Da: Alfabeta2, n. 2, 2014.
1. Che dir non si voglia
Era utopia dello “stupido” 19° secolo “seppellire il cadavere della guerra” (A. Comte). Il nostro Millennio, artificialmente intelligente, continua ad intimare “Fiat mors!”. Come nella dichiarazione di guerra all’Occidente del fu Osama bin Laden (1998): che aggiunse, anticipando i “fausti attacchi” alla “capitale della infedeltà mondiale”: “ci sono giovani islamici che vogliono morire mentre gli occidentali vogliono vivere”.
Questi giovani – uomini, donne e bambini – molti e sempre più efficaci, fanno del loro corpo uno strumento che dà e si dà la morte; in ogni possibile modo, dal bricolage esplosivo fino al progetto di bombe chirurgicamente impiantate. Un’arma che ha una doppia protesi: uomo d’arma e arma d’uomo. Questa prassi terribile, uso minore di una forza maggiore, colma la fossa comune dei media, ma non trova posto tra le parole delle nostre due (in)culture. Sappiamo che in condizioni di conflitto la lingua e le immagini scendono in campo e che le prime vittime sono il senso e il valore; le parole dei contendenti sono proiettate da opposti punti di vista, diventano terminali di strategie. Si può dire quindi che la bomba umana è suicida oppure assassina o entrambi – omicidio aggressivo verso se stessi (Barbagli); che il suo è un gesto privato, psicotico o serial killer, o un’isteria collettiva. O l’attore di una causa politico-tattica, una gesticolazione di terroristi o “estremisti ideologici” (G. Bush). I termini sono sonar e sensori, hanno significanti e significati, ma sono anche censori di valore; un apparato di luoghi comuni verso cui mantenere una tolleranza zero.
Costretti al prestito, mentre in USA parlano di terroristi suicide bombers, noi pronunciamo “Kamikaze”. Vocabolo militare – da scrivere in corsivo e tra virgolette – inventato da soldati americani per designare gli aviatori nipponici che combattevano come siluri del cielo; per fanatismo guerriero, per ritardare la sconfitta e per scarsità di benzina. Spaventevole e spietato che sia, questo però non è terrorismo; è la pratica letale dell’attacco senza scampo, che frequenta da sempre quella forma collettiva di vita che è la guerra tra Stati (con innumerevoli precedenti, v. Pietro Micca). Il “kamikaze” auspicato dal fondatore di al Quaeda non è un soldato, ma un islamico/a che si suicida per uccidere più “ebrei/crociati” possibile, militari o civili. Infligge come danni centrali quelli che la guerra convenzionale dichiara collaterali. Una forma singolare di violenza politica, se così vogliamo definire il terrorismo, che potrebbe prendere altre vie: ad es. Mandela e i suoi avevano attentamente calcolato l’assenza di armi e di vittime nei loro attentati. Una violenza che si integra alla logistica della guerra, ma risponde ad un dispositivo efficace e virale che la nostra cultura giudica incomprensibile e inaccettabile. Per le sue caratteristiche – la fuga è il momento più difficile di un attentato – il kamikaze è un ordigno imprevedibile e arduo da evitare: mira ad un tallone d’Achille. Nonostante le istruzioni dettagliate nel riconoscimento e il controllo dei segni, un generale, Petreus, riconobbe che gli USA “cannot kill [its] way to victory“. Che fare se l’avversario è camuffato nelle apparenze normali e indossa la maschera collettiva della vita quotidiana (E. Goffman)? Se colpisce, senza cercare scampo, obbiettivi militari così come i luoghi di culto, le scuole, uffici pubblici, ristoranti, mercati. Un’arma miniaturizzata rispetto agli esplosivi atomici e convenzionali; diretta, quasi corpo a corpo, rispetto alla mediazione tecnologica dei droni. Integrata al teatro delle operazioni, mette però in causa il monopolio statale della violenza. E se per molti occidentali l’azione “Kamikaze” è militare, per molti arabi invece è un atto di martirio per cui lo status dell’avversario è irrilevante – il colono israeliano è considerato un civile? Soldati nemici in camouflage o immagini devozionali?
Mors mea/mors tua. L’inespiabile evento dell’11 settembre è una tragedia reale ma più ancora simbolica; pregnante e virale nel suo propagarsi. I protagonisti, cd. “Kamikaze” si vogliono testimoni e martiri. Restiamo allora in Palestina, drammatica metonimia del conflitto, zona di frontiera e luogo d’origine dei suicide bombers. (Il fanatismo è una patologia dell’interfaccia tra il “noi e il loro”? Una malattia della pelle delle comunità nelle zone tampone?). Sono Fida’y i giovani i quali -anche nelle dichiarazioni pubbliche che precedono l’atto – affermano di redimere la loro terra col sangue – che nella lingua araba è strettamente connesso all’anima. Un riscatto che si paga e fa pagare come rappresaglia all’avversario, ma che si rivolge a un destinatario invisibile e onnipotente che acconsente però alla cattività della Palestina, e al quale il Fida’y si offre come dono e sfida. Immolandosi o pagando con la moneta della sua carne, come fa l’asceta, il Fida’y – noi traduciamo “guerrigliero”! – diventa Martire: Sahid- forma intensiva del verbo Sahida, “vedere e testimoniare”. L’offerta della propria vita è un Credo, atto fiduciario rivolto al mondo e alla trascendenza: una vocazione che postula l’immortalità dell’anima e la congiunzione post mortem con l’al di là. Per il cd. “kamikaze” anche Dio è testimone! (L’omonimo giapponese era istruito a morire con occhi aperti al nemico e sotto quelli “degli dei e dei compagni”). Il suo gesto può essere piegato a fini di strategici o a mossa mediatizzata, ma va spiegato, se non compreso, anche come dispositivo sacrificale: Fidyat è l’animale destinato al sacrificio e con l’offerta del sangue entra nel circuito comunicativo del trascendente. Il “kamikaze” è un capro espiatorio? Un semioforo, portatore di senso, che afferma con la sua morte altruista un modello di comunità? Come Sansone, giudice biblico che morì con tutti (?) i Filistei per la liberazione d’Israele? Un suicidio assistito o un omicidio commissionato dalla comunità, come l’esecuzione dal vivo degli ostaggi?
2. Necroscopia
Riflettiamo. Nel (dis)umano sacrificio del cd.”Kamikaze”, tutti sono vittime: quelle involontarie e il sacrificatore, l’officiante e i sacrificati. Anche se i disperati gesti vengono manipolati e ridotti ad attentati, a legittima difesa contro il nemico tecnicamente più forte (com’è il caso delle FARC colombiane o delle Tigri Tamil). Si è attivato un sistema sacrificale, a cui le rappresaglie militari possono porre argine, ma non rimedio. Un’espiazione collettiva, una violenza che vorrebbe esorcizzare l’altrui violenza, ma ne suscita l’escalation. Uno scambio simbolico che potrà terminare, così com’è cominciato, ma che è difficile tradurre nei nostri valori. Soprattutto nel suo fare del decesso biologico un micidiale attrattore e vettore; nella disposizione testamentaria del corpo, che è il miglior oggetto di consumo della società omonima. Di qui i tentativi di spiegare la morte auto-inflitta in termini economici o psichiatrici: miseria, ignoranza, sfruttamento, frustrazione, fanatismo nazionalista. ecc. Eppure i cd. “Kamikaze non sono reclutati nelle masse dei diseredati, sono per lo più giovani, scolarizzati, in rapporto immersivo con l’Occidente: “neo-fondamentalisti” più che tradizionalisti. Di qui il fascino, misto d’orrore e sgomento, che uscita in noi -credenti alla fine delle credenze – chiunque si voti a una sanguinaria testimonianza, la quale nella cultura di provenienza è collettiva nell’ammirazione ed esemplare nel gesto – v. le pubbliche sfilate con cinture o diademi di bombe. Un’assunzione di destino e una promessa di gloria assenti nelle comunità come la nostra, indeterministe e aleatorie quanto alla destinazione finale e ai modi del suo compimento. Noi pensiamo le regole come faticosamente patteggiate tra entità autonome, mentre la vittima (sacrificale)/assassina afferma la regola prefissata e trova una sua autonomia decisionale nel seguirla. Con determinazione estrema – decisione, addestramento, prove preliminari a vuoto – che disorienta chi parteggia per il summum ius summa iniuria. Il riscontro non è necessariamente rispetto, ma è certo che il cd. “Kamikaze” introduce una necrospettiva radicale sulla nostra vulnerabilità e sugli investimenti dei nostri capitali simbolici – si pensi all’abolizione della pena statale di morte e del suo pubblico spettacolo. Il suo atto letale d’immolazione è una strategia fatale (Baudrillard): genera un’energia virulenta che cercheremmo invano nei simulacri di rischio artificiale e mediatizzato dei nostri sport estremi. Intenderlo nei suoi termini e interdefinirlo nei campi semantici delle nostre parole è il buon uso dell’eterotopia (Foucault): non spiegare transitivamente l’altro da sé, ma comprendere riflessivamente il nostro impensato. Per valutarlo e giudicarlo.