Da: Rassegna Italiana di Sociologia, Il Mulino, Bologna, n. 2, anno IX, 1968.
È probabile che una scienza non sia soltanto un linguaggio ben fatto. È però certo che la capacità ermeneutica d’una scienza dell’uomo si misura a partire dalla coerenza, semplicità, eleganza con cui la sua organizzazione terminologica e sintattica taglia il continuum della realtà sociale, ne definisce le possibilità d’espressione in un discorso significante.
Ora, ad uno sguardo appena prospettico, l’insufficienza del discorso sociologico – quindi la crisi della sua capacità esplicativa – è evidente a) a livello metodologico (terziario), dove è sempre sul punto di tradursi in una diversa pertinenza (matematica, naturalistica, ecc.), b) al livello descrittivo (secondario) con cui investe il linguaggio-oggetto (primario) della realtà sociale. E, all’interno di ciascun livello, non solo per difetto di omogeneità terminologica, per l’uso di strumenti operativi mutuati/mutilati dal contesto di altre discipline (psicologia, antropologia…) o tecniche (statistica, economia), ma soprattutto per la radicale mancanza di connessioni gerarchiche, graduate e necessarie, tra le procedure di descrizione (socio-grafia) e di estrapolazione teorica (socio-logia). Il linguaggio della sociologia si presenta come «strappato» tra le logiche incompatibili d’una descrizione senza principî e di principî privi di validazione.
Altrettanto improbabile è la pretesa socio-logica di trarre conclusioni a largo respiro a partire da dati sociografici alla cui rilevazione essa si vuole indifferente. Le categorie teoriche, «totalizzate a priori», finiscono per disarticolare sul loro letto di Procuste la pertinenza interna della realtà sociale, che va invece descritta secondo le categorie dedotte dai segni in cui essa si esprime, così come sono percepiti dai gruppi e dagli individui che la costituiscono.
Questo radicale décalage sistematico non può essere colmato con l’accumulazione meccanica e stratificata dei «dati» empirici, ma con una revisione linguistica che colga la continuità del movimento riflessivo-operativo, analitico-sistematico. Questa ristrutturazione esige in primo luogo un linguaggio formalizzato comune al livello descrittivo e metodologico e centrato sull’azione significante dell’uomo. Nuovo discorso proferito oggi da una scienza che prende in carica i sistemi di segni con cui l’uomo organizza la propria visione del mondo: la semiologia, scienza dei segni della vita sociale, costruita con gli strumenti della linguistica strutturale.
Questa esperienza non ci sembra evitabile: la sociologia soffre più d’ogni altra scienza dell’uomo di oggettualità e di puntiformità, proprio perché è incapace di ridurre i «fatti» a «strutture», cioè a principî d’organizzazione razionale della significazione. Non possiamo perciò meravigliarci della sua distasmia: la oscillazione inquieta del suo discorso tra un livello e l’altro della realtà sociale è complementare a questa incapacità strutturale.
La metodologia semiologico-strutturale offre per contro la proiezione dell’ordine metallico della sua impalcatura concettuale. Nel quadro della essenziale ipotesi di Lévi Strauss che definisce ogni fatto umano come comunicativo e articolato ai tre livelli della parentela (comunicazione, scambio di donne),. economia (scambio di beni) e della cultura (scambio di segni), la collocazione d’una sociologia strutturale può trovare la sua pertinenza. Le ricerche sulla parentela definiscono già oggi il crocquis d’una geometria semantica; il modello linguistico comincia a mostrare le sue capacità euristiche a livello del linguaggio delle merci; resta da fare una «culturologia» (come direbbe Pellizzi) modellata sul rigore del principio linguistico. Il sistema socio-culturale va colto come un sistema di codici articolati in modo da spiegare i fatti e gli eventi come manifestazioni riconducibili a strutture. A questa condizione gli eventi sociali, figurativamente sospesi e come rallentati dall’analisi, rinvierebbero non solo alla loro casualità singolare, ma alla generale causalità di modelli strutturali. Solo a questa condizione le definizioni operazionali trapassano ad assiomatiche formali.
Nella direzione a) del contemporaneo arricchimento delle tecniche di rilevazione – nel senso di fondare una teoria della descrizione vista come insieme di procedure di valutazione, cioè di miglior resa possibile di certi modelli – e b) del raffinamento delle più importanti nozioni teoriche, va segnalato il contributo che la semantica strutturale di Ward H. Goodenough apporta all’antropologia e alla sociologia. L’occasione di esplicitare le sue posizioni teoriche ci è offerta dal recente, densissimo Rethinking «Status» and «Role»: Toward a General Model of the Cultural Organization of Social Relationship1.
Per superficiale che sia la informazione sociologica, non mancherà un movimento di stupore nel vedere trattata la problematica tradizionale degli status e dei ruoli in termini di «aspetti grammaticali del comportamento normativo, da rilevare coi metodi della linguistica strutturale… disciplina che ha raggiunto un alto grado di rigore nella formulazione di valutazioni descrittive degli aspetti normativi del comportamento linguistico»2. Prima di verificare l’analisi delle nozioni di status e di ruolo converrà però chiarire i termini di questa scienza empirica del significato che interessa i settori più avanzati delle scienze dell’uomo in America3 e trova in Europa – specie in Francia e in URSS – ripercussioni ed autonomi sviluppi.
1 – SEMANTICA
«L’ideologia comprende i principi di tutte le scienze e cognizioni e segnatamente della scienza della lingua. Ma vicendevolmente si può dire che la scienza della lingua comprende tutta l’ideologia».
G. Leopardi, Zibaldone
1.1 Goodenough chiarisce subito che una semantica descrittiva gli sembra la tecnica più adeguata per costituire «modelli validi degli aspetti categoriali delle norme sociali»: il contenuto culturale delle relazioni sociali è visto, cioè, come composto di «vocabolari» di diversi generi di forme e una «sintassi» o serie di regole per la loro composizione entro (e interpretate in quanto) sequenze significanti di eventi sociali.
In questa direzione la semantica descrittiva di Goodenough si inserisce nel filone delle scienze sociali e filosofiche americane che, contro la diffusa immagine aristofanesca del comportamentismo e del pragmatismo, si vengono volgendo da tempo a studi di cognition4. Le scienze dell’uomo sono sempre di più scienze del man the thinker, con il conseguente passaggio dalla tradizionale problematica del senso come comportamento ai principî con cui il senso è organizzato, alla struttura del significato. Dalla tradizionale analisi semantica sul valore selettivo del linguaggio rispetto agli elementi psico-sociologicamente significativi d’una cultura, si arriva così ad una più larga nozione della struttura semantica come indicatore privilegiato d’un generale sistema cognitivo che comporta una visione enciclopedica del mondo. Sotto questa concezione non esiste alcuna metafisica omologia di tutti i comportamenti umani ma, a partire dalla natura simbolica della cultura, c’è il proposito di descrivere la funzione semiotica: quella particolare intelligibilità del segno che lega i significanti ai loro significati oltre le diverse sostanze linguistiche. Ogni definizione viene derivata dalle operazioni descrittive dei sistemi di segni, e queste sono operazioni linguistiche per una scelta operativa fondata su d’una omologia profonda.
Due vie sembrano possibili all’analisi sociologica della cultura e della conoscenza – e la diversa accentuazione di questi vettori è l’articolarsi stesso della storia di questa disciplina -: a) una analisi del fenomenal order degli eventi osservati e la regolarità statistica della loro apparizione e b) l’ideational order costituito dall’organizzazione dell’esperienza sottostante all’ordine dei «fatti» e composta di modelli trasmessi attraverso l’apprendimento sulla cui base si operano le scelte individuali e collettive che «generano» il fenomenal order5. Goodenough sa che non è possibile descrivere una cultura dal punto di vista dei puri comportamenti, ma solo come «teoria dei modelli concettuali che essi rappresentano e di cui sono il prodotto». In una cultura concepita in modo organizzazionale, relazionale, le cose materiali sono solo segni delle forme e dei modelli comuni a tutti i comportamenti sociali. Lo stesso può dirsi per il linguaggio. Questo interessa il linguista come teoria di quel che sono le percezioni acustiche con cui operano i locutori (i fonemi o le loro combinazioni, i morfemi), come la cultura interessa il sociologo per l’uso segnico del mondo materiale. Se la cultura è «tutto ciò che ciascuno deve sapere e credere per comportarsi in modo accettabile ai suoi membri in ogni ruolo che essi accettano per ciascuno di loro», il linguaggio consiste «in tutto ciò che uno deve sapere per comunicare con i suoi collocutori, esattamente come questi fanno con ogni altro ed in modo che essi accettino questo come corrispondente al proprio sapere»6. Non si tratta soltanto del fatto che, essendo il rapporto tra cultura e linguaggio il rapporto di una parte (fondamentale) a un tutto, teorie e metodi validi per l’uno hanno necessarie implicazioni anche per l’altro. Posti in termini semio-grafici, i problemi descrittivi della linguistica strutturale si rivelano identici a quelli della socio-antropologia.
1.2 Questa intuizione ci sembra essenziale: in conformità a certe autonome tendenze europee, sopra tutto di osservanza hjelmsleviana7, essa si propone esplicitamente di inserire la linguistica strutturale in una più larga teoria dei segni, nella triplice dimensione sintattica, semantica e pragmatica. La terminologia morrisiana – per quanto insufficiente alla luce dei più recenti sviluppi teorici – usata da Goodenough, ha un vantaggio d’immediata comprensibilità: si potrebbe dire che una scienza empirica dei significati vuol passare dall’analisi dei segni e della loro reciproca combinatoria a quella dei segni in rapporto ai loro significati, prevedendo inoltre – e l’articolo sugli status e i ruoli ne rappresenta una prima applicazione – una pragmatica strutturale, un’analisi strutturale, cioè, del rapporto tra produttori e ricettori di segni.
Si tratta dunque di allargare l’ambito di applicazione linguistica ad altre forme del comportamento culturale: strumento privilegiato è l’analisi per componenti (componential analysis), che ha il merito di alcuni tra i più appassionanti sviluppi della recente linguistica8. Quest’analisi semantica (semica, direbbe Greimas) si articola in due momenti: a) costituzione d’un campo paradigmatico di termini definito sulla base d’un comune nucleo semantico, e b) la loro articolazione secondo un numero ridotto di componenti o tratti distintivi (distinctive features), comuni a tutti i termini del campo e la cui combinatoria renda conto delle unità concettuali, della struttura dei calcoli logici impiegati nella costruzione della tassinomia, e della distribuzione implicita dei termini del paradigma. Secondo Goodenough è possibile estendere a tutta la cultura questo «… metodo che mira ad una analisi rigorosa dei contenuti concettuali… per simbolizzarli… ed è strutturalmente e funzionalmente equivalente al metodo fonemico di simbolizzazione delle forme linguistiche».
Come in linguistica, Goodenough crede che il senso non vada precostituito ma raggiunto al termine dell’analisi, la quale porta tuttavia su due linguaggi-oggetto molto diversi. Mentre la linguistica strutturale sarebbe la scienza dei segni iconici (che contengono nella rappresentazione segnica tutte le proprietà della classe concettuale rappresentata), la semantica socio-antropologica porterebbe su quelli non-iconici (che cioè non possiedono le proprietà che definiscono le classi dei fenomeni). Ogni suono emesso o fone non è il segno iconico d’un fonema, ma, a partire dall’analisi distintiva dei suoni, è possibile individuare quel fascio d’elementi differenziali che è il fonema; allo stesso modo i segni materiali in cui si manifestano le strutture cognitive d’una certa cultura servono ad isolare il contenuto concettuale (di cui non sono segni iconici) secondo metodi analoghi. Ad esempio, quello contrastivo, con la formazione di paradigmi dotati di relazioni sistematiche e con la distinzione in categorie semiche, semi, assi semantici. Insomma, il segno non-iconico può essere individuato sistematicamente a partire dall’analisi delle icone: a partire dai segni non iconici può costituirsi una scienza generale dei segni. Questi non sono – come vedremo meglio – necessariamente linguistici, ma poiché il linguaggio costituisce la parte maggiore dei sistemi di segni e di fatto supporta quasi ogni altra semiotica, e poiché la cultura è nella sua essenza trasmessa linguisticamente, gli indici non iconici più semplici nell’uso saranno proprio quelli del linguaggio. Per la condizione pilota della linguistica una semiografia descrittiva si presenta spesso come una translinguistica o come una semantica tout court.
Il metodo è generalizzabile a sistemi di segni di diversa sostanza. Si veda ad esempio la parentela così com’è studiata oggi dall’analisi semantica formale. Si tratta d’una serie di modelli di comportamenti simbolici appartenenti ad uno stesso sistema semantico che funziona come un paradigma: cioè a) che hanno delle caratteristiche comuni e b) sono funzioni d’una o più (e quindi il paradigma sarà semplice o complesso) variabili caratteristiche – generazione, sesso, ecc. – e c) i loro significati sono in posizione di reciproco, mutuo contrasto. Per la formazione di paradigmi di questo tipo (l’etnologia attuale o etno-scienza opera in modo identico sul materiale semantico delle forme di saluto, sul vocabolario delle malattie, dei colori, ecc., e su comportamenti quale quello religioso o legale) non esistono ancora metodi rigorosi di definizione linguistica. Per questo, ad eccezione di alcuni campi semantici di particolare natura bio-fisiologica, i paradigmi di icone vengono organizzati secondo le categorie emergenti dalle risposte degli informatori (emic), ossia degli individui che appartengono ad una cultura e ne sono i portatori (talvolta inconsci), e non secondo le categorie precostituite dal ricercatore (etic). E gli stessi vuoti di lessicalizzazione rilevati emicamente – cioè secondo la pertinenza interna d’una cultura – sono di grande importanza sociologica.
1.3 Non si deve però credere che la semantica culturale si costruirà in base alle semplici differenziazioni a partire dagli scarti dei significanti. In un articolo dove troviamo anticipata la nostra problematica degli status e dei ruoli, Goodenough lo indica con chiarezza9. Di fronte ad un classico problema di «sociologia primitiva» (la rilevazione dei diritti di proprietà presso la popolazioni Truk), l’etnografo constata come, ai fini d’una valida descrizione, ci si presenti una scelta binaria: a) isolare certe configurazioni specifiche di diritti e di doveri, di privilegi e d’immunità e, a partire da questi, classificare i tipi di proprietà e/o i titoli corrispondenti; oppure b) ordinare un paradigma delle forme linguistiche che designano le relazioni delle persone con gli oggetti posseduti, isolare i criteri semantici che definiscono l’uso di queste forme linguistiche e descrivere, a partire da questi, i tipi di relazione di proprietà o di possesso che ne derivano.
Criticando i risultati di ricerche del secondo tipo e l’implicita presupposizione d’una corrispondenza one-to-one tra le forme di proprietà e le forme linguistiche che le esprimono, Goodenough disperde l’illusione che le marques formali, ad es. alcune caratteristiche grammaticali che formano il possessivo nella lingua Truk, siano necessariamente parallele al concetto di proprietà. Quella che viene impiegata è invece una metodologia mista e unificata, nella misura in cui forme linguistiche ed altri segni materiali subiscono un identico trattamento e vengono integrati in una omogenea dimensione significativa della nozione di proprietà. Il contenuto del linguaggio, espresso nelle sue componenti semantiche, offre da solo la chiave più appariscente per individuare le nozioni di proprietà, ma per rinvenire i modelli culturali di comportamento, a queste componenti vengono sistematicamente integrati i termini concretamente impiegati nelle transazioni e, in modo ancor più significativo, le operazioni effettivamente eseguite dagli individui che parlano quel linguaggio ed appartengono a quella cultura.
Secondo il nostro Autore, tipi di titoli e di proprietà «funzionalmente significanti» vanno quindi dedotti dalla distribuzione dei diritti e dei doveri, ma con riferimento ai punti di differenza tra oggetti di proprietà e vocabolario delle transazioni e altri comportamenti significanti oggettivamente rilevabili, così come i fonemi sono dedotti dalla distribuzione dei suoni verbali in riferimento a punti di differenza del significato secondo il processo di commutazione10.
Contro l’uso della linguistica strutturale – specialmente di osservanza bloomfieldiana – che esaminava le categorie fonologiche e grammaticali come strutture indipendenti dal contenuto delle categorie semantiche, l’antropologo riafferma l’interdipendenza del livello delle forme di comportamento e delle strutture del contenuto culturale espresse nel linguaggio, da analizzare queste ultime senza riferimento al contenuto delle categorie linguistiche in cui si manifestano. Mentre «nell’analisi linguistica il contrasto tra le forme viene definito in modo operazionale, cioè in termini di differenze nelle risposte significative, in semantica vengono definiti operazionalmente i significati, sulla base di differenze nelle risposte linguistiche e nei comportamenti correlati». (Goodenough, 1957). È evidente che il comportamento, che non è in sé una categoria definitoria tale da rispondere alle esigenze delle categorie linguistiche, assume una dimensione discreta e significativa nella misura in cui viene associato a queste ultime. «Il sistema del comportamento distintivo linguistico è correlato al sistema del comportamento distintivo non linguistico» (Lounsbury, 1956). In questo senso, le categorie semantiche viste strutturalmente, in quanto cioè definiscono un’entità autonoma di dipendenze interne, andrebbero espresse nei termini propri d’un ulteriore livello, che Goodenough definisce pragmatica strutturale. Non si tratta d’una tendenza isolata: si va facendo strada nella più recente antropologia e nella linguistica11 la tendenza ad individuare un ulteriore livello rispetto a quelli in cui il linguaggio è attualmente descritto (fonematico, morfematico, ecc.): ossia un livello pragmatico con leggi particolari di combinazione e di scelta delle unità costitutive (pragmemi). Questo livello dovrebbe condurre ad una etnografia della comunicazione, ad un allargamento del senso del linguaggio: intendendo qui per «senso» l’integrazione delle unità d’un livello in unità del livello superiore.
1.4 Integrando così il décalage sistematico tra i livelli linguistici e i comportamenti socialmente significanti, l’analisi per componenti semantiche di Goodenough individua il luogo d’una semantica descrittiva della cultura, concepita come sintassi delle azioni significative dell’uomo; una descrizione del mondo delle qualità culturali in cui si articola la struttura cognitiva d’una data cultura, che viene così concepita come un’organizzazione di classi di selezione le cui singole manifestazioni combinatorie costituirebbero degli insiemi di alternative possibili in diversi contesti.
Un campo privilegiato d’analisi potrebbe essere quello d’una socioscienza, cioè d’una sociologia delle tassinomie, con cui una certa cultura classifica il mondo della sua esperienza sociale12. Una sorta di tagmemica, una scienza delle relazioni gerarchiche con cui l’uomo organizza i suoi rapporti di intelligibilità con gli altri uomini. Le ricerche attuali della etnosemantica sui codici della parentela, dei termini di direzione, delle forme di saluto, dei colori, della cucina, ecc., forniscono un primo modello; anche se sperimentate in modo prevalente su società primitive13, la loro estensione sistematica alla realtà occidentale contemporanea non sembra inattuabile.
Questo metodo ha un’importanza sociologica diretta, quando può ricostruisce il modo con cui l’uomo dà senso, cioè trasceglie dal continuum fisico-sociale che lo circonda, certe particolari modalità della sua esistenza; ma ha anche un interesse complementare indiretto per le rinunce, comparativamente e logicamente verificabili, operate da una cultura riguardo a certi termini d’interesse o a intere zone di lessicalizzazione. Sarebbe interessante in questo senso verificare, ad esempio, l’ipotesi sociolinguistica secondo cui, più grande è il numero dei contesti sociali distinti in cui viene comunicata l’informazione circa un certo particolare fenomeno, tanto maggiore è il numero dei diversi livelli di contrasto in cui il fenomeno viene categorizzato14.
Una volta compiute queste operazioni, dovrebbe essere possibile valutare l’effettiva incidenza del linguaggio sulla cultura, non al livello di qualche termine sparso, ma col raffronto sistematico delle grandi causalità sociali con categorie semantiche abbastanza larghe e determinate, ed inoltre le modalità della funzione selettiva operata dal linguaggio sulla cultura e i ruoli che, rispetto al linguaggio, hanno altri sistemi di segni. Determinare la «economia comunicativa» d’una certa cultura significa in fondo definire il funzionamento della sua semiotica.
Ma per fare tutto questo sarà forse necessario legare le prospettive della Formal Semantic Analysis statunitense ad una direzione più radicale che viene accennando in Francia A. J. Greimas sul filone delle indicazioni saussuriane e hjelmsleviane15. «La registrazione degli scarti del significante al livello dell’espressione, per sicura ed esauriente che sia, rappresenterà sempre e soltanto un sistema d’esclusione e non porterà mai la menoma indicazione sulla significazione. Detto diversamente, gli scarti di significazione non si deducono a partire dagli scarti dei significanti, e la descrizione semantica rileva da un’attività metalinguistica situata ad un altro livello, che obbedisce alle leggi dell’articolazione strutturale della significazione, le quali appaiono come costitutive d’una logica linguistica immanente. La superiorità di questa logica rispetto ad ogni altra possibile logica consiste soltanto nella sua possibilità di verifica, cioè di porre in correlazione il sistema di correlazioni positive costruito dal descrittore grazie alla registrazione degli scarti del significante» (pag. 31-32). Al di sotto delle unità di manifestazione (i lessemi ad es., ma anche ogni altro segno non linguistico) vanno rintracciate le «figure», meglio i semi la cui articolazione costruisce la struttura della significazione. I termini-segni interessano solo come punti d’una rete di relazioni fra i tratti componenti del paradigma. Compito della semantica non è quindi l’inventario o la tassonomia dei segni, ma la loro dissoluzione in un sistema di relazioni di senso. Il discorso di Goodenough sull’analisi del senso a partire dall’opposizione sistematica delle icone non era arrivato a tanto, ma certamente esiste una parziale omologia. Anche l’antropologo americano, come il semanticien francese, ritiene che a partire dalla descrizione dei segni d’una cultura si possa giungere alla descrizione del mondo delle qualità culturali visto come una rete di modelli di relazione. E nella definizione dei paradigmi di parentela o nell’analisi della nozione di status è esplicita la nozione che oggetto d’interesse non sono i termini ma le relazioni che passano tra questi. Il confronto richiederebbe ben altro spazio; basti qui accennare alle promettenti possibilità che si aprono ad un confronto tra metodologie diverse ma che sembrano dirette ad un unico scopo. Come scriveva Hjelmslev, «La description sémantique doît donc consister avant tout en un rapprochement de la langue aux autres institutions sociales, et constituer le point de contact entre la linguistique et les autres branches de l’anthropologie sociale» (Hjelmslev, 57).
2 – SOCIOLOGIA
«Comparses il le faut: car, dans l’idéale peinture de la scène, tant se meut selon une réciprocité symbolique de types entre eux ou relativement à une figure seule».
S. Mallarmé, Crayonné au théâtre
2.1 Ma limitiamoci per ora all’intento puramente descrittivo con cui Goodenough cerca di rintracciare i modelli di comportamento a partire da descrizioni concrete; il metodo deduttivo ci porterà poi, come vedremo, alla revisione di alcune affermazioni metodologiche date come generalmente ammesse nella pratica sociologica ordinaria. Dal livello secondario – descrittivo – si potrà risalire correttamente a quello terziario (metodologico) senza soluzione di continuità intellettuale.
Si tratta appunto delle nozioni di status e di ruolo.
La revisione di questi concetti, compiuta alla luce delle considerazioni metodologiche sopra accennate, è suggerita a Goodenough sia dalle necessità descrittive che da una situazione d’oggettivo scontento riscontrabile nella letteratura sociologica più avanzata16. Indubbiamente la definizione di R. Linton era anfibologica. Se lo status vi era definito come «the polar position… in patterns of reciprocal behaviour» articolata in una collezione di diritti e doveri, e il ruolo, diciamo, come la prospettiva dinamica di tutto questo, esiste anche una dimensione del discorso lintoniano (in particolare quello socio-grafico) che conduceva alla valutazione in termini di categorie sociali o di tipi di persone.
Se il discorso di Linton è ambiguo, quello della sociologia successiva – anche nella importante correzione mertoniana – è troppo semplice. L’utilizzazione sociologica di concetti inizialmente definiti nello spazio teorico della psicologia, cioè la messa a fuoco della struttura sociale in quanto sistema di ruoli, ha cristallizzato i «costrutti» lintoniani a livello delle categorie sociali. Lo status diventa una posizione all’interno dei rapporti sociali, una unità che comprende in sé diritti e doveri che le spetterebbero in proprio.
Goodenough ritiene necessario rompere con una pratica come questa, che ammassa in sé fenomeni del tutto indipendenti ed è per questo ambigua nell’impiego e insufficiente nei risultati. «Mia sorella è mia sorella anche se non onora i suoi obblighi in tal senso». E un poliziotto è un poliziotto al di fuori del suo comportamento in ufficio: i suoi diritti e i suoi doveri sono definiti da altre determinazioni sociali, giuridiche, ecc., indagabili con altri metodi non necessariamente esclusivi. È dunque necessario scindere l’unità monadica della nozione di status riservando il termine alle sole combinazioni di diritti e di doveri. Da una parte avremo dunque uno status visto nelle sue proprietà formali, come a) diritti e doveri, privilegi e immunità, poteri e responsabilità, ecc., e b) le caratteristiche combinatorie in cui sono distribuite le relazioni d’identità (identity relationships); dall’altra parte la posizione categoriale, alla quale andrebbe riservata la nozione di identità sociali (social identities). Alle relazioni tra queste proporremmo di riservare il nome di rapporti d’identità.
2.2 La rottura della concezione monolitica dello status ci pare fondamentale: essa comportava a) una confusione di livelli mentre la distinzione in identità sociali e relazioni d’identità rende possibile il separato impiego operativo e b) la conclusione paradossale che questo essenziale strumento sociologico fosse correttamente definibile a partire dalla natura giuridica o comunque esternamente regolata dalle disposizioni formali che definiscono le categorie. Era così smarrita la dimensione interpersonale del rapporto sociale che è sempre unità a due facce, correlazione di diritto e di dovere (anche il privilegio esige una correlativa noblesse oblige!). La distinzione, nella sua apparente semplicità, reintroduce nell’analisi una funzione relazionale di reciproca rappresentazione, quindi simbolica e semiologica17. I segni con cui ci definiamo portatori d’un certo status, investiti d’un certo ruolo, la significanza che questa definizione di status possiede, non rappresentano qualcosa (come Pellizzi insegna da tempo), ma significano per qualcuno. D’altra parte la concezione monolitica dello status, rinunciando all’aspetto interpersonale, era costretta a distinguere tra comportamenti formali e informali e a dividere, sempre sulla base di criteri a priori (quindi diligentemente e a tautologicamente verificati nelle conclusioni), ciò che pretendeva in principio di tenere unito. Salvo naturalmente lamentare l’incompatibilità dei livelli descrittivi economico-giuridico da un lato e puramente psicologico dall’altro; ma è il prezzo necessario per chi vede i rapporti «strutturali» indipendentemente dal loro contenuto «culturale». L’impostazione interattiva e simbolica sembra invece liberare – per questo la scienza è un linguaggio ben fatto – una potenzialità esplicativa immanente alla definizione di status, che ne rende possibile la manipolazione nei termini d’una descrizione semiologica in grado di dissolvere l’antinomia tra formale e informale, e di ordinare tutti i termini del comportamento sociale in un sistema in cui essi trovino una significazione generale.
Il peso che in questa direzione può esercitare il modello linguistico va valutato anche sotto un altro profitto. Lo status, comportamento sociale che lega l’individuo ad altri individui nella reciprocità dei diritti e dei doveri ecc., è dettato dalla conoscenza dell’immagine di Sé riflessa nell’Altro. Ebbene, nei suoi contenuti e più ancora nella sua articolazione formale, questa conoscenza è iscritta nel linguaggio. Il fenomeno linguistico si (im)pone come il meccanismo di interrelazione – primo in senso logico e genetico – sulla cui struttura sembra ricalcato ogni altro fenomeno di comunicazione18. Modello che annoda la posizione del Sé e dell’ Altro di cui e da cui si «prende il ruolo», il linguaggio non cessa d’accompagnare ogni rapporto umano porgendogli lo specchio della propria struttura. L’analisi del linguaggio può così introdurre, ad una semiologia come translinguistica metodologica, ed a fondare una sociologia della conoscenza e della comunicazione. Sociologia che dovrebbe avere per oggetto le semiotiche in cui e per cui si manifesta il comportamento significante dell’uomo: l’uomo rinvia ogni segno ad un altro uomo, ogni segno rinvia l’uomo ad un altro segno.
È forse questo il linguaggio intermedio tra il diritto e la psicologia, che la sociologia attende per una valida descrizione e concettualizzazione della cultura intesa come sistema di comportamenti significanti? La risposta non è anticipabile: certo, sembra per ora possibile, a partire da questa impostazione, ristrutturare tutta una costellazione di termini sociologici intorno al mot-clé «status» (rapporto, relazione, status-ruoli, identità sociale, persona, ecc.), accrescendone le valenze esplicative.
2.3 È quanto Goodenough sembra prospettare: un vocabolario e una sintassi delle regole di status e di ruolo, dedotti dai segni linguistici e dai comportamenti significativi osservabili all’interno d’una certa cultura, che descrivono gli attributi degli individui e le loro reciproche relazioni, i versanti in reciproca prospettiva dei diritti e dei doveri, dei privilegi e delle servitù.
Ogni insegnamento è apprensione d’un «ordine». Una funzione essenziale dell’acculturazione – dice Goodenough – è quella di definire, «ordinare» i comportamenti «conformi» di omissione e di esecuzione. Esistono pertanto in ogni cultura tutto un vocabolario, lessici particolari e idioletti singoli per definire questi comportamenti. I metodi della semantica descrittiva possono fornire, a partire da questi dati, criteri e risultati di notevole rigore. Una volta fatto questo, la descrizione linguistica va integrata con la descrizione delle relazioni d’identità quali vengono effettivamente svolte e rilevate sul campo.
Come abbiamo accennato, le identità sociali (il nucleo categoriale dello status), sono aspetti del self che differenziano il modo con cui i diritti e i doveri d’una persona sono distribuiti rispetto ad altre persone specifiche. I diritti e i doveri, poi, tracciano i confini entro i quali i partecipanti alle relazioni sociali sono tenuti a contenere il proprio comportamento. I privilegi sono le possibilità di gioco personale che gli attori possono svolgere li loro grado all’interno di questi limiti. Diritti e doveri sono considerati come unità correlative: in termini saussuriani esse rappresentano, come ogni segno, le due facce d’una stessa moneta, si ritagliano sul continuum delle nappe della realtà sociale con un unico gesto che ne definisce a un tempo il diritto e il rovescio.
Dalle diverse identità di cui ogni individuo è portatore – marito, figlio, cittadino, datore di lavoro, ecc. – solo alcune vengono selezionate dall’individuo nel corso delle diverse interazioni possibili. Ad eccezione di alcune dimensioni d’identità «necessarie» che sono rilevanti in tutte le situazioni sociali (il sesso, ad es., o l’età – almeno limitatamente a certi periodi), pone in atto nel dialogo sociale una selezione d’identità che è un concetto operativo prezioso, in quanto consente «non diversamente dalla selezione delle parole nel comporre le frasi», di definire alcuni essenziali principi sintattici che guidano questa selezione. Si tratterebbe di definire le regole che presiedono alla «generazione» di certi particolari sintagmi interattivi, sulla base delle scelte possibili entro i paradigmi che caratterizzano la personalità dell’individuo agente. Naturalmente i sintagmi sono limitati in primo luogo da alcune condizioni preliminari: la qualificazione dell’individuo alla selezione, i tipi di attività interattiva che sono consentiti entro una certa cultura in numero limitato (si pensi a certe esclusioni di casta o addirittura di razza), e dal particolare contesto in cui si attualizzano. Ma la selezione di identità dipende da due tipi essenziali di grammaticalità di relazione: una di intergrammaticalità per cui «per ogni identità assunta da una parte esistono solo un numero limitato di identità corrispondenti valide per l’altra parte». Se questo non accade, la conseguente non grammaticalità è analoga alla confusione semantica che si verifica in quei giochi – nota Goodenough – in cui un giocatore deve continuare a scrivere una storia conoscendo solo l’ultima parola scritta dal partner che l’ha preceduto. Di qui la necessità di presentare tutti i segni di status, abbastanza ridondanti da non essere equivoci, per consentire l’instaurazione di relazioni d’identità corrette19. Si potrebbe invece definire infragrammaticale la limitazione sintattica che si opera all’interno delle differenti identità di ogni individuo, che nel corso dell’interazione non si limitano spesso ad una sola dimensione, ma che, ristrette ad un numero appropriato, formano la persona sociale dell’individuo interagente.
È evidente insomma che non si può dedurre il dovere dell’Altro a partire da quello di Ego; in diverse relazioni è possibile che esistano lo stesso dovere e diversi diritti e viceversa. È indispensabile guardare alla distribuzione di diritti e di doveri entro un contesto definito, non come ad una scacchiera di posizioni, ma come a un sistema di relazioni da leggersi nella duplice prospettiva di entrambi i partecipanti. Ogni coppia di doveri di status e di corrispettivi diritti di status costituisce una relazione di status: queste possono ricorrere identiche in diversi rapporti di identità; e, d’altra parte, la stessa identità può partecipare a diverse relazioni di status sulla base delle diverse relazioni d’identità possibili. Goodenough conclude che per descrivere una struttura sociale è necessario ipotizzarla come «un sistema culturalmente ordinato di relazioni sociali… composto tra l’altro di relazioni d’identità, di relazioni di status – da descrivere in termini differenti – e del modo con cui essi sono mutuamente distribuiti»20.
2.4 Per la descrizione e la classificazione di questo sistema di relazioni di status, Goodenough ha proposto un sistema ingegnoso che si vale d’uno strumento matematico di notevole valore qualitativo.
Certi doveri – e correlativi diritti – in diverse combinazioni, possono indicare differenze socialmente significative su di una certa dimensione: prestigio, devozione, distanza sessuale, dipendenza emozionale, ecc. È possibile dunque disporre queste differenze – così come sono distribuite nelle diverse relazioni d’identità – secondo il modello della scala di Guttmann21. E qualora, ad es., gli obblighi che esprimono deferenza fossero disposti secondo una distribuzione inclusiva «le identità sociali per ciascuna relazione d’identità in cui si presentano e gli obblighi che esprimono la deferenza, potrebbero essere simultaneamente classificati rispetto agli altri in una speciale tavola matriciale, lo “scalogramma”». A parte le difficoltà che questa rilevazione può presentare (definizione di tutti gli obblighi su una dimensione, determinazione del numero minimo di dimensioni richieste per spiegare la distribuzione degli obblighi culturalmente definiti in un sistema di relazioni sociali, il grado di consenso esistente sulla distribuzione degli obblighi e sulla loro appartenenza alla dimensione presa in esame, ecc.), sarebbe davvero redditizio applicare questa scala ai comportamenti entro organizzazioni altamente «organiche» della società contemporanea. Senza arrivare al paradosso di definire la nostra società come una società etnologica (senza storia) in molti settori a densa burocratizzazione con altissime tensioni relazionali ed uso feroce dei dettagli di distintività, gli esempi di Goodenough sui sistemi di saluto e di distanza sessuale presso i Truk avrebbero qualche sapore22.
Ma seguiamo più oltre la ristrutturazione lessicale di Goodenough. Tutti gli obblighi di status e i diritti di status, connessi ad una data identità in tutte le relazioni di identità che le sono grammaticalmente possibili, costituiscono un ruolo di identità in senso equivalente al role-set di Merton. Un confronto tra certe identità e i loro rispettivi ruoli mostra facilmente come possa verificarsi che i ruoli di certe identità hanno maggiore spazio d’azione personale, più privilegi, più diritti nel complesso delle loro relazioni d’identità, di quanto potrebbe lasciar supporre la semplice identità sociale.
Ed ecco spiegarsi la capacità euristica del nuovo taglio terminologico: certe identità possono avere funzioni diverse nel sistema sociale e diversi valori analizzabili sulla base dei termini con cui queste identità vengono definite, e di una serie di tratti pertinenti integrativi del comportamento. La selezione riflette le regole sintattiche di composizione, ordinate secondo un numero limitato di principî. Altri comportamenti, che dipendono da uno stile individuale particolare della condotta di status (e che potremmo chiamare idioprassi per analogia al termine linguistico idioletto), sono presi in considerazione solo come varianti – «allomofi di un morfema nella lingua» – ed esclusi dal sistema delle proprietà formali. Per questo, definire «attori» i partecipanti alla interazione sociale non ci sembra soddisfacente né appropriato a definire le identità di ruolo. Quando si voglia mantenere l’indicazione «teatrale» del rapporto sociale23, meglio varrebbe il termine «attanti», cioè di personaggi funzionali che vengono in considerazione meno per la loro essenza che per quello che fanno in relazione a ciò che altri attanti compiono.
Ancora in un senso la nuova tecnica di classificazione sembra piena di promesse. Se lo scalogramma così ordinato è corretto «il numero di posizioni scalari sulla cui base il comportamento dell’altro sembra non appropriato, misura il grado risultante di lusinga o di offesa»24. E cioè, sulla base della organizzazione sintattica degli status viene definita la valenza di certi comportamenti non grammaticali (saluto cerimonioso del «pari grado», trattamento familiare dell’«inferiore» o del «superiore», il tu al cameriere, ecc.). Alcune dimensioni psico-affettive trapassano così, su un certo livello di determinazione, ad oggetti sociologici. «Si un peu d’abstraction éloigne du concret beaucoup y ramène» (Lévi Strauss).
Non si vorrà obbiettare la pertinenza antropologica di questa proposta – la nozione di status non era già mutuata da Linton? I risultati antropologici d’altra parte non vengono acquisiti al corpus della sociologia in nome del suo oggetto, dell’unità delle due discipline entro una più vasta scienza dell’uomo, ma, come ci sembra d’aver suggerito, per una più profonda necessità radicata nel comune linguaggio con cui esse parlano i «linguaggi» dell’uomo.
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La vitalità della sociologia sta nella possibilità e capacità di rinnovo della sua «vulgata» in un metalinguaggio capace di nuova presa, con i suoi significanti, sui significati umani che essa ordina nella struttura d’un discorso rigoroso. Non si tratta di trovare il significato della sociologia quanto di cercare una sociologia della significazione. Allo stato attuale della riflessione sulle scienze umane, accanto alla problematica sociologica tradizionale ci sembra si venga definendo un nuovo «oggetto»: il discorso comunicativo e simbolico dell’uomo, il rapporto tra i codici e i messaggi della sua cultura, le articolazioni della manteia il cui fremito tocca il mondo delle relazioni sociali. Il gesto d’appropriazione metodologica deve però essere precauzionale: l’irraggiamento della linguistica è già in corso in campi molto diversi (letteratura, psicanalisi, antropologia), ed è molto spesso analogico, abusivo; in più, soffre di «fonologismo epistemologico», accredita cioè metodologie fonologiche, mentre (e perché) l’analisi semantica – che sembra più d’ogni altra· indispensabile alla sociologia – è ai suoi inizi. L’ipotesi di Goodenough suggerisce le modalità di un’estensione capace di mantenere ai termini una loro pertinenza, effettuando una neutralizzazione controllata di concetti dotati di senso solo nel contesto specifico del discorso linguistico, e compatibile con l’allargamento ad altri sistemi semiotici. Per una via non dissimile l’allargamento ad altri sistemi di segni, ad altri linguaggi ideologici del nostro tempo può condurre da una descrizione rigorosa (semio-grafica) ad una ricostruzione dei modelli di comportamenti sociali significanti (socio-logica).
Se a taluno sorgesse il dubbio che questa non è sociologia, risponderemmo volentieri che questa parola, che abbiamo ereditata (e a cui ci sentiamo un po’ condannati come a una croce), è un vuoto più che un pieno di senso, qualcosa che attende ancora di essere articolato dalle ricerche sui problemi di fondo dell’uomo25.
«Il grande problema delle scienze dell’uomo è staccarsi dal mondo obbiettivo e materiale con le sue infinite variazioni… (per giungere)… al mondo soggettivo delle forme, dei modelli che esistono nella mente dell’uomo»26. La linguistica strutturale sembra oggi uno strumento per andare oltre la pelle dell’uomo, oltre la vana certezza dei comportamenti espliciti, per decentrare il soggetto delle scienze umane nelle strutture cognitive – il più spesso inconsce come il linguaggio27 – in cui e per cui soltanto la sua azione prende senso. L’acquisizione d’un nuovo linguaggio, radicale nella misura in cui ha a che fare con la vecchia tematica solo per usare in modo nuovo i vecchi materiali, e per la distanza significante che assume di fronte alle vecchie metodologie, è il prerequisito d’una sociologia della profondità opposta a quella della superficie. Ci si opponga, se si vuole, l’argomento apparentemente solido di tutte le tautologie «status è status» «sociologia è sociologia»; certamente: to a mouse, cheese is cheese, that is why mouse traps are effective.
Note
- In The Relevance of Models for Social Anthropology, A.S.A., Monographs I, London, Tavistock, 1965.
- Ibid., p. 1.
- V. ad esempio la raccolta di saggi a cura di W. Goodenough, Explorations in Cultural Anthropology, New York, McGraw Hill, 1964.
- Sugli studi antropologici statunitensi di cognition, v. l’ottimo bilancio di O. C. Frake, The Ethnographic study of Cognitive Systems, in T. Gladwin e W. C. Sturtevant (eds.), Anthropology and Human Behavior, Washington, Anthropological Society of Washington, 1962, e il recente fascicolo dello «American Anthropologist» su Transcultural Studies in Cognition, 1964, LXVI (1964), n. 3. Lo studio delle correlazioni tra gli elementi significanti del linguaggio e quelli culturalmente significativi che articolano la cognition, sembra uno strumento privilegiato per individuare quella visione strutturata del mondo che un antropologo semanticien definiva mazeway, chiave d’un enorme labirinto di comportamenti culturali possibili, v. A. Wallace, Culture and Personality, New York, Random House, 1961, e Culture and Cognition, in «Science», CXXXV (1962), pp. 351-357. Altre definizioni che individuano con diversa approssimazione e pertinenza questo concetto: cognitive map, struttura, image, Umwelt, eidos, model, infrastruttura, thought structure. In questo senso v. anche le ricerche condotte dal C. Kluckhoun – anch’egli influenzato dalla scuola dello strutturalismo linguistico di Praga – sugli orientamenti di valore, Toward a Comparison of Value-Emphases in Different Cultures, in L. D. White (ed.), The state of the Social Sciences, Chicago, University of Chicago Press, 1956.
- Per le modifiche che a livello di i.o. introducono le variazioni singole tornerebbe forse utile lo schema concettuale usato in Hjelmslev. Esso distingue tra schema e modifiche che il discorso individuale – la parole saussuriana – opera attraverso gli usi consolidati e le norme intermedie. V. anche L. Rosiello, Struttura, uso e funzione della lingua, Firenze, Vallecchi, 1965.
- Cfr. W. Goodenough, Cultural Anthropology and Linguistics, in P. L. Garvin (ed.), Report of 7th Annual Round Table Meeting on Linguistics and Language Study, Washington, Georgetown University Monographs Series on Language and Linguistics, 1957.
- V. come punto di riferimento L. Hjelmslev, Pour une sémantique structurale, in Essais Linguistiques, Copenhague, Nordisch Sprog og Kulturforlag, 1959, pp. 96-112. E per i più recenti sviluppi A. J. Greimas, Sémantique structurale, Paris, Larousse, 1966.
- Sull’analisi per componenti è necessario un riferimento preliminare agli studi precedenti al livello dell’espressione linguistica: R. Jakobson, Beitrag zur allgemeinen Kasuslehre: Gesamtbedeutungen der russischen Kasus, in Travaux du Cercle Linguistique de Prague, Praga, 1936, pp. 240-288 e Harris Zelling, Componential Analysis of a Hebrew Paradigm, in «Language», XXIV (1948), pp. 87-91. Gli articoli fondamentali di W. Goodenough, Componential Analysis and the Study of Meaning, e di Floyd G. Lounsbury, A Semantic Analysis of the Pawnee Kinship Usage, entrambi in «Language», XXXII (1956), pp. 195-216 e pp. 158·194, che hanno generalizzato l’analisi a livello del contenuto (in senso hjelmsleviano); e a tutta una serie di studi troppo varia per renderne conto in questa sede. Si veda ad ogni modo, oltre a S. Ullmann, La semantica. Introduzione alla scienza del significato (trad. it.), Bologna, Il Mulino, 1966, specialmente gli ultimi svolgimenti in senso strutturale: U. Weinreich, Explorations in Semantic Theory, in Current Trends in Linguistics, Sebeok Th. A (ed.), 1966, voI. III, in senso generativo: J. J. Katz e J. A. Fodor, The Structure of a Semantic Theory, in «Language», XXXIX (1963), pp. 170-210, e in senso stratificazionale: Lamb, The Sememic Approach to Structural Semantics, in «American Anthropologist». LXVI (1964), pp. 57-78. V. anche i! numero unico dell’«American Anthropologist», LXVII (1965), n. 5, dedicato alla Formal Semantic Analysis (con scritti di E. A. Hammel, J. C. Gardin, W. L. Chafe, S. Lamb, R. Burling, A. Kimball Romney, F. G. Lounsbury, L. Pospisil, R. G. D’Andrade, A. Wallace, W. Bright, W. Goodenough, D. M. Schneider); e E. H. Bendix, Componential Analysis of General Vocabulary, The Hapue, Mouton, 1966.
- W. Goodenough, Language and Property in Truk: Some Methodological Considerations, in Property, Kin and Community in Truk, New Haven, Yale University Press, 1951, pp. 61-64.
- Si intende per commutazione una modifica arbitraria sul piano espressivo dei significanti per verificare se a questo mutamento consegua o meno una modifica sul piano del contenuto (ossia dei significati).
- V. in questo senso il recente orientamento d’un linguista antropologo come Dell Hymes, Directions in (Ethno)-Linguistic Theory, in «American Anthropologist», LXVI (1964), n. 3, pp. 6-56 e Toward a Ethnographie of Communication, in «American Anthropologist», LXVI (1964), n. 6, pp. 1-34. Quest’ultimo numero era dedicato appunto al tema della Ethnography of Communication.
- V. gli orientamenti analoghi della semiotica sovietica: J. Lotman, Problèmes de la typologie des cultures, in «Informations sur les sciences sociale», VI (1967), pp. 2-3.
- Sull’etnosemantica e in genere sugli studi detti di etnoscienza – studio delle folk-tassonomie secondo una inner view strutturale – v. i chiari bilanci di W. C. Sturtevant, Studies in Ethnoscience, in «American Anthropologist., LXVI (1964), n. 3, pp. 99-131; B. Colby, Ethnografic Semantics: a Preliminary Survey, in «Current Anthropology», VII (1966), n. 1, pp. 3-17 e l’ottimo H. C. ConkIin, Lexicographical Treatment of Folk-taxonomies, in Householder F. W., Saporta S. (eds), Problems in Lexicography, Bloomington, Indiana University Press, 1962. Dei campi investiti: parentela, colori, giochi, pronomi, numerali, termini di saluto, malattie, cucina, botanica, zoologia, daremo conto in altra sede.
- V. in questo senso C. Frake, The Diagnosis of Desease Among the Subanum of Mindanao, in «American Anthropologist», LXIII (1961), pp. 113-132.
- V. A. J. Greimas, Sémantique Structurale, cit., e Modelli di semiologia, a cura di P. Fabbri e P. Paioni, Urbino, Argalia, 1967.
- V. ad es. E. Goffmann, Encounters: Two Studies in the Sociology of Interaction, Indianapolis, Bobbs Merril, 1961, S. F. Nadel, The theory of Social Structure, Glencoe Ill., Free Press, 1957, ed altri.
- In questa direzione la semantica descrittiva in sociologia si muove sul filo dello sviluppo della linguistica «… è chiaro quanto questa concezione della linguistica differisca da quella che prevaleva un tempo. La nozione positivista di fatto linguistico è sostituita da quella di relazione. Anziché considerare ogni elemento in sé… lo si esamina come parte di un insieme…; l’atomismo fa posto allo strutturalismo». V. E. Bénveniste, Problèmes de linguistique générale, Paris, 1966, p. 22.
- Per la posizione del soggetto nel linguaggio e la definizione del rapporto tra linguaggio e comunicazione sociale, v. E. Bénveniste, op. cit., pp. 260 ss.
- È interessante notare che sotto questo profilo andrebbero rilette le modalità delle sanzioni sociali di chi si presenta in condizioni di non grammaticalità di status (ad es. il medico che non ha la laurea, ecc., ecc.). Si pensi al codice civile: Titolo VII, Delitti contro la pubblica fede, al capo IV Della falsità personale, ad es. l’art. 494, Sostituzione di Persona; il 496, False dichiarazioni sulle identità e qualità personali proprie e d’altri; 497, Usurpazione di titoli e d’onori; ecc. Si tratterebbe di sapere a che punto la presentazione di sé comincia a configurarsi come intenzionalmente illusoria (e corrispettivamente delusoria). Dalle soglie di questa illusione (il bluff sociale) insomma, dipende tutto il gaming del gioco statuale. L’analisi degli status potrebbe arricchirsi per altra via con l’applicazione di alcune recenti messe a punto, ad es. sul gioco a due (v. E. Goffman).
- V. W. Goodenough, Rethinking «Status» and «Role», cit., p. 16.
- Sulla necessità che la dislocazione sullo spazio scalogrammatico sia sempre preceduta da una adeguata operazione di «substruzione semantica», v. d’altra parte L. Guttman, Principal Components of Scalables Attitudes e A New Approach to Factor Analysis: the Radex, in P. F. Lazarsfeld (ed.), Mathematical Thinking in Social Sciences, Glencoe Ill., Free Press, 1954 (in particolare sulla distinzione tra struttura statistica e struttura semantica).
- All’interno d’una facoltà universitaria, ad es., l’accertamento delle relazioni di status misurata sulla scala di deferenza porterebbe qualche ritocco all’organigramma formale che classifica i soggetti d’interazione: basti pensare alla funzione del bidello!
- Non ha forse torto J. Duvignaud, che nei suoi studi sul teatro e sull’attore pensa alla sociologia come a una scienza della teatralizzazione sociale, o comunque capace di impiegare il dramma – situazione oggettiva e vissuta, sincronica e processiva – per analizzare gli aspetti cerimoniali della vita sociale: l’uomo per esistere deve rappresentarsi, recitare la sua esistenza, il suo ruolo per diventare una realtà concreta, «la cerimonia sociale è forse un tratto fondamentale della vita collettiva perché esprime con impressionante intensità il gioco dei ruoli sociali e l’opporsi dei simboli che essi implicano». J. Duvignaud, Sociologie du théâtre, Paris, PUF, 1966.
- W. Goodenough, Rethinking «Status» and «Role», cit., p. 18.
- Diremmo di più: l’illusione fattuale della sociologia le dà ancor oggi un aspetto fantasmatico: è un quadro che copre una finestra, una certa rappresentazione su di un vuoto. Anche se l’affermazione è arrischiata, resterebbe il fatto che il quadro oggi è assai mal dipinto.
- W. Goodenough nell’Introduzione a Explorations in Cultural Anthropology, cit.
- Come aveva già compreso da tempo F. Boas nell’Introduzione al suo celebre Handbook of American Indian Languages, Washington, Humanities Press, 1966 (ultima edizione).