Da: “Le passioni del discorso”, Carte semiotiche, n. 7, giugno 1990.
1. Uno dei modi con cui la semiotica può avvicinare la problematica del segno è quello di considerarlo come articolato in due facce – significato e significante – e in quanto rinviante alla realtà. Ci sarebbe, al di là del linguaggio, fuori dai sistemi di segni, un referente, cioè qualcosa di esterno al segno, a cui noi faremmo «segno». Proporrei che questa ipotesi venisse, se non modificata, almeno affiancata a un’altra: l’idea che il linguaggio non sia la sola semiotica, cioè il solo sistema di segni attraverso i quali il significato si esprime, ma che lo stesso mondo naturale, quale noi lo percepiamo come insieme di pratiche significanti e di organizzazione significante, sia una macrosemiotica. Propongo cioè l’ipotesi che il mondo stesso si presenti a noi non come una referenza cieca, per cui dovremmo costruire dei sistemi di riferimento segnico, ma, al contrario, come un insieme di forme e di sostanze che sono anch’esse adatte alla manifestazione della significazione. In altri termini: non c’è il referente bruto; il mondo naturale è già un mondo semioticamente organizzato, cioè dotato di significazione, di cui sono solo diverse, rispetto al linguaggio, le forme di organizzazione. Insisto su questo: il mondo naturale quale noi lo percepiamo è un mondo già di segni, è un mondo la cui espressione è organizzata, e che entra in contatto con il soggetto attraverso forme sensibili che questi interpreta. Così come il soggetto sta nella lingua, nello stesso modo sta in un mondo che è già significante. Si riconosce in quest’ipotesi una scelta di tipo fenomenologico. Non c’è un mondo cieco; il mondo ha già significazione, il mondo è già significato perché incontra direttamente la percezione del soggetto. Se questo è vero, a questo punto dovremmo compiere una seconda operazione: dimostrare che il significante del mondo, le grandi figure sensibili in cui esso si esprime – la dinamicità, la staticità, il numero – sono nello stesso tempo figure che fanno parte del contenuto delle lingue naturali. La lingua naturale sta al mondo naturale in una relazione di inclusione parziale. Cioè: le figure con cui noi percepiamo il mondo – «statico» o «dinamico», a esempio – sono nello stesso tempo figure di contenuto della lingua.
Vorrei trattare perciò non del significante linguistico, bensì del significato linguistico, ma in quanto quest’ultimo, la faccia significata del linguaggio, ha come sua forma di espressione il significante del mondo. I significanti del mondo sono in qualche modo codificati nel significato della lingua, per cui parlare del significato della lingua è, nello stesso tempo, parlare dei grandi significanti del mondo.
2. Concentrarsi sulla problematica del significante non è affatto obliterare la nozione del significato, ma, soprattutto, riconoscere nella forma del contenuto le forme di espressione del mondo che in esso si codificano. Se si accetta questa ipotesi, un’altra ne deriva; ossia l’idea che le forme significanti del mondo, i suoi processi, i suoi stati, non entrano in contatto con noi con le stesse modalità della lingua. La lingua ha organizzato, ha specializzato una parte di sé, per alcune funzioni che chiameremo «categorie astratte». Nell’incontro con le grandi configurazioni del mondo, queste categorie non mancano, sono semplicemente implicite. In altri termini, le figure del mondo che ci incontrano, e che sono esprimibili come forme di significazione, sono organizzate in modo che le categorie astratte che la lingua ha definito – gli universali linguistici, per esempio – vanno disimplicate dalle forme stesse del mondo. Il mondo non è che non ci parli: ci parla, ma implicitamente; mentre la lingua, che pure ci parla assai implicitamente, ha comunque apparecchiato una sua parte sintattica grammaticale per esplicitare una serie di categorie astratte con cui il mondo ci parla, ma, per così dire, implicitamente.
Così, riconosceremo che il mondo ci parla per grandi configurazioni, per Gestalten, configurazioni pregnanti che ci dicono qualcosa e che sono anch’esse immediatamente significanti ed efficaci sull’uomo. Insomma: ci sono due grandi linguaggi che parlano all’uomo, due luoghi in cui la manifestazione si esprime. Il primo è il linguaggio-linguaggio, la lingua naturale; l’altro è il mondo. Ed è un grave errore di logicizzazione delle esperienze significanti la riduzione dei fenomeni di significazione alla dimensione linguistica. Così come lo è, all’interno della dimensione linguistica, la loro riduzione ai livelli di analisi specificamente sintattico e grammaticale. Quello che semmai ci sarebbe da fare è interrogarsi sulla lingua in quanto luogo delle figure del mondo: perché il mondo è nella lingua, non fuori dalla lingua a cui rinvia. D’altra parte, occorrerebbe dimostrare fino a che punto le grandi figure del mondo sono tagliate, organizzate dalla lingua. Ma sarebbe un grave errore semiotico ritenere che il mondo diventa significante soltanto se linguisticamente descritto.
Non è vero che un quadro, per esempio, sia leggibile soltanto perché esistono delle categorie linguistiche che permettono il suo riconoscimento. Le figure del mondo ci parlano direttamente, ma ci parlano in un altro modo. Ci parlano per sostanza e per figura, per organizzazione della materia e per organizzazione delle forme.
3. Se tutto questo è vero, diventa molto importante mettere a fuoco i problemi di estesia, cioè i modi con cui i soggetti entrano in contatto percettivo con il mondo, e mostrare che anche la lingua, al di là della sua dimensione immediatamente significante, ne è una prova. Mi pare che quest’ipotesi sia «di grande momento», come si diceva un tempo, per la soluzione di due problemi che l’uso tradizionale dei riconoscimenti linguistici e logici lascia nell’oscurità.
Il primo è l’organizzazione delle forme con cui il soggetto si presenta nel linguaggio del mondo. I soggetti sono coinvolti nel mondo, noi siamo mondo; il nostro corpo ne fa parte, è una delle figure del mondo, che nello stesso tempo percepisce il mondo. Quindi il problema è di come il soggetto si trova rappresentato, iscritto, inserito nel mondo. Cito a questo proposito i pronomi perché sono un esempio classico da cui la linguistica è partita per lo studio dell’enunciazione, cioè del modo con cui i soggetti si iscrivono, in configurazioni molto diverse, all’interno del linguaggio stesso.
Il secondo problema, cruciale nella definizione del linguaggio, e della nostra presenza nella significazione, è quello del ritmo. Riesce molto difficile spiegare, al di là degli studi prosodici, che molto spesso sono studi di normatività, come dalle configurazioni statiche del mondo si possa passare a una configurazione dinamica. Ora, il passaggio tra la morfologia, ossia l’insieme di forme del mondo, e la loro messa in opera, la loro sintassi, è uno dei problemi che la semiotica non può non interrogare. Noi siamo davanti a un mondo che sappiamo avere una continuità apparente che rinvia a delle configurazioni. Il problema è come articolare morfologia e sintassi, come spiegare che i segni sono dei codici, ma che questi codici in qualche modo diventano testi. Come diventa lingua una parola; qual è l’istanza che fa sì che una morfologia si trasformi in quello che i glossematici chiamavano ritmo, cioè sintassi? La sintassi è, prevalentemente, non solo un sistema di dipendenze logiche, ma ritmo nell’organizzazione dei contenuti e ritmo nell’organizzazione delle forme.
Credo che uno dei grandi problemi dello studio del linguaggio e della nostra relazione al mondo sia la questione del ritmo, cioè dei modi della scansione temporale dei processi di significazione.
4. Tutto questo pone l’interrogativo delicato della passionalità. Abbiamo pochissime informazioni sul modo con cui il linguaggio è efficace. Riteniamo che la sua dominante di efficacia sia data dall’informazione, cioè dal far sapere. Ma sappiamo anche molto bene che il linguaggio e il mondo ci fanno desiderare, volere, dovere. Le cose ci si impongono, e nello stesso tempo ci suggeriscono. Le cose ci vogliono nello stesso modo in cui noi vogliamo le cose. Senza una teoria dell’estesia profonda del soggetto e del mondo, senza un modo dell’articolazione delle istanze di enunciazione che lo scandiscono, che lo ritmano (si pensi al problema della significazione della musica), riuscirà molto difficile centrare il problema dell’efficacia del linguaggio, dell’efficacia segnica.
Il problema che ci si pone dunque è: com’è possibile pensare che un tramonto ci renda in qualche modo felici o preoccupati? Com’è possibile che l’incontro con una luce possa avere un’influenza passionale? Com’è possibile che un sistema passionale trasformi il proprio significato all’interno di un codice culturale, e al di là di un codice culturale?
Questo è il senso dell’impegno della semiotica nell’analisi della dimensione passionale e dell’efficacia del segno, non riducibile ai termini puramente cognitivi e informazionali.
5. Per tentare di dimostrare l’interesse di questa ricerca, ho scelto un testo di Nabokov; si tratta di una scelta che ha una ragione molto particolare. Credo infatti nell’idea che ci sia un legame privilegiato fra la semiotica e la descrizione testuale. Un legame che non è soltanto occasionale. La semiotica non è una disciplina teorica che consenta l’investimento di qualunque oggetto dotato di significazione (neanche la biologia è un oggetto di sapere teorico che investe tutti i fenomeni della vita: investe quei fenomeni della vita che è in grado di pensare e descrivere). D’altra parte la semiotica non è neanche (e forse nessuna disciplina lo è, comprese le discipline più avanzate come l’astronomia o la fisica, che è sempre presa come modello per tutte le scienze) riducibile all’insieme delle sue rappresentazioni teorico-concettuali. Ogni disciplina è anche formata dal suo saper fare pratico: una disciplina come la chimica è in parte articolata dal fatto che c’è un saper fare dei chimici, che non si riduce allo studio dei libri di chimica né alla loro applicazione. L’imparare richiede l’acquisizione di una somma di saper-fare non esplicitabili, che sono perciò da esplicitare. E credo sia molto importante, per non piegare lo studio della semiotica a un’epistemologia generale che la renderebbe debole e tutto sommato insignificante, mantenere questa specificità del saper fare descrittivo del suo sistema di funzionamento, quanto i sistemi delle sue rappresentazioni. Detto questo, l’appello al testo non significa che io ci sappia fare, significa semplicemente che è bene saperci fare, e che anzi è necessario saperci fare.
6. Ho scelto questo testo per molte ragioni. Uno, perché Kant diceva giustamente che ogni disciplina è una scolastica, nel senso peggiore della parola, se non sa dare il caso, se non sa dire «si dà il caso…». Ma ho scelto questo testo per un’altra ragione. Nel primo paragrafo vedrete apparire uno specchio dove viene evidenziato in maniera assolutamente chiara il ruolo essenziale che questa figura gioca come legame tra i problemi di significazione e i problemi di percezione. D’altra parte, scelgo questo testo perché è in qualche modo il prolungamento dello sforzo di Algirdas Greimas di definire un’estetica nella sua dimensione estetica. E, ultima ragione, perché Nabokov mi piace. E con ciò suggerisco, per il saper fare dei nostri colleghi, che bisogna scegliere quasi sempre autori virtuosi. La virtuosità ha la capacità di mostrare, mentre si scrive o si parla, la possibilità di sbagliare. Il virtuoso non è colui che esegue perfettamente, ma chi esegue perfettamente mostrandovi contemporaneamente tutte le volte che ci si potrebbe rompere il naso se non si facesse esattamente come ha fatto lui. Non c’è virtuosità che non sia in qualche modo indicazione del difetto. Anzi la virtuosità è una pedagogia del rischio dei difetti. Nabokov è così. Passo dunque all’analisi del testo di Nabokov – tratto dalle prime pagine de Il dono – che abbrevio considerevolmente in funzione delle dimostrazioni date.
Mentre attraversava la strada diretto alla farmacia all’angolo, voltò involontariamente la testa a causa di uno scoppio di luce rimbalzatogli sulla tempia, e vide, con quel sorriso rapido con il quale accogliamo un arcobaleno o una rosa, un parallelogramma di cielo di un bianco abbacinante che veniva scaricato dal furgone, un tavolino da toletta con specchio sul quale, come su uno schermo cinematografico, passava un riflesso impeccabilmente limpido di rami che scivolavano via e ondeggiavano non già in modo arboreo, ma con un vacillare umano, causato dalla natura di coloro che stavano trasportando quel cielo, quei rami, quella scivolante facciata.
Proseguì verso il negozio, ma quel che aveva appena veduto – sia perché gli aveva dato un piacere congeniale, sia perché lo aveva colto di sorpresa e scosso (come fanciulli nel fienile cadono in una cedevole oscurità) – sprigionò in lui quel piacevole non so cosa che da vari giorni ormai era stato nel fondo melmoso di ogni suo pensiero, pervadendolo e dominandolo alla minima provocazione: la mia raccolta di poesie era stata pubblicata; e quando, come in quel momento, la sua mente capitombolava in tal modo, cioè quando egli ricordava le cinquanta e più poesie che erano appena apparse, scorreva in un attimo l’intero libro, per cui nella bruma istantanea della sua musica pazzamente accelerata non si riusciva a trarre alcun senso leggibile dai versi guizzanti – le parole familiari scorrevano via, turbinando tra spuma violenta (il cui ribollire si tramutava in un violento moto fluente se fissavi gli occhi su di esso, come eravamo soliti fare tanto tempo fa, contemplando dall’alto del ponte vibrante di un mulino, finché il ponte non si trasformava nella poppa di una nave: addio!) – e questa spuma, e questo guizzare, e un verso separato che correva via tutto solo, gridando da lungi in preda a un’estasi selvaggia, probabilmente chiamandolo a casa, tutto ciò, insieme col bianco crema della copertina, si fondeva in una sensazione beata di eccezionale purezza… Che cosa sto facendo! pensò, tornando in sé bruscamente e accorgendosi che la prima cosa da lui fatta entrando nel negozio successivo era stata quella di gettare il resto datogli dal tabaccaio sull’isolotto di gomma al centro del banco di cristallo attraverso il quale intravide il tesoro sommerso di profumi in flaconi, mentre lo sguardo della commessa, condiscendente nei confronti del suo comportamento bizzarro, seguiva con curiosità la mano distratta che pagava un acquisto non ancora specificato.
«Una saponetta alla mandorla, per piacere» disse lui con dignità.
Dopodiché tornò con lo stesso passo elastico verso la casa.
7. Si tratta della storia di un uomo, un giovane poeta, in esilio a Berlino, che esce e va a comprare una saponetta. Tutto qui. Vorrei far notare, all’inizio, l’apparizione di alcune figure del mondo, le quali si presentano all’autore una dopo l’altra. La prima è «un parallelogramma di cera di un bianco abbacinante» scaricato da un furgone, che è un tavolino da toletta con uno specchio. Sullo specchio, come su uno schermo cinematografico, passa «un riflesso impeccabilmente limpido di rami». Successivamente – e tenterò di mettere in evidenza il parallelismo delle figure – il personaggio si ricorda, grazie a questo fenomeno, di un suo libro di versi che è stato appena pubblicato, la cui copertina bianca altrettanto abbacinante gli dà una sensazione di straordinaria purezza. Alla fine entra nel negozio e compra una saponetta, bianca, alla mandorla.
Ora, al di là delle saponette, della bianca copertina rettangolare e dello specchio limpido, impeccabile, qui esiste una configurazione gestaltica elementare, che uso per ragioni puramente pedagogiche, che s’impone al soggetto al di là delle differenze, al di là del fatto che in questo rettangolo, parallelogramma, bianco, vengano investiti via via, uno specchio che porta il cielo, un libro che porta i versi, o un sapone, purificatore, alla mandorla. Vorrei fare notare che questo tipo di percezioni del mondo non sono indipendenti dal soggetto, ma sono centralmente dipendenti dal modo con cui la soggettività le percepisce. Nel secondo capoverso c’è una parentesi in cui si dice: «Il cui ribollire si tramutava in un violento moto fluente se fissavi gli occhi su di esso, come eravamo soliti fare tanto tempo fa, contemplandolo dall’alto del ponte vibrante di un mulino, finché il ponte non si trasformava nella poppa di una nave, addio!».
Il modo specifico con cui Nabokov indica come la prima configurazione del soggetto – un ponte che sta sopra un mulino fremente, dunque fermo, con l’acqua che fugge – si trasforma, grazie alla fissazione dello sguardo, in qualcosa che è moto, il ribollire dell’acqua si tramuta in un violento moto fluente, e il mulino si trasforma nella poppa di una nave, che se ne va anch’essa, «addio!». In questo testo troviamo dunque rappresentata in maniera molto semplice e banale, a partire dal ponte, una figura che si presta, se l’intervento del soggetto fissa lo sguardo, a una trasformazione tra uno stato e un movimento che provoca due fenomeni di disgiunzione. Fenomeni così importanti che, in realtà, appena questa disgiunzione si compie, la passione della distanza, dell’abbandono e della nostalgia, interviene nell’addio. In tal modo, l’intervento del soggetto dell’enunciazione, delegato all’interno del testo attraverso un soggetto osservatore, trasforma automaticamente la consistenza del mondo statico/dinamico rovesciandone le posizioni e trasformando contemporaneamente gli stati patemici del soggetto. «Il ribollire si tramutava in un violento moto fluente se fissavi gli occhi su di esso, come eravamo soliti fare tanto tempo fa» / «contemplandolo dall’alto del ponte vibrante di un mulino, finché il ponte non si trasformava nella poppa di una nave, addio»: congiunzione/disgiunzione. Chi è abituato all’analisi semantica non prova alcuno stupore a riconoscere questo fenomeno, su cui però vorrei insistere. La trasformazione tra il mulino e l’acqua ribollente da una parte, e la nave dall’altra, è una trasformazione che richiede alla semiotica uno sforzo interessante. Ci richiede di pensare che í testi del mondo ragionano con le proprie figure. Per esempio, la concatenazione successiva di trasformazioni tra il mulino e la poppa della nave implica un ragionamento figurativo che ha una propria narratività interna. Passando da una figura all’altra abbiamo trasformato il mondo, trasformato il soggetto della disgiunzione, e trasformato le sue emozioni. Detto altrimenti: il testo ragiona per figure così come per inferenze logiche. Ciò su cui mi preme insistere è che lo studio del significante ci introduce a questo tipo di funzionamento della conoscenza.
Lasciatemi fare una successiva approssimazione. Sullo specchio un «riflesso impeccabilmente limpido di rami che scivolavano via e ondeggiavano non già in modo arboreo, ma con un vacillare umano», causato dalla natura di coloro che stavano trasportando quel cielo, quei rami, quella scivolante facciata. Teniamo presente questo fenomeno dello scivolamento e del vacillamento, perché lo si ritrova come un’isotopia, cioè come una ridondanza di contenuti, anche nel secondo del testo. Avremo infatti a un certo punto il libro, la forma omologa e isomorfa dello specchio; e nel libro i capitoli, i versi, diventano istantaneamente illeggibili, cominciano a scorrere; non c’è nessun senso leggibile; abbiamo un esempio di come il senso leggibile di un testo non sia il senso che ci viene trasmesso.
All’inizio: «le parole scorrevano turbinando in una spuma violenta», il ribollire si tramutava in fluire. Troviamo termini come « ribollimenti», «guizzi», «spume», «scivolamenti», «scorrere», «turbinare», e così via. Un’analisi semantica vi dà, credo abbastanza facilmente, una discontinuità in rapporto a una superficie – superficie dello specchio, superficie dell’acqua, e perfino, alla fine del testo, una superficie di cristallo, quando lui andrà a chiedere il sapone. Si creano delle forme – bolle, e spume – oppure dei movimenti – guizzi (verticali) o turbini (orizzontali).
A un certo punto, questa composizione della materia sfuma in un «violento moto fluente», cioè nella scomparsa delle forme esterne del mondo, delle configurazioni, e in un moto accelerato e continuo. Leggendo questo testo avvertiamo attraverso la nostra stessa percezione e la nostra stessa sensibilità, la trasformazione che condurrà alla spuma, al guizzare, al «verso che correva via tutto solo gridando da lungi in preda ad un’estasi selvaggia, si fondeva in una sensazione beata di eccezionale purezza.» Chiunque ricordi un celebre verso sull’onda che si spiana beata capirà benissimo che cosa intendo dire sottolineando che l’irruzione della configurazione passionale della beatitudine e della fusione si fa in correlazione con la sparizione delle forme e dei movimenti diciamo frattali, del mondo, e nell’apparizione della fluenza.
Non tener conto di questo fenomeno significa dimenticare che al di là della leggibilità superficiale del testo esistono organizzazioni semantiche che si presentano come configurazioni percettive. Citerò un altro caso. Nel secondo capoverso si dice: «proseguiva verso il negozio, ma quello che aveva appena veduto, sia perché gli aveva dato un piacere congeniale, sia perché lo aveva colto di sorpresa e scosso, come fanciulli nel fienile cadono in una cedevole oscurità, sprigionò ovunque il piacevole non so cosa che da vari giorni era stato nel fondo melmoso d’ogni suo pensiero, pervadendolo e dominandolo alla minima provocazione. La mia raccolta di poesie era stata pubblicata». Teniamo presente questo fenomeno di movimento. Più avanti si dice che la sua mente «capitombolava». Abbiamo un movimento molto preciso. Da un lato i fanciulli cadono nel fienile, in una cedevole oscurità, dall’altro la mente capitombola. E quando i fanciulli cadono nell’oscurità, qualche cosa – una sensazione, un sentimento – si sprigiona, da un fondo melmoso del pensiero. Il problema è dunque quello di mettere in moto questa melma, ma è importante che il primo atto di questa caduta dall’alto verso il basso si accompagni ad un movimento di sprigionamento, di liberazione, dal basso verso l’alto. Mentre la mente capitombola, le figure del mondo mosse dalla passione appaiono. I pensieri dominanti, il libro, affiorano dalla mota profonda del mondo e si presentano sprigionati, cioè con la possibilità di manifestarsi. Credo che questo sia il momento centrale ritmico della storia.
In questo punto abbiamo una scansione in due momenti: prima il protagonista vede la luce che lo colpisce negli occhi, e questo lo scuote e lo sorprende; subito dopo, questa sorpresa e questa scossa – questa vibrazione del soggetto: scossa nel senso estesico della parola – provocano da parte del soggetto una liberazione, uno sprigionamento, un movimento verso l’alto del pensiero che era rimasto preso. Ora: pare che alla radice di ogni ritmo ci siano due gesti fondamentali: l’arsis e la tesis, cioè la battuta e la levata. Greimas (1987), studiando attentamente un testo di Tournier, aveva notato questo costante fenomeno, nella percezione estesica immediata del mondo, della presenza di alcune configurazioni capaci di estensione e di raccorciamento. Prima dell’effetto di estesia le cose si inclinano, e poi ricadono. Una goccia prima si allunga, poi risale. Ebbene, c’è una specie di battuta iniziale, percettiva, che si riceve anche da questo testo, che è la messa in operazione del processo, cioè quel momento originario che il testo tenta di simulare, in cui voi uscite da una percezione normale del mondo, e il libro che emerge non è più un libro leggibile, è un libro di fluenze, un libro di guizzi, è un libro di spume, è un libro di un diverso tipo di consistenza del senso.
Questo testo si dimostra insomma un’interessante simulazione, una fra tante altre, del processo di tonalizzazione del soggetto; tonalizzazione che si esprime attraverso una organizzazione sistematica dei termini passionali. All’inizio il soggetto è toccato, scosso; in seguito diventa turbato; successivamente c’è un momento di estasi e così via; e c’è una trasformazione nella beatitudine.
Ma questi passaggi sono lessicalizzati nel testo, non hanno bisogno di analisi. C’è invece un fenomeno più interessante, nel capoverso successivo. Il soggetto si accorge, sotto l’effetto di questo nuovo spazio sensoriale e sensibile che si è creato, di essere entrato nel negozio e di aver pagato qualche cosa, ma senza aver detto cosa sta pagando. La commessa, di fronte a questa forma di comportamento bizzarro lo guarda condiscendente, e segue con curiosità la mano distratta che paga un acquisto non ancora specificato. Visto dalla parte del mondo a estesia normale (un mondo della percezione che è un mondo di uso e di usura, in qualche modo, delle cose e dei soggetti) ciò che appare al soggetto come una sensazione beata di purezza, è in realtà un atto di distrazione. Il soggetto allora risponde in due modi. Il primo sarà quello di reagire alla distrazione e alla condiscendenza, che è vagamente sprezzante, attraverso il recupero della dignità. L’altro sarà quello di cercare un sostituto mondano, nell’universo dei mondi accessibili, che abbia a che fare con la toletta, che abbia a che fare col suo libro, che abbia a che fare con la schiuma, che abbia a che fare con la purezza; e apparirà un sapone alla mandorla.
8. Credo che questo tipo di lettura, del tutto esemplificativa, abbia il vantaggio di sottolineare che ci sono, soggiacenti all’analisi testuale, alcune grandi configurazioni che possono rendere leggibile una estesia profonda del testo in cui il soggetto si inserisce.
Concludo perciò con un riassunto sul modo con cui la soggettività si iscrive allora in questo testo. Vorrei sottolineare come indicazione soltanto due frasi. La prima è nel primo capoverso: «Stavano trasportando quel cielo, quei rami, quella scivolante facciata». L’altra è quella che, nel secondo capoverso, dice: «questa spuma, questo guizzare» etc. C’è un ravvicinamento, sul piano dei pronomi d’indicazione molto forte; e con ciò l’improvviso apparire di una serie di variazioni di enunciazione. C’è l’apparizione dell’«io», c’è l’apparizione del «noi», c’è l’apparizione del «tu», in termini molto difficilmente spiegabili in una coesione testuale normale. Per esempio, i problemi di coesione testuale, grammaticalmente studiabili, non spiegano all’interno di questo testo, eccetto che con ipotesi ad hoc, a chi cosa si riferiscono questi «noi» che a un certo punto appaiono: «Come eravamo soliti fare tanto tempo fa». Sosterrei insomma che soltanto il riconoscimento di un funzionamento globale del testo, con livelli epistemici e passionali diversi, può permettere la giustificazione di una coerenza testuale che spieghi le variazioni pronominali. Senza questo il linguista sarebbe costretto a fare esattamente il lavoro contrario; a prendere la tipologia differenziale della grammatica e a ricostruire arbitrariamente delle sceneggiature intorno alle non-spiegabilità grammaticali, per poter dare loro una significazione. In conclusione, la linguistica ha bisogno di un’analisi semiotica preliminare, per non costruire sistematicamente sceneggiature ad hoc, generalmente perfettamente normalizzate, tentando di spiegare funzionamenti, come nel caso dei pronomi, che si prestano a considerevoli difficoltà.
Vorrei dare un altro esempio adesso. Si tratta dell’apparizione nel nostro testo delle virgolette del discorso diretto. II discorso diretto appare già due volte. Appare nell’addio e appare in un’altra occasione: «La mia raccolta di poesie era stata pubblicata», dove non abbiamo alcun segno che sia Nabokov che lo dice. Potrebbe essere il soggetto dell’enunciazione del libro intero a raccontarlo. E per quanto riguarda «Addio!» non abbiamo veramente nessuna spiegazione. Le virgolette appaiono dopo, solo quando il soggetto è tornato all’interno di un universo di estesia normale, in cui il soggetto dell’enunciazione può definirsi come un soggetto interamente costituito, passionalmente coerente, che rispetto al soggetto precedente (che è un soggetto guizzante, non totalizzabile) può porsi a dire con dignità «Vorrei una saponetta alla mandorla». In altri termini: questo testo non è soltanto un testo in cui il problema del funzionamento dell’enunciazione è diverso dal problema del funzionamento dell’enunciato. Se in questo testo, o almeno in una parte di esso, le figure del mondo, le sue configurazioni profonde, sono sottoposte a quella che ho chiamato una specie di frammentazione, frattalità della sostanza che poi si trasforma in una specie di continuità, lo stesso fenomeno accade con la percezione di un soggetto costitutivo. Il soggetto, insomma, non può apparire nel momento della trasformazione estesica come soggetto intero. Questo, e sarà questa la mia conclusione, potrebbe darci qualche indicazione sui problemi estetici.
S’è sempre detto che non si può dire che l’estetica, la teoresi e l’etica abbiano lo stesso tipo di soggettività che le garantisce. Mentre il soggetto teoretico è un soggetto pienamente costituito, un soggetto che presuppone una sua costituzione integrata, il caso del problema estetico non è lo stesso. E la ragione per cui da tempo la filosofia si è domandata se per caso il giudizio estetico non sia un giudizio teoretico che arriva troppo tardi. Cioè: il giudizio estetico molto spesso viene ridotto alla teoresi, perché il soggetto, che dovrebbe percepire esteticamente, in realtà si installa soltanto dopo che l’esperienza estetica indicibile e in cui il soggetto si trova radicalmente disorientato si è già prodotta. L’estesia del soggetto fa sì che egli stia in diverse relazioni col mondo. Il soggetto è in certi momenti mondo (il problema della fusione). In certi altri il mondo è dominante sul soggetto, e non soltanto dominato da esso. È questo problema, profondamente passionale; del momento estesico a far sì che non ci sia nessun soggetto dell’enunciazione totalmente e razionalmente costituito, che possa dare di questa esperienza un giudizio immediatamente teoretico. Ecco perché l’estetica si trova costantemente a essere una disciplina teoretica che investe un campo di cui tutto quello che può dire è che esso è indicibile. Ora, io ritengo che l’analisi testuale potrebbe offrire alcuni esempi di configurazioni interessanti di questo fenomeno filosofico centrale. E del fatto che non può darsi soggetto dell’estetica, salvo che questa estetica non sia una «teoretica estetica». A questo punto, probabilmente, i testi ci serviranno per la filosofia, e non, al contrario, a importare teorie filosofiche per dimostrare, come è stato lungamente detto, che la semiotica non esiste.