Letteratura: funzioni e finzioni. Un riesame


Da: E|C, rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici on-line, pubblicato in rete il 19 luglio 2016.


 

“Oportet et haereses esse”
Paolo

1. Agli esami di istruzione secondaria superiore di quest’anno, più di 500.000 studenti hanno trovato, tra le tracce proposte per la prima prova di italiano (Tipologia A, analisi del testo), uno scritto sulle funzioni della letteratura. Meno attuale delle altre tracce – il voto alle donne, approfondimenti sul Pil e l’economia, l’uomo nello spazio o il valore del paesaggio. Il testo però era firmato da Umberto Eco, una scelta che ha suscitato il suono generale di un’inarticolata approvazione: Eco, la punta diamante della cultura, il miglior maestro, che sa come parlare ai giovani e così via. L’onore non è sempre una consolazione, ma non vanno sperperate le eccitazioni. Il tema proposto era una silloge di frammenti tratti dall’articolo “Su alcune funzioni della letteratura” che apre la raccolta Sulla letteratura, 2002 (presentato al festival degli scrittori, Mantova, 2000, poi in Studi di estetica, “Il perché della letteratura”, n. 23, 2001). I “maturandi” erano istruiti prima a riassumere il cut and paste ministeriale poi, in un ordine non proprio canonico, a procedere ad un’analisi del l’aspetto stilistico, lessicale e sintattico”.
La scelta del saggio era benvenuta nell’aria teorica attuale, sempre più tiepida: in primo luogo perché si tratta di uno scritto tutt’altro che occasionale, anzi di un’esplicita “dichiarazione di poetica”. Inoltre Eco, tifoso del liceo classico, vi interrogava esplicitamente le funzioni “educative” sociali e individuali di quel “potere immateriale” che è la “tradizione letteraria”. I frammenti scelti trattavano (i) il contributo della letteratura al patrimonio linguistico comune, poi (ii) le modalità corrette per interpretare le opere letterarie. Rileggiamoli: meritano orecchi.
(i) Gli studenti erano preavvertiti da Eco che la letteratura si scrive e si legge per grazia sui, senza fini pratici e senza essere obbligati – con l’eccezione del loro esame. Così facendo però la letteratura tiene in esercizio la lingua, la quale va dove le pare, è vero, insofferente ad ogni dictat, ma è sensibile ai “suggerimenti” dei letterati. Così, i testi redatti per “amor di sé” finirebbero per formare la lingua (o le lingue?) e creare identità e comunità. Per Eco senza quel suggeritore di Dante non vi sarebbe stato un italiano unificato (e neppure una politica, volgare anche se meno illustre); anche l’italiano nobilmente medio (sic!) si sarebbe diffuso attraverso la televisione, ma non senza la prosa “piana e accettabile” di Manzoni, Svevo e Moravia. Insomma le finzioni dell’amor di sé una qualche funzione sembrerebbe averla, nonostante l’opinione di filosofi pragmatisti, come Austin, per cui il dire è un fare qualcosa di pratico (registri, leggi, formule scientifiche, verbali di sedute, orari ferroviari ecc.).
All’esclusione della poesia1!
(ii) L’ultimo paragrafo della prova proponeva una funzione più esplicita: affrontare un pericoloso
movimento “ereticale” contemporaneo per cui di un testo letterario si possa fare quel che più ci aggrada,
leggendovi quanto ci suggeriscono “i nostri più incontrollabili impulsi”. L’Eco, nella versione
ministeriale, incita quindi la generazione immersa nei social media all’obbligo di un esercizio di
fedeltà” nel libero gioco interpretativo a cui li invita l’opera letteraria coi suoi molteplici piani di lettura,
le sue ambiguità linguistiche e esistenziali. Un’ermeneutica regolata di tutto e profondo rispetto”
verso una “intenzione del testo”, diversa dagli intenti dell’autore e/o del lettore2.

2. I giovani esaminandi hanno già sostenuto la prova e gli eventuali fraintendimenti sul concetto echiano di intentio operis non sono rilevanti: la somma degli errori agli esami di geometria non tolgono valore al teorema di Pitagora. Vorremmo aggiungere alle loro analisi – di cui ci confessiamo curiosi – un’operazione di catalisi, di reinserire cioè nell'(avan-)testo ministeriale le altre porzioni testuali della dichiarazione di poetica di Eco. In questo (retro-)testo i lettori saltati troverebbero che il grande studioso di media preferisce leggere la letteratura in formato cartaceo e ritiene che passare all’ebook non cambierà il potere della letteratura (il saggio è di quindici anni fa!). Per questo scivola facilmente dal bene immateriale della tradizione letteraria al formato storicamente situato del libro. Per l’autore del Nome della Rosa, i giovani maturandi, pollicini degli smartphone, sarebbero “gli stessi che affollano le grandi cattedrali del libri che sono le grandi librerie multipiano” dove “vengono a contatto con stili colti ed elaborati. Evitando così di cadere nella pania della criminalità giovanile, presunto effetto dell’esclusione “dall’universo del libro e da questi luoghi dove attraverso la educazione e la discussione, arriverebbero a loro riverberi di un mondo di valori che rinvia ai libri”. Che la letteratura nel formato libro abbia questa funzione non avrebbe incuriosito i partecipanti alle prove di italiano. Sono le conclusioni del saggio sulla funzione educativa della letteratura – addotte con una certezza smentita dall’enfasi – che potrebbe sorprenderli. La tradizione letteraria per l’autore del Cimitero di Praga non si riduce a trasmettere morale o il senso del bello. Ha ben altra intentio operis: avremmo tutti bisogno della “severa lezione ‘repressiva’” che “l’educazione al Fato e alla morte sia una delle funzioni principali della letteratura”.
Il Fato e la Morte: il percorso attraverso il quale lo scrittore-filosofo giunge a questo esito didattico non merita ostilità adulatrici, ma ricostruzioni evitate o rinviate. L’autore dell’Opera aperta, che riconosce alla narratività ipertestuale contemporanea una lezione di libertà e creatività, sostiene che esistono però racconti “immodificabili”, “o “già fatti” – una letteratura morta nel senso della natura morta – che hanno la funzione “di insegnarci anche a morire” (“memento mori”) e “contro ad ogni nostro desiderio di cambiare il destino, ci fanno toccare con mano l’impossibilità di cambiarlo” (“memento fati”).
Per spiegare come il filo della narrazione sia diventato il filo delle Parche, bisogna addentrarsi tra le quinte di un loquace pensiero, tra diversivi testuali e cavalcavie di citazioni, con un’assicurazione infortuni per la memoria e l’idiosincratica patente della franchezza. Cominciare con il riconoscimento del “profondo rispetto” per “l’intenzione del testo” in quanto esito inatteso ma coerente di una “ri-svolta filosofica” nella teoria, nella semiotica ed nella estetica. Nel saggio proposto, l’approccio di Eco al fatto letterario è logico e referenziale: egli ritiene infatti per “avvicinarsi con buon senso a un’opera narrativa” si debba risolverla in proposizioni da confrontare con “quelle che pronunciamo intorno al mondo”. Tenendo bene a mente che il libro è chiuso e il mondo aperto. Tuttavia, con vena paradossale, l’autore del Pendolo di Foucault sostiene che mentre le proposizioni che affermiamo – per es. scientificamente – sul mondo sono sempre soggette a revisione, quelle della letteratura – per es, Sherlock Holmes è scapolo o Anna Karenina si uccide – sarebbero indubitabili; ci ispirerebbero la fiducia che “rimarranno vere in eterno e non potranno mai essere confutate da nessuno”. “Un modello immaginario – scandisce Eco – di verità”. Verità letterale che si riverbera sulla verità ermeneutica per interdire ogni deviazione – affermazioni, suggerimenti, insinuazioni – sovra- o sottointerpretative. Le proposizioni letterarie ci segnalerebbero insomma “con sovrana autorità ciò che è rilevante in esse e quel che non si può interpretare liberamente. A chiunque si abbandoni a “derive interpretative” va lapidariamente ricordato che “il mondo della letteratura è un universo nel quale è possibile fare dei test per stabilire se un lettore ha il senso della realtà o è in preda alle sue allucinazioni”.
Naturalmente Eco, memorioso quanto il Funes borgesiano, sa bene che esistono nella letteratura innumeri trasformazioni e ricombinazioni cronotopiche, ma pensa si possa ridurne la complessità trattando dei personaggi – situazioni, oggetti – “fluttuanti”. Questi esseri immaginari, per Eco, migrano attraverso la sterminata testualità letteraria grazie alle aperture dei formati ontologici di diversi mondi sociali: gli abiti culturali, le passioni e le manie che li rendono collettivamente veri. A riprova: “possiamo fare affermazioni vere sui personaggi letterari perché ciò che accade loro è registrato in un testo”. Questi esseri cartacei (o altramente effimeri) non sarebbero ontologicamente diversi dai loro originali: e sarebbe sempre possibile affermarne con verità l’intangibile testualità, anche quando il testo a cui appartengono viene eseguito come uno spartito musicale. O quando si abbia a che fare con chi non ha mai letto la “partitura archetipa”. Eco ammette l’improvvisazione e la jam session su partiture verificabili, ma la musica dei classici, secondo lui, va sempre eseguita con rispettosa identità di compitazione, con sameness of spelling (Goodman).
Una regola cha va piuttosto stretta alla letteratura, luogo privilegiato dell’immaginazione plurale e del verosimile; babele dei testi possibili che realizzano i mondi reali. Chissà se il Narciso freudiano, tanto innamorato di sé, sia l’esecuzione corretta del Narciso classico che s’innamora della propria immagine speculare persuaso che si tratti di un altro.
E se ogni esecuzione – allografa – suscitasse un originale – un autografo – una nuova partitura archetipa?

3. La “severa lezione repressiva” ha una duplice significato nel progetto di Eco: prendere rumorosamente le distanze da una “pericolosa eresia” – il decostruzionismo di conio derridiano ed enunciare a mezza voce un ripudio – la semiotica nella sua versione strutturale. La prassi critica di usare ad libitum grandi racconti della letteratura, andrebbe inscritta nella lista delle eresie cristiane: tra quelle “simbolo-fideiste”, “tropiche” se non addirittura “turlupinanti” (Téron). Prendendo le debite distanze dai suoi vecchi trascorsi – opere aperte, avanguardie giocose e pensieri deboli – il neo-Eco finisce per attribuire alla letteratura la funzione inclemente di toccare con mano” la realtà negativa delle leggi fatali del vivere.
Agli eresiarchi della fine d’ogni determinismo, ai turiferari dei mondi possibili e della controfattualità della storia, risponde con la controriforma analitica o l’abiura semiologica; all’everything goes della De-costruzione con la de-Strutturalizzazione3. Nel buco di memoria epistemica – e forse nella futura opera omnia di Eco – si smarrisce il progetto semiotico della letteratura che era risolutamente deontologico (e dal vetero-Eco robustamente partecipato). La linguistica fa posto alla logica, Saussure a Peirce, la semantica europea alla filosofia anglosassone del linguaggio. Con il lodevole intento di introdurre, nella fusione nucleare del senso letterario, le sbarre di graffite necessarie alla produzione di energia pulita (una metafora alla Eco!). Nulla di meno postmoderno, di più lontano dall’improvvida etichetta affibbiata ai romanzi di Eco.
Sia. Ma sottoponendo la parola letteraria ai criteri veritativi – ripeto: “un modello, per quanto immaginario di verità letterale – la si identifica alla finzione, la sola istanza a cui si può debitamente porre la domanda /vero o falso/? (anche se il limite tra fedeltà e affabulazione non è sempre agevole da tracciare, v. Schaeffer). Il discorso letterario è considerato transitivo, ristretto alla interpretazione sequenziale e pragmatica dei discorsi informativi, schivando così la intransitività della lettura poetica, a vocazione paradigmatica e plurisignificante. L’insieme degli enunciati letterari, sottoposto ad una semiotica del rinvio – il fumo è segno del fuoco – è necessariamente monoplanare; la razionalità inferenziale lo riduce al solo modo indicativo, ad una constatazione di stati e perde od occulta tutte le altre forze, interrogative, imperative, condizionali, profetiche e patetiche che fanno della letteratura un evento nello spazio dei valori. Si smarrisce così l’indicazione jakobsoniana che la funzione del linguaggio, inteso a tutti i suoi livelli di complessità testuale, non si limitata a quella referenziale, ma anche quella intersoggettiva – emotiva, conativa, fatica; senza scordare quella metalinguistica, che non si riduce all’esercizio della lingua, ma partecipa alla sua esplorazione, traduzione e trasformazione. La scelta riduzionista del neo-Eco – il vero e necessario non sta nel mondo cangiante ma nella letteratura! – più che disarmante sembra disarmata. Oltre a trovarsi in controtendenza alla riflessione storica e delle scienze umane, le quali rivendicano la propria infrastruttura narrativa e rivalutano anche la controfattualità degli eventi trascorsi – i futuri del passato, possibili ma non realizzati. (Deluermoz, Singaravélou).
Un esempio, il famoso attentato stendhaliano di Julien Sorel a M.me de Reynal nella chiesa di Verrières (Geninasca). La traiettoria di uno dei due proiettili esplosi dal protagonista del Rosso e il nero è accuratamente descritta; l’altra, è taciuta. Nel suo saggio, Eco lancia un anatema al critico che volesse interpretare il romanzo a partire dalla “sorte di quella palla perduta” e fa appello ai fedeli della rilevanza balistica narrativa. Tuttavia se sappiamo che il secondo colpo ha staccato un “enorme frammento” del pilastro della chiesa, in piena coerenza con le grandi opposizioni assiologiche del romanzo (la Chiesa e la Società) qualche possibile sviluppo semanticamente coerente diventa narrabile. E persino eccitante, se ricordiamo che Julien mira, tremando, alla testa e al cuore, cioè ai due topoi opposti della ragione e della passione. È del colpo portato al capo, luogo dell’amour de tete, che non si saprà più nulla. If then?!
Un’ultima osservazione di riguardo: nella sua dichiarazione di poetica Eco accenna soltanto alla poesia, la quale sembra eccedere il suo modello letterario e le funzioni che rileva o prescrive. La sua attenzione “ontologica” e pragmatica si indirizza ai romanzi, per lo più storici, ed in particolare ai personaggi narrativi. La tralasciata tradizione strutturalista poneva invece la funzione poetica al centro della letterarietà, per la sua modalità “autotelica” d’esplorazione riflessiva di tutti i possibili stati della lingua. Ne consegue che nell'”apostasia” strutturale vien meno il primo e fecondo legato di metodo con cui anche Contini concludeva il progetto della filologia. Un savoir faire critico – che risale ai Formalisti russi, a R. Jakobson e semiologi italiani come C. Segre – che scandaglia e decifra il testo poetico, polisemico e polimorfo, in ogni livello dell’espressione – compresi i suoi interstizi -, in ogni forma dei piani di contenuto. Per dire analiticamente un senso altro da quel che la poesia dice dicendolo. Coglie nel segno J. Lotman quando mostra e dimostra – fin dagli anni 70 – come il testo poetico, per la sua struttura interna e la capacità di creare contesto, è un dispositivo di senso virtuale e sempre reinterpretabile. Una letteratura con tre /t/, non un meccanismo pigro in attesa di lettori modello“. Una macchina memoriale, ma di memora futura, che ci apprende che la morte è anche l’interruzione di un progetto che altri possono riprendere. È la tradizione letteraria, appunto!
Nella poesia la fatalità di quel che detto è detto – la realtà negativa del memento mori di Eco – ci insegna che il destino può essere anche una nuova destinazione e che il fato è, etimologicamente, favola e fama, necessità e libertà, immaginazione e nuovo riconoscimento. Memento vivere, esortò Goethe.


Note

  1. V. la tradizione pragmatica per cui la poesia è uso parassitario del linguaggio. Per Austin ad es. “l’uso del linguaggio in poesia” non ha nulla a che vedere con un atto illocutorio. “Vi sono usi parassitari del linguaggio, ‘non seri’, ‘niente affatto normali’ e l’abituale rinvio al riferimento potrebbe momentaneamente mancare o non tentare per nulla di dar luogo a un atto del tipo perlocutorio; Walt Witman (sic!) non incita seriamente l’aquila della libertà a prendere il volo…”. torna al rimando a questa nota
  2. L’intentio operis consisterebbe in quel che il testo letterario intende comunicare a partire dalla struttura immanente delle significazioni soggiacenti e della sua coerenza testuale. Andrebbe distinta dall’intentio auctoris, il programma cognitivo dell’emittente empirico, non testualizzato, e dalla intentio lectoris: quel che il ricevente intende fare del testo, in funzione della propria porzione enciclopedica di saperi, attese, credenze, desideri, pratiche e così via. torna al rimando a questa nota
  3. Per una lettura circostanziata della svolta filosofica di Eco dal modello semantico differenziale e contrastivo a quello cognitivo, “realista” e cooperativo vedi F. Sedda, che lo caratterizza come un passaggio dalla guerriglia semiologica alla carità interpretativa. Non è convincente chi vede in questo passaggio uno sviluppo dello strutturalismo (Desogus) che ha dato invece, sulla scorta di R. Barthes, le stesure più convincenti dei testi di guerriglia semiotica. È chiaro invece che le aporie della teoria echiana nell’analisi del testo letterario sono da attribuire all’oscillazione tra un primo modello strutturale e successivamente interpretativo: “(i.e., from the characteristics of the text and the interpreter’s presence within it) while in other instances he took a more resolutely interpretive approach (as he concentrated on the cognitive processes that enable the reader to formulate his or her hypotheses on meaning)” (Pisanty). È difficile essere, come si autodefiniva Eco, “cerchiobottista”. torna al rimando a questa nota

Bibliografia

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Eco U., 1990, I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani.
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