Da: AA.VV., Jazz in Emilia Romagna. L’arte, la storia, il pubblico, Europe Jazz Network Ed., 2005.
Titolo originale: “Lo imprevisto de improviso”, in Revista de Occidente, a cura di J. Lozano, Madrid, julio-agusto 2005. Ora in Biglietti d’invito per una semiotica marcata, a cura di G. Marrone, Bompiani, 2021.
Questo articolo pone il problema di come articolare una critica semiotica della musica, prendendo come riferimento il problema dell’improvvisazione jazz. A questo fine, risulta di capitale importanza posizionare il punto di vista marcato della disciplina: la semiotica non può costellare di aggettivi più o meno impressionisti le sue analisi come fa certa critica musicale, né seguire facili generalizzazioni come talvolta capita che faccia certa sociologia o ancora questioni legate all’appartenenza razziale. Piuttosto, può approfittare dell’occasione per mettere alla prova la sua metodologia, la propria teoria della cultura, non come mero “stadium” ma sopratutto come “punctum”, ovvero andando a soffermarsi su quei passaggi che “pungono” la persona dietro l’ascoltatore, e lo costringono a prestare orecchio critico a ciò che sta avvenendo sotto i suoi occhi e orecchie.
Se guardata da questo punto di vista l’improvvisazione esce dall’impressionismo della creatività liberata dalle costruzioni e rivela la sua tessitura complessa, rivelandosi come una vera e propria conversazione, fatta di ripetizioni, convocazioni, coordinamento, volti alla costruzione di un collettivo. “L’esistenza del collettivo non consiste nell’eseguire i codici prescritti nella memoria sociale, rispettandone a puntino l’identità di compitazione (come vorrebbe una sociologia durkeimiana), ma, anche e soprattutto, nel praticare insieme, in sintonia e mano a mano, l’emergenza rischiosa di nuove forme del vivere”.