Da: Alfredo Jaar, It is difficult, Catalogo della Mostra antologica e progetto pubblico, Edizioni Corraini, Milano, 2008.
Premessa: iI punto di domanda ovvero il quesito in questione
Leggo, ascolto le domande di A. Jaar che mi vengono dalle due bocche di un Giano bifronte. Domande che sono già risposte ai problemi che mi aiutano a porre, atti che anticipano le repliche e le azioni a venire. Testi linguistici e, per il loro contesto, oggetti trans-estetici che voglio, a mia volta, interrogare.
Le domande ci chiedono risposte, ma sono già forme di risposta ai problemi che sono “questioni proposte”. I requisiti della Cultura – il problema dei 15 Eninciati di A. Jaar – interrogano il semiologo sulle forme e sulle forze dei suoi quesiti. Sono quindi tentato di interrogare la loro intonazione che, nelle interrogative, si alza alla fine della frase, per richiamare l’attenzione e creare un legame. Non sono soltanto richieste di informazione ma segni di interesse. Le domande accadono “tra”: inter-pellazioni o inter-pellanze, premesse che rivolgiamo nell’attesa anticipata d’una risposta ri-promessa. Non rispondere è già una risposta: il “responso” è la radice morale della responsabilità.
Oltre al problema a cui corrisponde, “il senso di una domanda sta nel metodo per trovarvi una risposta” (Wittgenstein). Cioè al modo com’è formulato il nesso tra richiesta e riscontro. I postulati infatti sono “richieste insistenti”.
La lingua è ricca di possibilità di chiedere in funzione della risposte da ottenere. Ci sono interrogative all’indicativo o all’infinito; dirette o indirette; determinate – portano su parte della frase – o indeterminate – sul senso complessivo (Che fare? può essere indeterminata o determinata: Cosa fare? o proprio che cosa?). Le domande sono espresse in modo da ottenere risposte aperte o chiuse, positive o negative – e a volte sono affermazioni categoriche, esclamativi camuffati! Possono anche funzionare come argomentazioni retoriche: la figura della prolessi, contiene già la parola che si aspetta. Il domandare appartiene alla retorica e non alla logica; non si piega a giudizi di verità, i quali intervengono in seguito, sull’insieme formato dalla richiesta e dalla replica.
Le domande infatti sono atti – consigli, offerte, ordini, minacce, promesse, scuse, ecc,- atti semiotici, linguistici o/e visuali. Anche le immagini hanno la forza di provocare, tentare, spaventare o sedurre e ad esse si può replicare, come fa A. Jaar, con la forma e la forza di altre immagini. L’arte di Jaar è una prassi dell’interrogazione.
Rispondere a tono allora vuol dire cambiare le intonazioni o la punteggiatura delle richieste; riformulare le interrogative, suscitare i non detti o cambiare il loro ordine; sfuggire o riproporre le ingiunzioni, rinviare ad altri problemi con altri metodi. Intendo farlo tenendo presente che per la cultura contemporanea sono più urgenti le bussole e le mappe satellitari che i telescopi e i microscopi. Fuor di metafora, se ciò è possibile: mi interessa il senso come valore e direzione più che come significato.
Dopo questa premessa che si interroga sulle domande, mi propongo di ridistribuire così le 10 domande e le 4 affermazioni contenute negli Enunciati di A. Jaar.
Enunciato n. 1: cos’è la cultura?
Enunciato n. 2: cultura dove sei?
Enunciato n. 8: abbiamo dimenticato la cultura?
Enunciato n. 3: la cultura è critica sociale?
Enunciato n. 4: la cultura è necessaria?
Enunciato n. 12: quali sono le responsabilità della cultura?
Enunciato n. 5: la cultura è politica?
Enunciato n. 14: la politica ha bisogno della cultura?
Enunciato n. 6: la religione è cultura?
Enunciato n. 7: una cultura dell’emergenza.
Enunciato n. 9: alla ricerca della cultura a Milano.
Enunciato n. 10: alla ricerca di Gramsci a Milano.
Enunciato n. 11: alla ricerca di Pasolini a Milano.
Enunciato n. 13: l’intellettuale è inutile?
Enunciato n. 15: la cultura fa volare l’Italia?
Nb. Nelle risposte si trovano osservazioni sull’operato di A. Jaar: talora con l’occhio rivolto al continente che gli è caro, l’Africa.
Enunciato 1. Cos’è la cultura?
Enunciato 2. Cultura dove sei?
Enunciato 8. Abbiamo dimenticato la cultura?
Domande difficili e generali – ma nell’Enunciato n. 2 alla cultura si dà del “tu” – ma è facile rispondere alla prima. La questione ontologica, l’Essere della cultura: “memoria extra-genetica del genere umano?”, “storia intellettuale dei popoli?”, ecc. -, non dà risposte soddisfacenti. Va posta insieme ad altre domande sull’ecologia delle pratiche di senso a cui partecipa e che contribuisce ad articolare. Forse il solo modo di descrivere o narrare la cultura è trattarne come un processo: un divenire complesso e conflittuale d’acculturazione.
Meglio chiedere quindi alla Cultura il Dove (Enunciato 2) e il Quando (Enunciato 8). E quale sia il suo Fare: se sia Necessaria (Enunciato 4), e Responsabile (Enunciato 12). E quali siano i contenuti del suo fare: Critica sociale (Enunciato 3) o Politica (Enunciato 5 e 14).
Per il semiologo, Cultura è una parola-valigia pronunciata in una lingua agglutinante. (Se ci fosse una enciclopedia delle culture, Internet l’avrebbe già trasformata in caos-pedia). A meno che non la si pensi come una rete – albero o cespuglio – di sistemi di segni, articolati su quello della lingua, modellante e primario. Sistemi e processi di significazione che caratterizzano le culture e ne (ri)producono i soggetti e gli oggetti, le pratiche e le passioni. Così facendo molto si perde nell’effetto di realtà, anche se molto si recupera nel senso e nel valore. Perché non si tratta di visioni del mondo – chi le cerca ha già la TV! – ma della costruzione in comune di mondi significativi.
Il mondo contemporaneo è multi-naturalista – produce molte nature- e multiculturale. La sua eterogeneità non facilita l’identificazione della cultura come Semio-sfera, info-sfera, grafo-sfera, video-sfera. Le istanze di riconoscimento culturale ci appaiono illeggibili per lo sprofondamento della struttura simbolica che ne reggeva i codici. Il rifiuto della dialettica rende difficile pensare la differenza e il conflitto, col rischio di ricadere nei misticismi confusionali e/o nel rifiuto del passato e del futuro a profitto del subitaneo – del presente continuo. La cultura postmoderna appare come un abito d’Arlecchino: passare da un piano all’altro richiede un’attività continua di traduzione tra serie discorsive.
Di questi tempi, il riconoscimento del valore segnico della cultura avviene secondo il modello del capitale economico e della comunicazione. Le due facce di un pensiero unico o di un codice unico. Non è affatto un “geroglifico sociale”: le sue molteplici, devastanti conseguenze sono mondializzate e sotto gli occhi di tutti, ma risultano difficili da formulare per l’assenza di una lingua condivisa. Non scarseggiano solo i mezzi di produzione, ma anche quelli di definizione.
Le domande di A. Jaar sulla cultura sono redatte in forma impersonale, ma si presentano come gli esiti di un progetto artistico. Risponderò allora che, contro il fragore mediatico e l’omologazione estensiva dell’economia, l’arte contemporanea può rappresentare un intenso momento effettuale; una esperienza della differenza e dell’opposizione da condurre con acutezza e senso di sfida. L’enunciato artistico contiene valori morali e logici e può proporre un’alternativa al culto mediatico ed economico del successo, alla sensibilità pret à porter, alla subcultura della performance sportiva e delle emozioni tiepide. “O l’estetica gioca sul terreno dell’effettuale e del positivo o con lei perisce l’intero orizzonte dei valori simbolici” dice Perniola.
Con la sua forza d’illusione, l’arte può insediarsi nel presente come luogo aperto e in fieri dell’iniziativa e della responsabilità. Tempo di cultura in cui serbare la cura del conoscere, senza scambiarla subito con la curiosità eccitata del consumo. L’anestesia stessa dei significati può diventare la condizione “bianca” per scegliere tra nuovi sensi possibili.
È il caso dell’opera di A. Jaar, quando riesce a destabilizzare l’interesse mondano irrompendo nello spazio pubblico con una comunicazione felicemente insensata rispetto alla doxa comune; bandierine nell’acqua, manifesti con nomi sconosciuti, strane serre di fiori, schermi vuoti, fino alla messa in causa del proprio progetto artistico. O quando si serve della musica (v. Muxima) come l’esercizio di una “ragione sensibile”. La musica, “danza di molecole sonore che rivela la materialità dei moti che solitamente attribuiamo all’anima” […] agisce su tutto il corpo come una propria scena”. (Deleuze). Non ha quindi bisogno di ricorrere all’anima e alla trascendenza “per instaurare rapporti umani nella materia sonora”: Anche A. Jaar se ne serve come un’attività razionale, trasformatrice regolata dei pensieri e degli affetti dell’uomo. Come un dispositivo culturale.
Enunciato 3. La cultura è critica sociale?
Enunciato 4. La cultura è necessaria?
Enunciato 12. Quali sono le responsabilità della cultura?
Se la cultura è un fare – azione e processo – una delle sue dimensioni necessarie è la critica, operazione auto-riflessiva, costruzione di valori collettivi e formulazione di giudizi morali. Quindi la risposta a questa domanda ri-comprende – nel senso dell’intelligibilità e dell’inclusione – gli Enunciati 4 sulla necessità e 12 sulla responsabilità.
Tralasciamo il topos della “morte della critica”, clone malformato della morte dell’arte. È innegabile che la cultura postmoderna pratica un eclettismo euforico e concettuale dove everything goes. Discriminare, mettere in crisi è disagevole nella melassa dei significati deboli. Eppure, mentre si annunciano eutanasie della critica letteraria e artistica, c’è chi pensa di trasporne i metodi nel campo delle scienze (Lévi-Leblond) o auspica una critica interculturale “cosmopolitica” (Beck). O propone di cambiarla in una Clinica, per estenderne la portata alla fenomenologia del corpo sensibile (Deleuze).
Legittimità quindi – necessità e valore – della critica-clinica a condizione di spostare l’accento di intensità. È certo che rendere la liquidazione dei valori ancora più liquida non è più l’unità di crisi del discorso critico. (Contro il linguaggio terrorista, il burocratese “rivoluzionario” dell’intellettuale organico è un vuoto a perdere.) L’intellettuale umanista (v. Enunciato n. 13), l’artista come A. Jaar e il ricercatore delle tecno-scienze operano come piuttosto come intercessori tra livelli di cultura; congegni di un dispositivo “mediante”, traduttori tra livelli e serie pratiche e discorsive. Più dell’acribia critica, il loro ruolo è creare attachment: moltiplicare e svolgere le connessioni e le attinenze (Latour). Senza trasformarsi nel commosso viaggiatore dei media, imprenditore di emozioni vistose e loquaci, come l’indignazione e l’entusiasmo. (“La Circe euforistica amò tramutar gli indagatori in asini”, sentenziava Gadda.)
L’intercessore culturale, più che per il disinteresse estetico o l’oggettività critica, si segnala per un distacco coinvolto e ravvicinato. Sostenuto, com’è il caso di A. Jaar, da una narrazione partecipante, che sta tra la descrizione e la prescrizione. Un racconto, il suo, che ha il tono e i colori di una retorica obliqua e metonimica (Rançière), molto distante dalla frontalità totalizzante dei media e dal loro frastuono. I giudizi di valore non si misurano dalle dichiarazioni nelle interviste, ma per la qualità delle loro costruzioni. C’è nelle installazioni di A. Jaar un rigore senza freddezza, una risolutezza senza oltranzismo; una radicalità senza estremismo; un lieve humour del vero che nomina e denomina, senza sporgere le denunce e invocare i compatimenti che infarciscono la comunicazione massificata.
L’Artista intercessore rimane critico, in quanto mira, nell’ibridazione culturale generalizzata, ad una effettualità della differenza e del conflitto. L’interlocuzione comunicativa che fa risuonare l’info-sfera gli sembra interlocutoria. Accetta per sé e per i suoi destinatari, lo spazio liscio del presente, attenuando le passioni “critiche” del tempo: l’attesa utopica e la malinconia storica. Ma non propala buoni sentimenti; vuol suscitare nel presente “subitaneo” il sentimento dell’iniziativa – la passione dell’hic et nunc e dell’adempimento – e della responsabilità.
La parola Responsabilità, com’è noto, deriva dalla risposta a una richiesta. Ma non giunge dall’etica, dai generici appelli alla giustizia formulati in terza persona. La responsabilità non aggiunge dall’esterno i valori: presta la sua voce alla singolarità morale che ci esorta ad allargare l’ambito delle cose che dipendono da noi. Le opere di A. Jaar invitano alla stima e il rispetto per gli altri uomini e donne, compresi i suoi osservatori e lettori: il requisito per collocarli nella reversibilità dell’io-tu, sottraendoli al ruolo impersonale delle vittime e degli spettatori. Non lo muove l’ingiustizia ma l’iniquità, l’incoerenza, l’assenza di convinzione e di rispetto. Soprattutto, mi sembra, le promesse non mantenute.
Sa che per passare dal possibile – la virtualità dell’iniziativa – all’attualizzazione e alla realizzazione è indispensabile il transito per i circuiti cognitivi; ma perché il sapere e il potere si converta nel dover fare, conviene passare attraverso le istanze sensibili dei corpi e delle loro emozioni. Intercorporeità e interlocuzione che accadono nella singolarità di un incontro con un tempo ed un luogo, con un volto, uno sguardo ed un nome (The Eyes of Gutete Emerita).
Enunciato 5. La cultura è politica?
Enunciato 14. La politica ha bisogno della cultura?
Se la cultura è tessuto – codice o amalgama – di tutti i modi di esistenza e di attività simboliche, non tocca a lei spiegare la politica. È la politica, insieme all’arte, la scienza, la tecnologia, la religione, l’economia che esplicita la cultura.
L’onda della politica però è lunga ed è arduo captarne le frequenze. Riflessione teorica ed esperienza pratica vivono separate in casa. La stima della politica – il tanto che le chiediamo – va di pari ma distante passo, con lo sprezzo che le portiamo e si esprime oggi come ” crisi della rappresentazione”. Eppure nessuno, o pochi, rinuncerebbe alla democrazia e alla libertà, allo stato di diritto e al governo rappresentativo. Anzi si dà per scontata la pretesa di globalizzare gli “ideali” liberali e democratici a tutte le culture del pianeta, anche a quelle passate e future. A questo cosmopolitismo frettoloso, Sloterdjik suggerisce di dotare le truppe americane di un “parlamento gonfiabile istantaneo”. Io aggiungerei un kit di cabine elettorali, da usare di volta in volta come confessionali e laboratori sperimentali. Etnocentrismo? Sì, ma rinunciare a tale progetto non lo sarebbe altrettanto? (Qualche massima generale ci può stare: impedire che si giunga agli stati di eccezione per evitare gli uomini di eccezione…)
Prima di allargare a utopia il nostro punto di vista – “il glocale mi sembra un locale gonfiato” (Serres) – bisogna esercitarsi nella eterotopia: scoprire i nostri impensati e non detti – le nostre pecche – nella comparazione permanente con gli altri. Noi non ridiamo di ciò che di noi fa ridere gli altri e viceversa.
Non tutti si trovano d’accordo per ricevere il pacco dono degli aiuti politici senza ridefinirne il senso e la portata. Quindi, per non farne una tecno-scienza o un culto religioso, la politica va pensata culturalmente: come traduzione-tradimento di interessi e passioni collettive; come mediazione simbolica, attrezzata con un particolare regime di parola e di segni. Questa articolazione singolare tra espressioni significanti e contenuti-valori ha un nome antiquario e calunniato: Retorica. Questa techné sofistica, si adopera, per quanto può, per impedire il rifugio nelle torri d’avorio -” l’arte come attività e contemplazione disinteressata”! O il ripiego nel machiavellismo dei rapporti di forza – “la guerra come continuazione della politica, la scienza che corregge da sé i propri errori, ecc.”! L’enunciazione politica è sempre obliqua e indiretta. Il suo scopo non è la verità ma l’efficacia – anche il vero è una tattica locale! -da valutare per la formazione acrobatica del consenso che “fa” comunità, per e contro le passioni e gli interessi che traduce e tradisce. Le promesse elettorali, come sa l’attuale governo italiano, possono essere atti dichiarativi, senza redistribuire impegni e aspettative e senza garantire alcuna identità narrativa del promettente.
Le Parole e i segni (gesti, immagini) del discorso politico non si misurano quindi con la coerenza epistemica della ragione, ma con il raziocinio locale d’una ragionevole riuscita. E presentano il singolare carattere di essere costantemente ripresi perché ” sono cambiate le circostanze” – quelle che Machiavelli chiamava la Fortuna del bagatto e del barattiere. Il politico è cerchiobottista e voltagabbana, ma per definizione. D’altronde la garanzia di libertà politica è proprio la parola penultima. A nessun esperto, artista, chierico,scienziato spetti l’ultima parola. Gli stati d’emergenza sono eccezioni per confermare le regole. Ecco un principio, Alfredo, da difendere con la lingua e le immagini, ma anche coi denti!
La cultura dunque, contiene la retorica politica come uno dei suoi codici o strati. Difficile da praticare quant’è arduo il compito di esplorarlo. Non è agevole, nel diluvio globale dell’info-sfera contemporanea, reperirne i temi, esplicitarne le articolazioni e le figurazioni, controllare la delega incessante delle sue enunciazioni (ora parlo a nome di…).
Di qui la nota scorciatoia: assegnare al medium – foto, video, manifesto, blog – la forma e la forza del messaggio. È certo che i nuovi media hanno alterato profondamente il gioco politico – il voto è una pausa tra i sondaggi! Ma la sostanza espressiva non basta a render conto della forma e delle forze dei contenuti politici. Il retaggio retorico, che ci viene dal logos conchiuso dalle culture classiche, conserva il suo valore nello spazio frattale e dissipativo della blogos-fera.
Enunciato 6. La religione è cultura?
La risposta, la prima e definitiva a venire in mente o allo spirito, sarebbe: Sì! Se una componente della religiosità è il simbolico ed è questo il “mediante” tra uomini e comunità, la religione è cultura.
Ma le domande fondamentali, generali o integrali, come quelle che A. Jaar propone alla nostra inquietudine e sollecitudine, offrono il destro alle genericità, agli integrismi e al fondamentalismi. Questi quesiti non troviamo mai le nostre menti come pagine, tele o pellicole bianche: queste vanno prima sbiancate dai cliché che le affollano. Un esempio? La teologia civile del dialogo tra religioni, che mi sembra l’oppio delle élites intellettuali.
Poiché il pianeta è semanticamente surriscaldato – e l’epoca ne diventa opaca – una soluzione terminologica potrebbe essere il cambio di genere: dalla religione a “il religioso”. La prima verrebbe così amputata del dogma, del magistero e dei catechismi e ridotta alla dimensione soggettiva d’una credenza o di una fede. È vero che la medicina più diffusa è la preghiera, non l’aspirina, ma questo concerne il “santo” che è sempre relativo, non l’assoluto; e neppure il “sacro”, che è anche confessionale e perderebbe altrimenti molto del suo interesse culturale.
Oppure, con una seconda mossa, potremmo scrivere “culto” piuttosto che religione. Si salvaguarda allora l’aspetto pubblico, nel rispetto delle religioni senza trascendenza – ce ne sono, la Cina è vicina!- ma resterebbe fuori una vaga “spiritualità” (“nella notte spirituale tutte le vacche sono sacre”) o tutt’al più, una filosofia (“Il dio dei filosofi ha solo il nome in comune con il dio che possiamo pregare”, Ricoeur): o la teologia, branca feconda della letteratura fantastica.
Per non ricadere nel profano, che è un sacro desacralizzato, un’alternativa vorrebbe sostituire “la religione” con il lemma o l’entrata “comunione”. Un processo sempre in fieri di messa in comune di segni efficaci – come l’arte – nel tramutare in Noi la somma degli Io, singolari e plurali. Non uno stato quindi, ma un divenire antropologico che genera, integra e trasforma le diverse comunità storiche.
Quando si parla di religione è meglio essere razionali. Per produrre un inter ci vuole un meta (Debray), un piano simbolico mediatore e intercessore, suscettibile d’integrare gli attori visibili della comunità con quelli invisibili (per un principio di precauzione il semiologo li chiama tutti “attanti”!). Un politeismo pratico, preferibile a ogni monoteismo nominale e che nulla ha da spartire con i grumi new age.
Detto questo e ritornando all’Enunciato 6, un problema generale delle religioni come culture è la Laicità, la cui crisi attuale, col visibilio dei suoi tragici effetti, non è problema giuridico ma di civiltà. Non ha torto Augé che, studiando il profetismo africano, osserva che siamo noi oggi a trovarci nelle stesse condizioni di sconvolgimento dei codici comunitari che il nostro colonialismo aveva inflitto all’Africa. Un proposito che dovrebbe piacere a A. Jaar, distante da ogni esotismo o occidentalismo – che è un doppio esotismo.
La laicità, non il laicismo, è un fatto di cultura e il suo rinnovo implica una riorganizzazione della grammatica e del lessico simbolico di comunità politeiste nelle credenze e nei valori. Ne assicura la convivenza, costruendo una comune identità narrativa attraverso dispositivi civili multiformi, da inventare a partire dai diritti dell’uomo e dagli obblighi del cittadino. Non c’è opposizione tra laico e religioso. Se la religione è “un sistema solidale di credenze e di pratiche relative alle cose sacre” (Durkheim), deve pur esistere una religione civile che assicuri la mediazione turbolenta e metastabile tra istanza generale e interessi particolari.
Questa laicità è una parte integrante delle culture del diritto e della politica, dei culti e delle arti.
Enunciato 7. Una cultura dell’emergenza.
È naturale trasportare questa frase dall’indicativo al modo interrogativo: cosa significa l’emergenza in cultura?
Le due culture, l’umanistica e la scientifica, non si fanno la stessa idea e non danno lo stesso senso all’Emergenza.
Nelle scienze naturali, ma non disumane, è guerra aperta tra i Riduzionisti – che si interessano al tutto se questo promette di farsi spiegare dalle sue parti e gli Olisti – per cui il tutto ha il fine proprio di manifestare proprietà irriducibili alle parti. Di questa guerra teorica – che si estende dall’acqua alla vita, dal traffico alla borsa valori – possiamo trarre se non profitto, almeno qualche insegnamento per le emergenze planetarie e sociali, naturali e innaturali? Senza confondere i termini – le Catastrofi di Thom sono manifestazioni di discontinuità, non tragedie di grande portata! – l’emergenza epistemologica ci insegna a non confondere cause e condizioni. E ci invita implicitamente ad agire per interdefinire il tutto e le parti, negoziando la loro reciproca spiegazione. Operazione necessaria soprattutto nei casi di emergenza, costituiti da comportamenti e fenomeni ad alto rischio sulla cui natura c’è divergenza di linguaggio. Nei momenti di emergenza politica, come quelli specialmente crudeli di decolonizzazione e/o di de-federalizzazione, è urgente, come fa A. Jaar, rispondere in termini di emergenza culturale. Non parlo degli istanti di eccitazione mediatica, ma dei tempi duri, degli anni di piombo; quando non resta alternativa tra fare il torto e subirlo, quando gli stessi segni pace diventano armi improprie e sono le soluzioni adottate a creare nuovi rischi emergenti. Così come accade nelle “guerre di pace”, antiterroristiche, condotte a nome dei diritti dell’uomo e che hanno preso il posto di quelle coloniali. Guerre che ipostatizzano le cause – la difesa sacrosanta dei diritti umani – senza negoziare le condizioni dell’alterità culturale. Tralasciando, ad es., che nella Carta africana dei diritti degli uomini e dei popoli, i diritti, elaborati a partire dai costumi tradizionali di tutte le comunità africane, sono fondati su principi non individualistici e decisioni prese per consenso – e non necessariamente per elezione. Anche se neppure questo è ius cogens, causa inderogabile: le tradizioni non sono stati ma processi.
Sono necessarie oggi – mentre è in corso la guerra tra le due mani invisibili e gemelle, quella del terrorismo e quella del capitalismo – soluzioni innovative, ispirate da “abilità semiotiche che consentono di interpretare e comprendere le immagini di sé e degli estranei elaborate da altri diversi” e “l’apertura nei confronti di altre persone e culture e una disponibilità/capacità di percepire singoli componenti delle lingue e delle culture ‘altrui’ come arricchimento proprio” (Beck). Eterotopia, diremmo, esplorazione delle pre-condizioni e non cause dell’innovazione, la quale è pratica dell’emergenza. Si richiede, in condizioni catastrofiche, di ri-formulare i problemi, ri-configurare i quesiti ri-descrivendoli e ri-presentandoli in modo originale e risolvendoli, potendo, in modo imprevisto. Nel grande racconto della mondializzazione o globalizzazione che dir si voglia, sono questi i compiti emergenti, culturali e politici, delle arti e delle scienze.
Enunciati 9-10-11. La serie di Milano.
Enunciato 9. Alla ricerca della cultura a Milano.
Ci sono domande a cui l’interpellato ha poco da ridire. Non sono in grado di coprire l’insieme delle singolarità milanesi col nome di città. Non posso quindi, come Savinio, ascoltarne il cuore: con l’eccezione forse di qualche intermittenze della sua comunicazione, di alcuni dei suoi molti lapsus culturali e morali. Non saprei cercare la cultura a Milano a meno di ricevere le indicazioni oblique di una caccia al tesoro. Con la scomparsa dell’amico milanese Emilio Tadini mi è venuto meno il codice d’accesso ai vuoti di memoria di questa città.
È certo che non è più il tempo di Miracolo a Milano, dell’utopia felice – volo con le scope e “un po’ di terra per vivere e morir”. La città meneghina della solidarietà interpersonale dei cittadini ha ceduto da tempo il posto all’impersonalità metropolitana.
È altrettanto certo che gli intellettuali di questa città europea sono stati sorpresi da una crescita sociale inesorabile e da un’ascesa politica resistibile. E dagli effetti di inaudita complessità suscitati dai fenomeni tecnici e da quelli mediatici e che, almeno questi, avevano pur lucidamente (e verbosamente) analizzato.
Tra gli anticipatori della complessità in cui gli intellettuali si sono trovati impigliati, mi resta in mente, oltre al felice Paradosso di Porta Ludovica del giovane U. Eco, la Meditazione Milanese di C. E. Gadda. Il solo che ha pensato, a Roma e in stato di metafora, il “pasticciaccio brutto” in via di aggrovigliarsi nella sua città. Gadda, scrittore filosofo, aveva compreso le turbolenze, fatte di vortici e d’urti, deformatrici di ogni sistema e che conducono al “grumo, gomitolo o garbuglio di relazioni e filamenti e complessità” caratteristici della comunicazione contemporanea. Per lui “l’ipotiposi della catena delle cause va emendata e guarita […] con quella di una maglia o rete” di significati.
Il confronto col Gran Lombardo – A. Jaar troverebbe nella Meditazione, risposte “spinoziste” alle sue domande sulla felicità – è sempre ingeneroso. Tuttavia molti intellettuali milanesi non sembrano più personaggi concettuali ma testimonial editoriali di una old economy minacciata. Sembra allentato anche il confronto eterotopico con altre città – Parigi, Londra – destinato ad intendere meglio le aporie della propria. La crisi morale di Milano non sta solo nella corruzione, ma nella perdita di iniziativa. (Mi chiedo: “c’è un attesa artistica collettiva per la grande Esposizione”?)
L’arte, non la moda, può essere un segnale piantato in territorio milanese e puntato verso l’altrove. Anche verso l’inumano o il post-umano, che ci pensa mentre non lo pensiamo. Uno di questi è la mostra di A. Jaar e l’attività che promette Hangar Bicocca. Ma ci sono segni inquietanti.
Anche l’arte contemporanea è figlia della cifra e del clamore, ma è stata sorretta fino ad ora dalla competenza metalinguistica di una comprensione e spiegazione critica che sembra affievolita, se non smarrita, nella pratica delle attività curatoriali. Una installazione di M. Cattelan (5 maggio 2004) – le effigi di tre bambini appesi a una quercia in una piazza milanese – ha provocato un profluvio di trivialità – accuse di pedofilia, sadismo, esibizionismo ed altre amenità – da parte di personalità civili, religiose, politiche e mediatiche. Senza riflettere un istante, criticamente, alla modalità testuali dell’installazione – impiccagione ad una grande quercia di tre fantocci dagli occhi aperti e dai piedi nudi: e disposti In modo che quello centrale, in abito più chiaro degli altri, staccasse sui due disposti in parallelo. E in effetti, come concludere, senza strumenti culturali, alla ragionevole ipotesi della variante pinocchiesca d’una crocefissione?
Riformulo quindi la domanda dell’Enunciato 9: “sarà l”arte a richiedere alla cultura milanese l’urgenza di spiegare meglio per comprendere di più?”
Cambierò poi il senso degli Enunciati 10 e 11: “Alla ricerca di Gramsci e di Pasolini a Milano” che, come il n. 9, non presentano punti di domanda. Mi propongo di toccare il problema in alcuni punti caldi e riproporli come domande, ascoltandovi un’intonazione dominante: “Cosa c’è da cercare in Gramsci e Pasolini?” più che sul locativo, “a Milano”.
Enunciato 10. Alla ricerca di Gramsci a Milano.
La domanda suona oggi perfettamente provocatoria ed è l’effetto che A. Jaar si prefigge. In tempi post-moderni e post-comunisti, tempi di patchwork testuali – citazioni e ibridazioni -, una risposta potrebbe andar da sé: perché no? Ma il quesito è più esigente o può essere reso tale dall’interlocutore. Per me, linguista e semiologo, non è una vexata questio, ma un preciso invito di A. Jaar ad una euristica, a una procedura di riscoperta.
Porta, a dir poco, sulla cultura e sulla lingua, sugli intellettuali e la traduzione, sulla passione e il conflitto, l’iniziativa e l’esegesi! Tra i vuoti di memoria, rammento il peso specifico della lingua per la cultura. Nel gergo di oggi è il sistema modellante primario su cui sono costruiti tutti quelli secondari. Gramsci confrontava l’accademia della Crusca – “linguaiola” perché dedita tirare la lingua a guardarsene la punta e l’Accademia francese – organizzazione d’alta cultura, dove gli Immortali guardavano il loro linguaggio come una concezione del mondo, “fase elementare, popolare e nazionale dell’unità della civiltà francese”. Or non è più quel tempo e quell’età, ma questo era il compito gramsciano dell’intellettuale: “tradurre” le “trasformazioni molecolari” – non le esplosioni rivoluzionarie – della lingua della comunità per giungere ad una langue di cultura. Questa dipenderebbe dalla parole, dall’iniziativa di un singolo, artista o scienziato, e la sua “razionalità” consisterebbe nell’accettazione permanente “del gran numero, un buon senso, una concezione del mondo, con un’etica conforme alla sua struttura, un filosofia creativa capace di convertirsi in una norma attiva di condotta”. La traducibilità dei linguaggi filosofici e scientifici, che oggi ci assilla, era per Gramsci un momento critico, catartico, di questa conversione, assicurata da intellettuali mediatori. Tutti gli uomini per lui sono intellettuali ma contano come tali solo quando agiscono come intercessori tra discorsi, interessi e desideri. Tradurre tuttavia non è un atto innocente e presuppone un punto di vista, una esegesi, temine che contiene nella sua radice l'”egemonia”. L”esegesi insomma non è il dominio, ma l’egemonia interpretativa del senso e richiede all’intellettuale, nel suo esercizio semiotico, non solo di sapere ma di credere e di sentire. Per Gramsci, la passione è lo shifter, il dispositivo connettore tra intellettuali e collettività. Non la passione del pedante che è “altrettanto ridicola e pericolosa che il settarismo e la demagogia più sfrenata”, ma quella che conduce e mantiene l’iniziativa nella cornice di un confronto ininterrotto. Non c’è passione senza antagonismo (l’autore delle Lettere dal Carcere dà come esempio il punto d’onore della malavita!). Sottolinerei che anche per la semantica e la retorica contemporanea il senso è differenziale e oppositivo e il racconto è lo svolgimento e la trasformazione delle contraddizioni.
Abbiamo detto che per me la risposta al quesito è: “cultura, intellettuali, lingua, la traduzione, passione, conflitto, iniziativa, esegesi”. Ho tralasciato qualcosa che può interpellare A. Jaar: una pagina sulla “nazione Africana” negli Intellettuali e l’organizzazione della cultura. E precisamente “sugli intellettuali ne(g)ri che assorbono la cultura e la tecnica americana” e “l’influsso che […] possono esercitare sulle masse arretrate dell’Africa”. “Al ritorno in Africa degli elementi intellettuali più indipendenti ed energici nascerebbero due questioni fondamentali 1) della lingua: cioè l’inglese potrebbe diventare la lingua colta dell’Africa, unificatrice dell’esistente pulviscolo dei dialetti. 2) Se questo strato intellettuale possa avere la capacità assimilatrice e organizzatrice in tal misura da far diventare ‘nazionale’ l’attuale primitivo sentimento di razza disprezzata, innalzando il continente africano al mito e alla funzione di patria di tutti i neri”. La Liberia come Piemonte africano! Improbabile da credere, ma val la pena di sperare almeno, ad un presidente USA d’origine africana?
Abitiamo un tempo cauto: non è più quello futuribile del “non ancòra”, – il sole dell’avvenire – ma il presente dell'”ancòra”. Non amiamo più andare contro corrente, contro l’incompletezza del reale. Meglio: non usiamo più l’irrealtà, l’illusione come vettore di una realtà a venire anticipandone i risultati. Siamo, per Sloterdijk, in uno stato di “sospensione mobile e surplace”; ma continuiamo a cercare, nella complessità globale, i “segni precursori d’un avvenire non dato”.
Enunciato 11. Alla ricerca di Pasolini a Milano.
In una Lettera aperta del ’66, rivolta ai “Cari amici, cari critici milanesi”, Pasolini (PPP) li invitata in tono pressante ad “accettare molte nuove realtà: lo scandalo del Terzo Mondo, i Cinesi e soprattutto l’immensità della storia umana e la fine del mondo, con l’implicata religiosità, che sono l’altro tema del mio film”. È il depliant che accompagnava la prima milanese al Cinema Ritz del suo capolavoro Uccellacci e uccellini – che rivendicava come il più nuovo e più puro. Un film picaresco, riflessione ideo-comica – PPP, come Nietzche, preferiva al Mit-Leiden, il compatire, il Mit-Lachen il ridere assieme – sulla crisi del marxismo, il suo ridiventare uno spettro che si aggira per il mondo. Crisi anche delle forme espressive di Brecht e Rossellini – quella che Antonioni chiamava l’abbandono della ruota, cioè dell’estetica di Ladri di biciclette. Il film, sottoposto da PPP alla revisione preventiva di un ordine religioso, ha un valore sorprendente di anticipazione: tradurremmo così la citazione più sopra: il postcolonialismo, l’eccezione cinese, la condizione rischiosa del pianeta, la religione.
Le periferie del film, traversate da vie intitolate a sconosciuti operai e irte di segnali per gli angoli più lontani del mondo, presentano una sommessa analogia con i nomi comuni degli uomini, delle donne e delle città nelle installazioni “africane” di A. Jaar, a cui suggerisco di spedire ai suoi corrispondenti la Lettera aperta di PPP.
Ma è soprattutto la posizione dell’intellettuale (v. Enunciato 13) che interessa l’interrogazione culturale. Il corvo, l’uccellaccio che accompagna delle sue asfissianti analisi Totò e Ninetto, non è soltanto il terzo membro di una sarcastica trinità, ma “la metafora irregolare dell’autore” (PPP). È l’oggetto di una incorporazione crudele che è anche l’amara metafora della “distacco coinvolto dell’intellettuale “organico” (PPP).
Non mi sembra che, a distanza di quarant’anni, i cari amici e critici milanesi abbiano assimilato e riflettuto quanto basta ad alcune forme del discorso di PPP: l’Immagine, il Discorso Indiretto libero, l’Illusione. Il domandare di A. Jaar dà l’occasione per farlo.
(i) L’immagine. Nella sua riflessione sui segni – che Deleuze ha tradotto nel suo progetto di Semiotica pura dell’immagine filmica – PPP ha anticipato i ruolo centrale e problematico del visuale nella (in)cultura di oggi. Attraverso “l’interruzione magico-simbolica del sistema di segni linguistici”, Pasolini motivava il suo abbandono della scrittura verbale per il segno più “arcaico” dell’immagine. (Si chiedeva,nel ’66!, se “passare dalla scrittura letteraria al cinema fosse un caso di modernità estrema o di regresso”.) L’im-segno, parola sua -, era già pensato come il tentativo di ritrovare l’arcaica forza della suggestione eidetica per la veemenza trasformatrice dei rapporti fisici in relazioni culturali. Sembra che a Milano solo la pubblicità e la politica di destra abbia saputo trarne l’effettualità degli esiti. A sinistra il sabotaggio dell’immagine da parte di coloro che se ne servono professionalmente è pari alla capacità dei politici di sabotare la politica.
(ii) Il discorso indiretto libero. La necessità del discorso critico di passare oltre la vieta opposizione personale vs impersonale – l’oggettività discorsiva o l’assunzione soggettiva, l’analisi o la testimonianza – per un nuovo stile enunciativo. Una tratto di stile, non di sintassi, in cui la voce narrante è indistinguibile da quella del personaggio narrato. Una quarta persona, del singolare e del plurale, capace di un coinvolgimento distaccato. Mi sembra sia anche il principio o la massima che segue o guida Muxima di A. Jaar.
(iii) L’Illusione. La sua forza cogente sulla realtà. “Il cinema, scrive PPP, “è fondato sul tempo: e obbedisce perciò alla stesse regole della vita: le regole di un’illusione. […] Chi […] non l’accetta, anziché entrare in una fase di maggiore realtà, perde la presenza della realtà: la quale dunque consiste unicamente in questa illusione:” Illusione qui non significa il simulacro o l’irreale, ma il possibile che fa breccia in un mondo troppo accettato e sensato. “Il possibile, altrimenti soffoco”, diceva Deleuze. La passione, che anima A. Jaar, non è riservata ai soli fatti oggettivi, per i loro effetti immediati di tragica turbolenza, ma all’evento come fatalità e destino. Il senso urgente di inventare nuove illusioni. Un modo “effettuale” di differenziarsi dalla informazione mediatizzata, che propaga l’irresponsabilità come un modo perverso di solidarietà collettiva.
Enunciato 13. L’intellettuale è inutile?
Non è una domanda provocatoria: il suo modo è quasi indicativo. Si è detto a sazietà che nei tempi della modernità riflessiva – che ci conducono, stressati e depressi, dal presente al presente – l’I.O, Intellettuale Organico è in mutazione cognitiva e politica. Per quanto attiene le conoscenze è un I.O.G.M., Geneticamente Modificato dalle implicazioni delle scienze e delle nuove tecnologie, invise ed inaudite rispetto ai suoi saperi, diventati tradizionali. Spodestato dall’antico monopolio dell’informazione, può sopravvivere solo per la qualità delle scelte di valore e di traduzione creativa.
Inoltre gli intellettuali che si autodefiniscono tali e si offrono come “coscienza etica”, hanno un bel proporsi come consiglieri del Principe. A parte le scaramucce mediatiche, è sempre più difficile, per gli imprenditori di moralità, decidere chi sia il principe e dove risieda un potere dotato d’effettiva volontà politica.
(Per questo non firmo petizioni, la modalità di presenza o la “comparsata” più richiesta agli intellettuali. Sottoscrivere è, per lo più, testimonianza soggettiva e oggettiva complicità d’una effettiva impotenza.)
A questo fading dei poteri, l’intellettuale – un lemma che pare già inadeguato ai dilemmi della globalizzazione – può replicare diversamente. Con una tattica sinuosa, nello stile metonimico di A. Jaar, volto non all’impatto ma all’impregnazione, alla meditazione e non alla (pseudo-)rivelazione. Oppure con la veemenza teorica delle interpretazioni estreme. Una tattica radicale di effrazione alla verosimiglianza dei fatti e alle evidenze che ci vengono presentate come realtà. In questo caso l’analisi intellettuale è antifrastica e “catastrofica”: per uscire dal soggiorno obbligato del reale, capillarmente offerto dai media e dalle discipline ancillari al mercato; e per essere all’altezza dell’ironia enigmatica connaturata agli avvenimenti (Baudrillard). Allo scopo di sottrarre al modello economico le esperienze intensive del “religioso”, Latour suggerisce di prendere per norma tutto quello che l’economia prende come eccezioni alle sue regole.
All’intellettuale post-moderno conviene il pensiero-avvenimento, in grado di trattare le forme illusorie con la forza stessa dell’illusione; l’esatto contrario delle spiegazioni “chiavi in mano” e dei fondi di magazzino citazionisti.
Non si tratta evidentemente di Resistenza, un concetto statico e codista che invita solo ad opporsi cioè a porsi sul terreno scelto dagli antagonisti. Sempre meglio che la desistenza, certo: nel reagire c’è “il segnale d’inizio, una decisione originaria, una scelta di campo e situazione” (Starobinski). La resistenza passiva però difende solo interessi consolidati: chiede di mantenere un’assistenza. La resistenza va attivata; la difesa è in vantaggio solo quando è fatta di tanti movimenti di contrattacco. Altrimenti Resistere è reattivo, se non reazionario. Quando non è impregnata di risposte, la Resistenza non è idea-forza, ma eufemismo. Un luogo di ripensamenti deboli e di risentimenti, come l’indignazione e la compassione. Servono invece passioni antagoniste, spirito di ricerca, altruismo. E non è neppur facile a dire.
Ripensare radicalmente la Resistenza è l’occasione, per gli intellettuali italiani, rivedere il senso della cultura politica.
Enunciato 15. La cultura fa volare l’Italia?
Ogni metafora è un mito in miniatura, l’applicazione di nanotecnologie retoriche alla mitologia. Quella ascensionale del volo partecipa ad un immaginario “assiomatico”: mescola verticalità e valorizzazione, volontà e responsabilità. “Immaginarsi un mondo è sentirsi responsabile, moralmente responsabile di questo mondo. Ogni dottrina della causalità immaginaria è una dottrina della responsabilità” (Bachelard).
Risponderei allora ad A. Jaar, distinguendo i voli dell’Italia da quelli sull’Italia.
Comincio con un verso: “È l’Italia, l’Italia che vola”, che non è un decasillabo di D’Annunzio, ma d’un insospettabile poeta intimista, Pascoli, all’occasione della guerra di Libia! Volerà sì, sollevata o zavorrata dalla sua cultura, ma ci sono voli leggeri e voli pesanti e l’Italia di oggi ha il volo greve e grave. Nostalgia dell’altezza e/o paura di cadere? Nessuno l’ha espresso meglio di un artista come L. Fabro, con la sue Italie appese, dorate, stropicciate e geograficamente rovesciate dal Sud al Nord.
Quanto ai voli sull’Italia ricordo che il Manifesto tecnico della letteratura futurista (1912) è stato redatto da quello stesso Marinetti che “spiralava” poi sul golfo di La Spezia, insieme ad altri aeropittori. Nel manifesto, la nuova estetica era dettata dall'”elica turbinante […] a duecento metri sopra i possenti fumaioli di Milano”, perché è “in aeroplano, seduto sul cilindro della benzina, scaldato il ventre dalla testa dell’aviatore” che il poeta futurista ha sentito “l’inanità ridicola della vecchia sintassi ereditata da Omero”. E deciso di scrivere-disegnare in stile parolibero.
Di qui, forse, la diffidenza di C. E. Gadda – esperto anche lui in sovversioni sintattiche – per i voli pindarici sull’Italia, come quello carducciano, piemontese e celebre di Alfieri: “Venne quel grande, come il grande augello ond’ebbe nome, e a l’umile paese / sopra volando, fulvo, irrequïeto, / – Italia, Italia – / egli gridava a’ dissueti orecchi, / a i pigri cuori, a gli animi giacenti. / – Italia, Italia – rispondeano l’urne / d’Arquà e Ravenna: / e sotto il volo scricchiolaron l’ossa / sé ricercanti lungo il cimitero / de la fatal penisola”. Gadda si inquietava ragionevolmente della tenuta vestimentaria del vate volante – nudo? con le scarpe? – soprattutto se visto da sotto, dall’occhio d’uno spettatore al suolo, ignaro di tanto volo.
A. Jaar mi ha inteso: chi fa installazioni sa che lo stallo in volo equivale a precipitare. Sulle metafore del volo alita il mio scetticismo – la diffidenza che viene dall’esperienza – sul “trasformismo molecolare” (Gramsci) degli intellettuali. Ma non per questo ricuso la sua immagine visionaria, appropriata in un paese che sembra conoscere solo il verbo “visionare”.
Le metafore aeree sono vettoriali e valoriali. Auspicare il volo in tempi di involuzione è un augurio che, nel presente, punta all”a-venire.
Epilogo
Domandare non è un demandare. Dopo queste risposte e tutte le altre che riceverai, Alfredo, come riscriverai le tue domande?
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