Da: Francesca Castellani, Eleonora Charans (a cura di), Crocevia Biennale, Scalpendi Editore, Milano, 2017.
1. Premessa. Condotte sulla Biennale
La Biennale è quello che Marcel Mauss (1950) chiamava un «fenomeno sociale totale» dove troviamo estetica, economia, turismo. Perché non diventi una tuttologia e non sia una semplice somma di saperi, essa deve richiamarsi a un metodo. «In che senso?» ci si chiederà. In effetti bisogna intendersi sulla parola “metodo”, il quale implica un percorso da compiere, assunto da una particolare prospettiva. È il punto di vista sul percorso, non è soltanto il suo attraversamento o la sua esposizione.
Nel caso della Biennale e delle arti, questa dimensione “metariflessiva” pone problemi considerevoli: il primo si esplicita nella seguente domanda: è possibile prendere le distanze dai funzionamenti attuali dell’arte contemporanea per poterla pensare? È la denuncia di una crisi del discorso critico, dovuto in larga parte al diffuso carattere embedded – di scorta – della critica contemporanea, cioè al suo essere inclusa nelle attività del sistema artistico stesso. Questione delicata, che influenza anche la storicizzazione dell’oggetto. Una maniera di affrontarla, ponendo un certo distacco tra sé e il «fenomeno sociale totale», è quella servirsi di un modello. Rileggendo l’opera di un grande semiologo della cultura, Jurij Lotman, si scopre infatti che la metafora della semiosfera, l’insieme dei segni e dei linguaggi che caratterizzano una certa epoca, è per lui il museo:
immaginiamo la sala di un museo nella quale siano esposti oggetti appartenenti a secoli diversi, inscrizioni in lingue note e ignote, istruzioni per la decifrazione, un testo esplicativo redatto dagli organizzatori, gli schemi di itinerari per la visita della mostra, le regole di comportamento per i visitatori. Se vi collochiamo anche i visitatori con i loro mondi semiotici, avremo qualcosa che ricorda il quadro della semiosfera1.
Un secondo ordine di problemi concerne invece l’approccio alla ricerca: il tipo di programma, la scelta dei criteri di pertinenza, la selezione di un corpus. L’epistemologo Thomas Kuhn, da buon americano, dava una valutazione pragmatica della questione, sostenendo che un buon paradigma di ricerca deve essere una promessa di successo, cioè qualcosa che abbia in nuce un risultato positivo2. Si delineano diversi (meta-)odos o modi di condotta. Uno di questi è la definizione di termini simbolici comuni, una scrittura condivisa, come si usa in fisica o in matematica. Un cognotivista come Semir Zeki sostiene che, per capire come funzionano le opere, basta conoscere la struttura cerebrale: qui risiederebbe il fondamento di un simbolismo comune, per una tecnica notazione. Non è il caso delle arti, lo sappiamo. In alternativa ci si può basare su un Organon di concetti. La nozione è di Kant (1781) e allude alle istruzioni d’uso, ed è l’antonimo del Canone, inteso insieme di norme stabili. La semiotica offre una serie di concetti-istruzioni, è quindi un organon, non un canone. Ma un buon paradigma di ricerca deve avere, oltre a dei concetti condivisi, anche degli esempi condivisi, utili ad affinare l’organon e a rinfrescarne la terminologia. È quel che si è tentato di fare con i primi due numeri dei “Quaderni della Biennale”3. Uno degli esempi condivisi più intriganti è frutto di un dibattito aperto da Heidegger (1935) sulle versioni pittoriche degli “zoccoli” di van Gogh, ripreso da Meyer Schapiro (1968) e poi da Derrida (1978). Ma è possibile menzionare anche i casi della Tempesta di Giorgione, totem delle dispute iconologiche, e dell’Olympia di Manet, che ruota intorno al quesito: «è lì che comincia l’arte contemporanea?». (Esempio condiviso vuol dire non che siamo tutti d’accordo, ma che siamo d’accordo per essere eventualmente in disaccordo).
2. Titolare le Biennali
Un aspetto che non manca di suscitare interesse, quando si considerano le Biennali, è che si tratta di mostre denominate, intitolate. Negli anni Settanta è cominciato l’uso dei titoli, che da allora a oggi non è mai venuto meno, tranne per un’edizione, la XLIII, nel 1988. Sono dei logoi, come si dice elegantemente, che dovrebbero promuovere la mostra o identificarla, attraverso uno slogan oppure un concept.(Con i limiti che esemplificheremmo così: un giorno, a un insistente scrittore che lo esortava a suggerirgli un titolo per un suo romanzo, Bernard Shaw chiese: «ci sono cravatte?». E l’altro: «no, non parlo di cravatte». «Ombelichi? Se ne trovano di ombelichi?». «No, non ci sono ombelichi». «Perfetto, lo chiami allora: né cravatte né ombelichi»).
Il problema della titolazione è oggi significativo: i titoli possono essere metasemiotici, se riassumono quel che vi si indica, o invece soltanto evocativi o mirati a far sensazione: tentare, sedurre, provocare, ecc. Deleuze (1991, pp. 146-148), dal canto suo, ha rilevato la dimensione mercantile dei concetti. Parafrasando il suo discorso, ci sarebbero tre modi per giocare il concetto in senso performativo. Il primo è l’Enciclopedia, luogo dove vengono classificati i concetti; il secondo è la Formazione Professionale, cioè l’utilizzo dei concetti a scopo di marketing. Nella visione deleuziana, qui il concept è l’insieme delle presentazioni di un prodotto. La Biennale può essere trattata come un prodotto – storico, scientifico, artistico, mediatico – il cui evento è la mostra, compresi gli scambi di idee che dovrebbero aver luogo nel suo corso. Gli eventi sono le mostre e i concetti sono i prodotti in essa commerciabili. Per Deleuze però ci sarebbe la terza alternativa all’Enciclopedia e alla Formazione Professionale, ed è la Pedagogia, la quale è appunto il movente della nostra rivista.
Il “Quaderno della Biennale” vorrebbe porre riparo al difetto dei cataloghi, già pronti prima dell’inaugurazione di ogni mostra, e può focalizzare lo sguardo su opere che oggi per status sono sempre più performative, percepibili in situ. Non si preoccupa di essere sulla cresta dell’onda; preferisce invece coltivare una riflessione ex post, nei tempi maturi successivi alla “vernice”. La Biennale infatti è un evento fatto per essere goduto e scordato, da non conservare in memoria. Trascorsi i primi tre giorni dell’inaugurazione, artisti e operatori si spostano, nel nuovo Grand Tour, a Kassel oppure a Basel, a Miami e della “Serenissima” gradualmente ci si dimentica. Eppure il suo catalogo, ben poco letto, resta il libro d’arte più venduto al mondo. (Sarebbe interessante realizzare un’etnografia del visitatore che tenga conto delle dinamiche di senso nel bookshop).
Il nostro “Quaderno” è intenzionalmente paradossale rispetto a queste caratteristiche: sceglie di essere un periodico sull’ultima Biennale di Venezia, differito e pubblicato prima della prossima edizione della Mostra. Un atteggiamento forse inattuale, adatto però a una politica della ricerca. È la nostra “neutralità impegnata”: ci si impegna nei confronti della Biennale, ma in maniera imparziale, a vocazione scientifica, non al fine di promuoverla. Con un precedente: l’esposizione veneziana aveva una sua rivista, molto prestigiosa, nata nel 1954 e che ha chiuso i battenti nel 1970. Da quel momento non si è mai pensato di rilanciarla, neanche con una nuova formula, come avrebbe potuto essere appunto il Quaderno. Il tentativo si è incagliato nelle acque lagunari, basse e talora stagnanti.
3. Lo stato dell’arte
La Biennale del 2011 ha registrato un incremento del 18% di visitatori, superando la soglia dei 440.000. C’erano 77 padiglioni e 44 eventi collaterali. Tale ripresa è anche merito di un simposio organizzato da Robert Storr in previsione della “sua” Biennale del 2007, sul futuro delle macro rassegne. Nel 2010 un volume dell’Unità di Ricerca IUAV Fare mostre ha proposto un bilancio su alcuni temi cardine della Biennale4. Quali i principi da estrapolare?
3.1. Divergenze
Agli antipodi dell’opzione votata dal comitato scientifico del “Quaderno”, si scopre che molti studiosi di arte contemporanea guardano all’insieme – la realizzazione della Mostra e la sua conformità su progetti dichiarati – ma molto meno alle opere. Con il telescopio e non con il microscopio. Per esempio Natalie Heinich, sociologa allieva di Bourdieu, appassionata di “mitologie” sugli autori, ha riflettuto sullo star system nelle arti, cioè sulla costruzione delle grandi personalità. Evita però l’analisi delle opere per partito preso; oggettiva così il contesto come silenziatore delle opere5. Eppure, se c’è un luogo di informazione sul contesto che è decisivo da un punto di vista culturale e sociale, quello è l’opera. L’opera è il maggiore informatore sui propri intorni – contesti e “dintorni sociali”. (D’altra parte sociologi quali Alain Touraine sostengono che il concetto di “società” è defunto e la questione da porre è il rapporto tra “collettività”, da un lato, e “arti” dall’altro). Dal canto nostro invece conosciamo tutti le difficoltà nel definire cosa sia l’ arte e cosa no. In proposito la Heinich ha una teoria più efficace: propone l’arte come modello che organizza e definisce il collettivo; ne riceve i modelli e li restituisce in forma visibile. Così la Biennale è stata influenzata da una generale marketizzazione dell’arte e, di rimando, ha contribuito lei a costituirsi come un luogo di marketing. Anche per questo la Biennale è un terreno fecondo di ricerca.
Un secondo punto che caratterizza il discorso sulle mostre in Biennale è la ingiustificata fiducia nel genere testuale dell’intervista. Chiedere l’opinione dell’autore e cercare lì la soluzione dei problemi posti dalle opere vuol dire riprodurre un antico criterio della storia dell’arte fondato sulla soggettivazione. È l’idea romantica di una pienezza di soggettività che emana dall’opera o alternativamente dal discorso sull’opera. Perciò il critico “di scorta”, che accompagna l’artista e, a differenza del pubblico, detiene molti saperi, è un mediatore necessario. Attenzione all’intervista, perché in molti casi le domande sono poco pertinenti e le risposte non filtrate né verificate. A nostro avviso l’operazione critica resta invece centrale nella costruzione di qualsiasi discorso sulle arti. Carla Lonzi è il caso esemplare di una studiosa capace di intrattenersi in un dibattito con l’artista, dal quale emergevano spunti ricchissimi: emergenza non della verità dell’opera, ma di un sovrappiù di prodotto da interpretare6. L’intervista non serve a spiegare le opere; è anch’essa una componente complessiva dell’opera che attende la sua interpretazione.
3.2. Convergenze
Una convergenza felice è la produzione della LIII Biennale sulla scia di un testo di Nelson Goodman, filosofo da noi ripreso. Il curatore, Daniel Birnbaum, titola la mostra Fare mondi e cita espressamente la teoria di Goodman: «Il fare è un rifare – scrive Nelson Goodman in Ways of Worldmaking – un libro ricco di osservazioni d’attualità che è stato fonte di ispirazione nella preparazione di questo progetto […]. Il fare ruota intorno all’idea di costruire qualcosa che sia possibile condividere»7. Nell’ottica della Biennale è un’incitazione a non accontentarsi del preesistente, ma a trattarlo e a reinventarlo. Per esempio lo attrae non l’identità dei padiglioni, ma la loro potenziale traducibilità sia sul piano politico, essendo istituti di rappresentanza delle nazioni, sia sul piano linguistico e mediatico. Nel catalogo il curatore ha mescolato le bandiere dei Paesi come in un caleidoscopio. Per Birnbaum, come per il semiologo, la relazione culturale è significativa come il «dialogo asimmetrico» di una traduzione (Lotman 1985). Attraverso i saggi di analisi testuale del “Quaderno”, si è tentato di comprendere quanto l’esperimento di Birnbaum sia riuscito. La definizione dell’arte su base ontologica e per induzione pone sempre di fronte al rischio che arrivi qualcuno con un esempio opposto. Basta una sola prova contraria per smentire l’assunto di che cosa sia arte. La Biennale immaginata da Birnbaum, in quanto luogo di sperimentazione, incoraggia invece a riflettere sul quando è arte, sempre sull’adagio di Goodman (1968) e un po’ come fa Umberto Eco (1997) alle prese con l’ornitorinco, un animale ambiguo tra l’oviparo e il mammifero.
La LIII Biennale svela che, per ottenere lo spirito del tempo, non è interessante replicare l’uniformità, ma moltiplicare le diversità, creare specie intermedie. C’è un neologismo che può tornare utile: “artificare”. Vanno esaminate le condizioni per cui alcuni prodotti risultano banalmente artistici, mentre altri riescono nell’operazione di artificazione o di disartificazione. È noto che il Brancusi anni Venti, che montava e bricolava oggetti di scarto. E si sa che una sua versione dell’Uccello nello spazio fu tassata a titolo di manufatto dai doganieri americani, sotto gli occhi divertititi di Duchamp, con l’affermazione che non si trattava di arte. Anche la dis-Artificazione è importante, per il riflesso di valore che l’opera acquista con il suo tramite.
Venezia, rispetto alle altre cento Biennali sparse nel mondo, ha poi la prerogativa di essere plurisettoriale. Curiosamente non le riesce di trasformare questa condizione in una risorsa per l’interattività tra le arti, cosicché, purtroppo, chi va in visita alla mostra del Cinema non frequenta – con lodevoli eccezioni – i Padiglioni nazionali o l’Arsenale e viceversa. Eppure Rosalind Krauss (2005) ha ampiamente sottolineato il remix e la reinvenzione di nuovi media a partire da quelli tradizionali: il neon è stato brevettato nel 1907-1909 per le insegne pubblicitarie, già come scrittura al neon, e solo dopo ha fatto il suo ingresso nelle arti, con Dan Flavin, Joseph Kosuth e Panza di Biumo. Kounellis ha lavorato metà della sua vita come scenografo; Kentridge, nel 2011, è stato il regista del Flauto magico di Mozart diretto da Roland Böer alla Scala di Milano. La Biennale non funziona sempre come magnificatore di tutte le arti, a volte è un silenziatore di alcune. Un problema che meriterebbe maggiore attenzione.
4. Il paratesto artistico
L’indagine sul fenomeno Biennale solleva infine un problema estetico stimolante: ogni opera, oltre al contesto, ha un suo paratesto. Per come lo definisce Gérard Genette (1987), esso è un luogo elastico che sta intorno al testo, ne fa parte in varia misura. Può creare l’auspicabile intertestualità tra le opere. Il catalogo è un paratesto rispetto all’opera, ma è a sua volta un testo se confrontato ai cataloghi di altre grandi rassegne. Nella procedura di analisi occorre selezionare un corpus di oggetti, ma anche scegliere una “taglia”, un piano di pertinenza. A livello del paratesto, ci si cimenta con tutto quell’insieme di titoli, didascalie, note, fotografie, articoli, interviste, che non correda soltanto l’opera, ma la infiltra. Nelson Goodman (2010) distingue tre diverse operazioni legate al paratesto: l’esecuzione, l’attivazione e l’implementazione. Molti lavori contemporanei si caratterizzano per essere non tanto dei prodotti preconfezionati, ma al contrario dei sistemi di notazione, delle istruzioni. Perciò, come in musica, c’è uno spartito autografo, che suscita originali esecuzioni allografe. L’attivazione dell’opera è invece legata alla sua messa in scena, con pratiche aggiuntive di senso che ne esemplificano, determinano, orientano, approfondiscono il valore. È detta implementazione la specifica batteria di prestazioni, perfezionamenti, adempimenti, destinati a effettuare l’opera stessa: la disposizione spaziale, le distanze, gli accostamenti analogici od oppositivi, gli incentivi di percorso, le luci a una certa altezza, lo zoccolo per la scultura, l’allestimento insomma. Nel caso di Italics, la mostra di Bonami ospitata a Palazzo Grassi nel 2008, il visitatore trovava a un certo punto, in una delle sale, le foto di Letizia Battaglia sui crimini mafiosi davanti ad un Cretto siciliano di Burri. È chiaro che Bonami ha costruito una significazione intertestuale imprevista tra due stereotipi isolani; il luogo comune però penetra le due opere e bisogna compiere uno sforzo per liberarsene. Crediamo che non esista momento più appassionante per l’attività curatoriale, anch’essa degna di autonoma valutazione. Definirla un’ulteriore opera d’arte, artificarla, significa sminuirne il portato critico cioè significante e metalinguistico. Al progetto artistico i curatori aggiungono qualcosa in più, in qualità di traduttori creativi. La loro traduzione, se e quando buona, arricchisce la lingua di partenza e la lingua di arrivo.
La nota di chiusura porta ancora sull’attività critica. Si rimprovera ai semiologi delle arti di non dichiarare mai se un’opera è bella o brutta. Barthes definiva epitetica questo tipo di critica: non si occupa dell’accuratezza nella lettura né della comprensione, ma mette insieme aggettivi, quelli che Marinetti voleva rari e possibilmente illuminanti. Decidere di studiare Bruc Nauman8, come abbiamo fatto, non intendeva dimostrare che è un grande artista. Curatori competenti riconoscono che lo è e allora, per noi, vale la pena di indagarne piuttosto i meccanismi semiotici, linguistici e visivi. Non siamo promotori, scegliamo l’opera attorno a cui orbita l’aura di un valore. L’attività di ricerca comincia lì e termina con la costruzione ipotetica di una sintassi e di una semantica e con il reperimento delle istanze di enunciazione che articolano il discorso artistico.
Note
- Ringrazio Tiziana Migliore per la revisione del mio intervento.
- Lotman 1985, p. 64.
- Cfr. Kuhn 1962.
- Cfr. L’Archivio del Senso 2009; Quaderni sull’opera 2011.
- Cfr. Where Art Worlds 2007; Starting from Venice 2010.
- Vedi soprattutto Heinich 2005.
- Cfr. Lonzi 2010.
- Cfr. D. Birnbaum, in L’Archivio del Senso 2009; Goodman 1978.
- Cfr. Fabbri 2011.