seppure sia sempre difficile parlare di che cosa si propone con un’opera d’arte il creatore di essa, mi sembra che l’identità specifica di cui deve essere provvisto l’oggetto che l’autore produce o fa produrre non possa essere, come quella che costituisce un’invenzione, altro che l’identità specifica di cui un oggetto deve essere provvisto per raggiungere uno scopo in senso lato. Questo verrebbe confermato da un’altra analogia che c’è tra le rispettive maniere di procedere dell’inventore e dell’autore. È infatti evidente che solo l’invenzione realizzata può mostrare la sua efficacia per raggiungere lo scopo, ciò che spiega i percorsi pendolari che l’inventore fa spesso tra l’invenzione e le realizzazioni di essa: l’inefficacia, oppure l’efficacia limitata, mostrata da una realizzazione dell’invenzione porta l’inventore alla modifica di quest’ultima, l’efficacia della quale, dopo tale modifica, viene messa nuovamente alla prova attraverso un’altra realizzazione, che si mostrerà a sua volta più o meno efficace per raggiungere lo scopo, e via dicendo. Ora, simili percorsi tra “ciò che l’autore concepisce” e l’esecuzione di “ciò che concepisce” sono frequenti nella creazione artistica.
Così come nella realizzazione di un’invenzione, l’unica condizione che deve soddisfare un oggetto per realizzare un’opera d’arte sarebbe quindi di essere provvisto di una certa identità specifica. L’opera d’arte, come l’invenzione in generale, non verrebbe di conseguenza costituita da nessuna delle sue realizzazioni né in particolare dalla solitamente unica realizzazione prodotta dall’autore stesso, bensì da un’identità specifica di cui esse sono provviste. Guernica, per esempio, non sarebbe costituita né dall’oggetto dipinto da Picasso ed esposto da qualche anno al museo del Prado, né da nessun altro oggetto, ma da un’identità specifica di cui è provvisto l’oggetto esposto al Prado. Dipingendo egli stesso l’oggetto esposto al Prado, Picasso agiva non come autore di Guernica, bensì come esecutore, vale a dire che egli avrebbe potuto essere comunque l’autore di quest’opera anche se non avesse mai dipinto l’oggetto esposto al Prado né nessun altro oggetto che la realizzi. D’altra parte, qualsiasi oggetto, purché esso sia provvisto, come lo è senz’altro l’oggetto esposto al Prado, dell’identità specifica che costituisce Guernica, sarebbe da ottenere, indipendentemente da chiunque lo abbia prodotto, una realizzazione di Guernica allo stesso titolo che l’oggetto più volte menzionato esposto al Prado.
Questa mia posizione non è che parzialmente in disaccordo con ciò che viene solitamente ammesso a proposito dell’opera d’arte. Infatti, quando l’opera d’arte in causa è un’opera musicale o, in genere, un’opera le cui realizzazioni si svolgono nel tempo (coreografica, drammatica, cinematografica, ecc.), non sembra che nessuno metta mai in dubbio che qualsiasi oggetto, purché esso presenti certe caratteristiche e sia quindi provvisto di una certa identità specifica, costituisca una realizzazione dell’opera in questione. È soltanto a proposito delle opere d’arte nelle cui realizzazioni non interviene la dimensione temporale (un dipinto, un’incisione, una scultura, un’opera di architettura, ecc.) che la posizione corrente è in contraddizione con quella da me sostenuta. Infatti in questo caso vengono ammessi come realizzazione dell’opera solo uno o più oggetti numericamente determinati, quelli che vengono chiamati l’unico “originale” (di un quadro, per esempio) o i più “originali” (di una stampa, per esempio). È indubbio che in questo diverso atteggiamento quanto agli oggetti da accettare come realizzazione di un’opera d’arte svolge un ruolo il carattere diverso – (spazio)-temporale in un caso, puramente spaziale dall’altro – delle realizzazioni delle opere in questione. Non però, come spero di mostrare, perché l’opera non sia in ambedue i casi costituita da un’identità specifica e una sua realizzazione da qualsiasi oggetto che ne sia provvisto, bensì perché l’intervento del tempo nelle realizzazioni delle opere che spettano a certe arti ha impedito l’estensione a tali realizzazioni di un fenomeno o, almeno, di una certa forma di un fenomeno che non ha con l’arte nessun legame intrinseco, quello cioè costituito dal collezionismo.
La forma di collezionismo cui faccio riferimento è quella che attribuisce un valore a un oggetto in rapporto con la sua rarità, di cui l’unicità costituisce il grado estremo. Questa unicità, come lascia già intendere il fatto che essa viene definita come un grado di rarità, non è tuttavia quella, inerente ad ogni oggetto, che risulta dal fatto che la sua identità numerica non si ritrova in nessun altro oggetto. L’unicità e la rarità qui considerate sono quelle dell’oggetto o degli oggetti autentici nel senso che abbiamo visto sopra: un oggetto è unico, nel senso dato a questo termine dal collezionismo, quando è l’unico ad essere autentico da un certo punto di vista, ed esso è meno raro oppure più raro quando è rispettivamente uno dei più o meno numerosi oggetti a condividere una certa autenticità. Ora, soli tra tutte le realizzazioni di un’opera d’arte, i suoi originali (eventualmente il suo unico originale) possiedono una certa autenticità che consente loro, purché non intervenga in essi la dimensione temporale, di diventare degli oggetti di collezione. Un originale di un’opera d’arte è infatti un oggetto, per forza numericamente determinato, che è stato prodotto o meno dall’autore stesso, ma la cui produzione è stata decisa da lui e che egli ha riconosciuto come una realizzazione riuscita di tale opera, vale a dire come effettivamente provvisto dell’identità specifica che la costituisce. C’è quindi un’autenticità che l’unico originale di un’opera possiede o che i più originali di essa condividono della quale sono invece prive le altre realizzazioni: quella autenticità che risulta dal fatto di essere, fra tutte le realizzazioni dell’opera, l’unica o le sole la cui produzione è stata decisa dall’autore stesso e che questi ha riconosciuto come oggetti che realizzano effettivamente l’opera.
Tale autenticità si ritrova certamente tanto negli originali di un’opera le cui realizzazioni si svolgono nel tempo quanto negli originali di un’opera dalle cui realizzazioni è invece assente la dimensione temporale. Tuttavia, come ho accennato in precedenza, il fatto di svolgersi nel tempo impedisce ai primi di diventare oggetti di collezione. Infatti una condizione necessaria perché un frammento della realtà materiale appaia a un soggetto come costituente un oggetto è che essa venga da lui riconosciuta entro i suoi limiti sia spaziali, sia temporali, sia nel contempo spaziali e temporali. Le realizzazioni di un’opera d’arte che si svolgono nel tempo sono appunto costituite da frammenti della realtà materiale che appaiono come oggetti grazie tra l’altro al fatto che essi sono riconosciuti entro limiti temporali: soltanto temporali nel caso, ad esempio, delle realizzazioni di un’opera musicale, e spaziali e temporali nel caso, ad esempio, delle realizzazioni di un’opera cinematografica. Che l’oggetto che costituisce la realizzazione di un’opera d’arte appaia come costituente un oggetto grazie in parte ai limiti temporali entro i quali esso viene riconosciuto implica tuttavia che, fin dal momento in cui esso riesce ad essere pienamente tale realizzazione, e per il fatto stesso che riesce ad esserlo, esso cessa di esistere. L’originale di un’opera d’arte le cui realizzazioni si svolgono nel tempo è quindi un frammento della realtà materiale che, necessariamente, fin dal momento in cui esso perviene ad apparire come l’oggetto che costituisce tale originale, non esiste più. Non sarebbe quindi esatto dire che il collezionismo non si interessa agli originali delle opere d’arte le cui realizzazioni si svolgono nel tempo perché essi sono privi di valore di collezione: siffatti originali sono addirittura impensabili come oggetti di collezione e, di conseguenza, la questione del loro valore in quanto tali neanche si pone.
Per quanto riguarda gli originali delle opere d’arte nelle cui realizzazioni non interviene invece la dimensione temporale, essi possono senz’altro diventare oggetti di collezione e possedere in quanto tali il valore che conferisce loro fra l’altro l’autenticità – sottomessa beninteso a tutte le incertezze inerenti ad ogni autenticità – derivata dal loro rapporto col rispettivo autore. Un oggetto non è tuttavia una realizzazione di una determinata opera d’arte perché la sua produzione è stata decisa dall’autore, né perché questi l’ha riconosciuto come tale, bensì perché esso è provvisto dell’identità specifica che costituisce l’opera in questione. Un originale non è di conseguenza più di qualsiasi altro oggetto che, come quello, sia provvisto dell’identità specifica che costituisce l’opera, una realizzazione di quest’ultima. In particolare, un originale, dal momento che la sua efficacia rispetto allo scopo che si è proposto l’autore dipende soltanto dall’essere provvisto dell’identità specifica che costituisce l’opera, non è più efficace, rispetto a tale scopo, di qualsiasi altro oggetto provvisto ugualmente di questa identità specifica.
Non certo in quanto oggetto di collezione, ma in quanto oggetto d’arte, ogni realizzazione di un’opera, sia essa un originale o no, è quindi equivalente ad ogni altra: a mio avviso, soltanto la confusione, retta forse da interessi di mercato, tra oggetto di collezione e oggetto d’arte, spiega la specie di mito che si è creato intorno agli originali. Ritenendo, in nome del mito, gli originali come sole realizzazioni delle opere d’arte e quindi come soli oggetti dotati dell’efficacia che consente, per così dire, di accedere a tali opere, si limita il loro godimento alle persone che abitano le metropoli culturali o che sono in grado di andarci. Nulla dovrebbe impedire tuttavia che, come ci sono in ogni caso o ci possono essere ovunque delle biblioteche che permettono di acquisire sul posto una cultura letteraria, ci fossero ovunque anche dei musei che permettano di familiarizzare con le arti plastiche.
Ogni realizzazione di un’opera d’arte è equivalente in quanto oggetto d’arte a ogni altra, purché tuttavia si tratti effettivamente di una realizzazione di tale opera e sia cioè un oggetto effettivamente provvisto dell’identità specifica che la costituisce. Si ha a che fare qui con l’unico aspetto delle realizzazioni originali delle opere d’arte, tranne il loro valore di collezione, che può giustificare la preferenza accordata loro a scapito di tutte le altre. L’autore dell’opera, infatti, poiché è lui stesso che l’ha creata, sa necessariamente qual è l’identità specifica che la costituisce. Di conseguenza, l’originale che, per definizione, è stato riconosciuto dall’autore come provvisto di questa identità specifica, ne è certamente provvisto e costituisce una realizzazione dell’opera. Il vantaggio che un originale possiede da questo punto di vista non giustifica tuttavia il rifiuto a priori della possibilità che un oggetto, senza essere un originale dell’opera, possa essere effettivamente una sua realizzazione. Anzi, ci sono almeno due casi nei quali un oggetto che non è un originale dell’opera può essere ritenuto una realizzazione di essa con la stessa sicurezza che se fosse un originale: da una parte, quando l’autore ha indicato con segnali (per esempio con un progetto architettonico) l’identità specifica che costituisce l’opera e l’oggetto in questione è provvisto di tale identità specifica; dall’altra, nei casi in cui tale oggetto è stato prodotto utilizzando come mezzo una matrice prodotta a sua vota dall’autore stesso (per esempio una forma da fondere) e tenendo conto dei segnali che, a mio avviso, accompagnano sempre tale matrice.
In realtà, la questione se una realizzazione non originale di un’opera è effettivamente provvista dell’identità specifica che costituisce tale opera e ne è quindi effettivamente una realizzazione si pone soltanto nei casi che sembrano tuttavia essere i più numerosi e i più importanti: quelli cioè in cui l’autore non ha prodotto né segnali né matrice, bensì una e soltanto una realizzazione (originale, beninteso) dell’opera. In questi casi, la produzione di una realizzazione non originale dell’opera non può basarsi che sull’utilizzazione del suo unico originale. Ora, ci sono due procedimenti molto diversi per produrre delle realizzazioni non originali di un’opera utilizzando per questo scopo il suo originale.
L’uno, praticato già da molto tempo, è quello conosciuto col termine di copia e consiste nel servirsi dell’originale come segnale dal quale trarre informazioni sull’identità specifica che costituisce l’opera. Tale procedimento presuppone, da parte del copista, l’interpretazione dell’originale. Infatti, il copista deve determinare, tra le infinite caratteristiche che presenta necessariamente l’originale, quali sono le caratteristiche che concorrono alla definizione dell’identità specifica che costituisce l’opera e che devono quindi ritrovarsi nell’oggetto da produrre affinché esso sia effettivamente un’altra realizzazione di questa. Il copista deve, in altri termini, determinare quali sono le caratteristiche grazie alle quali l’originale costituisce una realizzazione dell’opera e sono perciò pertinenti. Ora, la determinazione di tali caratteristiche non può che essere ipotetica, e non può, di conseguenza, che essere ugualmente ipotetico che un oggetto prodotto con questo procedimento – oggetto chiamato, come il procedimento stesso, una copia – costituisca effettivamente una realizzazione dell’opera.
Il secondo procedimento, molto più recente della copia, designato, così come gli oggetti che ne risultano, col termine di “riproduzione”, consiste nell’utilizzare l’originale dell’opera come matrice e cioè come mezzo materiale per produrre delle realizzazioni non originali dell’opera. Abbiamo visto che la copia presuppone l’interpretazione dell’originale. Nella riproduzione, invece, non c’è affatto interpretazione, giacché con essa si cerca di produrre un oggetto nel quale si ritrovi il maggior numero possibile di caratteristiche dell’originale senza riguardo alcuno al fatto che esse siano o meno pertinenti: più caratteristiche dell’originale si riescono a dare alla riproduzione e più è probabile che tra esse si ritrovino le caratteristiche pertinenti. Certamente, anche nella riproduzione si trova qualcosa che assomiglia ad una interpretazione, giacché gli attrezzi grazie ai quali, assieme all’originale dell’opera utilizzato come matrice, si produce una riproduzione vengono preparati per essere “sensibili” soltanto a certi “parametri” dell’originale: nel caso di un’opera pittorica, ad esempio, gli attrezzi usati per riprodurla non sono probabilmente previsti per produrre oggetti nei quali si ritrovi la caratteristica dell’originale costituita dal suo peso. Questo modo di “selezionare” i “parametri” non si basa tuttavia su ciò che sarebbe un’interpretazione dell’originale in quanto originale di tale opera determinata, ma piuttosto su un’ipotesi sui “parametri” che sono in generale pertinenti nelle opere di un certo tipo di arte. La raffinatezza raggiunta dai mezzi attuali di riproduzione – ossia, da una parte, il numero di “parametri” (pertinenti o meno) ai quali tali mezzi sono sensibili e, dall’altra, la precisione delle classi (pertinenti o meno) nelle quali essi distribuiscono gli oggetti tenendo conto di ciò che si manifesta su questi “parametri” – è comunque tale da rendere praticamente totale la probabilità che le riproduzioni ottenute con essi comportino tutte le caratteristiche pertinenti dell’originale e, quindi, costituiscano effettivamente delle realizzazioni dell’opera.