Logistica, la sintassi della guerra


Da: Alfabeta2, n. 14, novembre 2011.


Non so se dall’11 settembre tutto sia cambiato. È certo però che in guerra cambiano i significati delle parole che valevano in tempo di pace. Non solo i pietosi eufemismi dei militari (“danni collaterali”, “errori umani”, ecc.), cambiano di senso anche le parole pacifiste. Quelle per cui la guerra è opera di malvagi, cieca violenza che nega l’altro e separa i popoli.
Per cominciare: “la guerra è opera dei malvagi“. No, la guerra la fanno i buoni e gli aggrediti, mica gli aggressori. Gli aggressori sono pacifisti naturali. Hitler voleva occupare Danzica e i Sudeti, preferibilmente senza opposizione. La guerra comincia quando che l’aggredito resiste e decide di difendersi, turbando così la “pacifica” invasione! È il vantaggio della difesa.
Ancora: “la guerra è cieca violenza” soltanto nello sciocchezzaio dei buonisti paciosi. Violenza certo, ma cieca no! È uso della forza, calcolata e sofisticata negli strumenti di distruzione e nelle azioni strategiche. La guerra è di una logica spietata; una Logistica fatta di segnali e di segreti, di promesse e minacce. Un linguaggio, intessuto di dichiarazioni e di ultimatum, che non pensa soltanto, escogita. Ogni conflitto – dalle arti marziali alla guerra mondiale, dal calcio alla borsa – è fatto di mosse, tattiche e strategie. Le mosse si integrano nelle tattiche e queste nelle strategie. Così come la lingua è fatta di parole che trovano posto nelle frasi e queste nei testi. Non a caso la parola tattica è la stessa da cui deriva “sintassi”. Quest’ultima studia la posizione delle parole negli enunciati e le loro combinazioni, come la tattica tratta delle formazioni militari e delle loro manovre. (La falange greca si chiamava “sintagma” e l’inventore della scrittura, Palamede è uno stratega!). “Una intera scienza si nasconde dietro il pensiero di uno stratagemma”, dice il filosofo (Kierkegaard). Infatti lo stratagemma – “finta mossa intesa a disorientare o a soprendere il nemico” (Devoto-Oli) – riguarda il calcolo delle mosse proprie e dell’avversario.
Lo so che per il pacioccone (che non ha niente a che vedere con il pacifista!) “la guerra è negazione dell’altro“. Ma ne siamo sicuri? In tempo di pace facciamo ben poca attenzione agli altri, perché diamo per scontato l’ordine sociale. Stare in pace infatti è non doversi guardare dagli estranei e fare attenzione quando se ne ha voglia. Mentre nessuno pensa agli altri, ai loro piani ed intenzioni come in tempo di guerra. Chi combatte è obbligato ad essere “altruista”, perché non può fidarsi di niente. Quel che sembra il punto forte può rivelarsi il più debole, l’alleato un nemico, la propria spia un agente doppio. Allora bisogna mettersi nei panni del nemico. Un generale russo ha detto: “per vincere gli afgani bisogna imparare a ragionare come loro”. E anche gli afgani hanno imparato, a sue spese, a ragionare come lui.
Insomma: non è vero che “le guerre separano i popoli“, anzi alla lunga li fanno somigliare. Combattersi è la maniera più radicale di comunicazione e di omologazione culturale. Nella Logistica prima, negli stili di vita poi. Ricordate, dopo l’ultima guerra mondiale, A. Sordi, americano di Kansas City, con coca, chewingum e jeans? Residuato bellico o agente globalizzatore? State certi: ne vedremo ancora!

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