Da: AlfaDomenica, pubblicato il 18 febbraio 2018.
www.alfabeta2.it/2018/02/18/guerra-genere-proposta-modesta/
1.
Finiremo mai di segnalare gli eventi e i misfatti del Sessantotto? Come tutti i fatti sociali totali, quel periodo inesauribile eccede la memoria cioè la contraddizione tra la sopravvivenza e il nulla. Chi ricorda la prima messa in italiano dopo due millenni di latinorum e la distruzione della statua del padrone illuminato Marzotto ad opera di scioperanti iconoclasti? E l’esplosione nel Pacifico della prima bomba francese all’idrogeno? Più gravido di conseguenze sarebbe scordarsi della scoperta del clitoride. Non che non fosse già noto: come zona erogena la descrizione più esaustiva è dovuta ad un anatomista teutonico della metà 800, Georg Ludwig Kobelt. È nel Sessantotto però che il pamphlet antifreudiano di Anne Koedt, The Myth of the Vaginal Orgasm divenne “virale” nel virulento movimento femminista. Che le donne raggiungessero più orgasmi col vibratore che con utensili naturali, rivelatisi meno adeguati, rese l’amor di sé un atto politico e un indicatore “rigido” -come s’esprimono i filosofi del linguaggio – verso l’emancipazione. (L’industria fiorente dei sex-toys incassò gli abituali vantaggi che il capitalismo trae dalle contestazioni creative).
Il termine “clitoride” conteneva un’inerente ambiguità di genere grammaticale. Neutro in inglese, in italiano si presentò dapprima con morfologia femminile – la clitoride, per diventare poi maschile – il clitoride. Una transizione curiosa che continua a agitare i generi, quelli naturali e quelli linguistici, fino all’attuale guerra dei sessi: maschi (alquanto) predatori contro femmine (piuttosto) vittime; patriarchi attuali e matriarche possibili – una volta che alla fecondazione si sostituirà il clonaggio1.
Ad onta dell’affermazione di F. de Saussure sull’arbitrarietà del linguaggio, non smettiamo mai – con buona pace degli ontalgici – di rimotivarlo realisticamente. Quando i modi della parola sono omologati alle maniere dell’interazione, la sintassi diventa il teatro fazioso e perentorio d’una violenza linguistica di genere. In Francia si dibatte furiosamente sulla scrittura detta inclusiva che vorrebbe aggiungere ad ogni desinenza maschile il corrispettivo femminile. Anche in USA, dove i nomi sono neutri, si esigeva che almeno i pronomi (she/he/his/her) fossero simultaneamente espressi. L’esigenza di pari opportunità grammaticale cozza persino con gli accordi sintattici: non si dovrebbe permettere all’aggettivo che segue due termini di cui il primo è maschile e il secondo femminile d’accordarsi con il maschile e non con il femminile che lo precede immediatamente, D’accordo, ma questa lizza tra prede e predatori, linguistici coi suoi rumorosi effetti di realtà, non finirà qui: la lingua è vasta, stratificata e diversamente mutevole: si può guerreggiare in fonologia, sintassi, semantica, enunciazione, retorica e discorsi. Fino a scendere nel campo chiuso delle categorie semantiche fondamentali. La legge californiana, Change your Gender Bill, prescrive che la differenza di genere, assegnata alla nascita in base ai tratti somatici -i genitali – diventi una grandezza personale: l’identità di genere che incorpora segni, linguaggio e norme. Dalla “descrizione fisica del reale” alla “descrizione del sentirsi e dell’auto-identificazione”. Ne consegue che tutti coloro che non si identificano alla dicotomia biologica maschile/femminile troveranno l’etichetta Non Binario sui certificati di nascita e altri testi ufficiali. Una categoria logicamente privativa – quindi liberatoria e illimitata, dove stanno pigiati gender queer, gender fluid, Two Spirit, bigender, trigender, transgender, gender non conforming e gender variant e quant’altri ibridi e fusion. Un’etichetta che presuppone comunque un rapporto manicheo tra i sessi e il loro pudico significante, il genere.
2.
Spero non sembri anarchica l’opinione che lo stato non sarebbe tenuto ad interessarsi dei genitali dei cittadini, ma la lingua italiana e la cultura di cui è parte avrà altri gatti o/e gatte linguistiche da pelare. Intanto per i lessicologi “stabilire se un nome è maschile o femminile non è sempre facile” (Sensini). Sia per gli animati che per gli inanimati, a cui imponiamo sovente un genere purchessia. Chiamare in soccorso i neorealisti, noti per la dotta ignoranza sulle impervie delizie linguistiche, non caverà un ragno dal buco. Rinfreschiamo quindi le conoscenze elementari. Sono maggioranza i nomi di animali che hanno un solo genere, femminile o maschile (il ragno e la foca, il giaguaro e la balena) e gli oggetti che hanno generi difficili da motivare (la penna e il foglio, lo specchio e la faccia, ecc). Parliamo con nomi che cambiano di significato mutando il genere (il boa/la boa; il pianto/la pianta; la panna/il panno, ecc.); con i nomi sovrabbondanti, a doppia uscita, che dal singolare maschile diventano femminili al plurale (dita, calcagna, ciglia, braccia, ginocchia, cervella, ecc.). Per non ri-parlare dei generi comuni o promiscui, elegantemente detti epiceni (insegnante, giudice, giornalista). Tralasciamo i pronomi e i nomi propri alcuni dei quali sopportano le variazioni di genere, (Paolo e Paola, Francesca e Francesco) ed altri no (Anna non dà Anno, Chiara non dà Chiaro, come Salvatore non dà Salvatora). Soprattutto non chiediamoci perché in italiano gli alberi sono prevalentemente maschili e la frutta femminile (ma sono maschili i frutti esotici!). Maschili sono i vini, i monti, laghi, fiumi , gli anni, i mesi e giorni, e persino le preghiere (Angelus, Credo, ecc,). Femminili invece le città, le isole, i continenti, le vocali, le nozioni astratte e i termini militari (staffetta, recluta ,sentinella, vedetta, ecc – non mi capacito ancora che la “piccola vedetta lombarda” del libro Cuore non fosse una bambina!). A chi dare la babelica responsabilità del subbuglio linguistico (Fabbri) complicato dalle intricate desinenze -spavento degli stranieri italofoni? Oltre all’evoluzione socioculturale (l’automobile già maschile diventò femminile) e all’interferenza tra categorie interne alla lingua – per es. il genere si ibrida spesso col numero, a maggior disagio dei generi plurali?
Il maggior indiziato è il Neutro, già presente in greco e in latino ed ora nelle lingue germaniche e slave. Nell’italiano, come nelle altre lingue romanze, è scomparso -salvo qualche reliquia- e si è riciclato in massa nel maschile; un genere tutto-dire che è diventato estensivo rispetto al femminile, il quale è intensivo, ma scontento di esserlo. Con qualche ragione: nella più usurata metafora italiana “la donna è un fiore” il termine di paragone /il fiore/ è maschile a differenza del più galante francese e dello spagnolo. Lingue che ogni traduttore conosce come zeppe di falsi amici di genere: in spagnolo gli occhiali e il computer sono femminili e le maniere maschili. Mentre per il francese epigramma, epiteto, epitaffio, equivoco sono tutti femminili. Di qui la difficoltà di tradurre le lingue come l’inglese. Il fiotto dei prestiti che ci giungono da questa lingua franca sono imbarazzanti da collocare nella gabbia dei generi: va bene infatti il femminile per la show girl (ragazza); la full immersion (immersione) o la new age (età), ma il cheese cake (torta), il chewing gum (gomma) e il/la mail (lettera)? E decidendo di abbandonare la dicitura patriarcale “Diritti dell’Uomo” – scritto con la maiuscola – per “diritti della persona” (person è neutro in inglese) si è deliberato in coscienza di sostituire un maschile -l’uomo- con il femminile – la persona?
Insomma la lingua è un sistema che fa da sé, ma si può provare a sottrarle quote di vessatorio sessismo- in italiano i diminutivi sono spesso femminili e in spagnolo i genitori sono los padres! – senza però adeguare tutti i significati alla morfologia dell’inglese.
3.
E soprattutto non fermiamoci qui. Avanziamo, senza principio di grammaticale precauzione, una modesta proposta. Abbandonare la categoria (mal) vincolante del genere maschile/femminile e dare spazio al Neutro. Un termine che è il calco latino del greco udéteron, ‘né l’uno né l’altro’. Perché no!? Non vivono fuori dalla prigione binaria del genere il cinese e il turco, il giapponese e il persiano, l’armeno e l’ungherese, e via classificando? Eppure i locutori di queste lingue possono conversare amabilmente. E poiché siamo alla mozione utopica degli effetti, rammentiamo un patetico appello al Neutro: “il grande tema ritrovato” con cui Roland Barthes voleva movimentare il più vessatorio dei luoghi comuni, l’opposizione virile/non virile. Per il sagace semiologo, il Neutro era l’assenza di simbolizzazioni prefissate,”l’oscillazione amorale d’un fremito di senso”. Qualcosa di più della dilettosa insignificanza, del libero gioco di espansioni infinite (“testi gongoriani e sessualità felice”). L’utopico Neutro non sarebbe più il terzo termine di un’antinomia maschile /femminile, ma il secondo termine d’un nuovo paradigma dove il Neutro si oppone alla Violenza teatralizzata – esibizione, prevaricazione, intimidazione, vittimismo – di ogni genere.
Come sarebbe questo italiano neutro? Chiediamolo alla “scrittura bianca” (sempre Barthes!) della letteratura. Il resto è gossip.
Nota
- Mentre è socialmente e culturalmente fondata la norma di Femminicidio, postulare una natura predatoria dell’uomo potrebbe configurare qualunque omicidio commesso da una donna come un esercizio di legittima difesa.
Bibliografia
R. Barthes, Barthes di R. Barthes, Einaudi, Torino, 2007.
P. Fabbri, Elogio di Babele, Meltemi, Roma, 2003.
M. Sensini, La grammatica della lingua italiana, Mondadori, Milano, 2010.
Guerra de género. Una propuesta modesta (2018)
Traducción en español: Delia Tasso
1. ¿Terminaremos alguna vez de citar los acontecimientos y las fechorías del sesenta y ocho? Como todos los hechos sociales totales, este periodo inagotable supera la memoria, es decir, la contradicción entre la supervivencia y la nada. ¿Quién recuerda la primera misa en italiano tras dos milenios de latinorum y la destrucción de la estatua de un patrón iluminado como Marzotto por parte de huelguistas iconoclastas? ¿Y el estallido en el Pacífico de la primera bomba de hidrógeno francesa? Peores consecuencias tendría olvidar el descubrimiento del clítoris. No es que fuera un desconocido: como zona erógena debemos su descripción más detallada a Georg Ludwig Kobelt, un anatomista alemán de mediados del siglo XIX. Pero El mito del orgasmo vaginal, el panfleto antifreudiano de Anne Koedt, se hizo “viral” dentro del virulento movimiento feminista en 1968.
Que las mujeres alcanzaran más orgasmos con el vibrador que con utensilios naturales (que se demostraron menos adecuados) convirtió al autoerotismo en un acto político y un indicador “rígido” -como dicen los filósofos del lenguaje- hacia la emancipación. (La floreciente industria de los juguetes sexuales embolsó las ventajas que el capitalismo extrae habitualmente de las protestas creativas).
El término “clítoris” contenía una inherente ambigüedad de género gramatical. Neutro en inglés, masculino en español, francés y rumeno, en italiano empezó presentando una morfología femenina –la clitoride– para después convertirse en masculino: il clitoride. Una curiosa transición que sigue agitando a los géneros tanto naturales como lingüísticos hasta la actual guerra de sexos: machos (bastante) predadores contra hembras (más bien) víctimas; patriarcas actuales y matriarcas posibles, cuando la fecundación sea reemplazada por la clonación1.
Pese a la afirmación de F. de Saussure sobre la arbitrariedad del lenguaje, no dejamos nunca de remotivarlo realísticamente, para alivio de los pesarosos. Cuando los modos de la palabra están homologados a los modales de la interacción, la sintaxis se convierte en el teatro faccioso y perentorio de una violencia lingüística de género. En Francia hay un furioso debate sobre la llamada escritura inclusiva y su pretensión de añadir a cada desinencia masculina el equivalente femenino. También en Estados Unidos, donde los sustantivos son neutros, se ha pretendido poder expresar simultáneamente como mínimo los pronombres (she/he/his/her). La exigencia de igualdad de oportunidades gramaticales llega incluso hasta las concordancias sintácticas: al adjetivo que sucede a dos términos, el primero de los cuales es masculino y el segundo femenino, no se le debería permitir que concordara sólo con el primero y no con el segundo. Todo perfecto, salvo que este combate entre presas y predadores lingüísticos con sus ruidosos efectos de realidad no va a detenerse aquí: la lengua es vasta, estratificada y diversamente cambiante: se puede lidiar en fonología, sintaxis, semántica, enunciación, retórica y discursos, hasta salir al ruedo cerrado de las categorías semánticas fundamentales. En California la ley Change your Gender establece que la diferencia de género, asignada al nacer de acuerdo con los rasgos somáticos -los genitales- se convierta en una magnitud personal, la identidad de género, que agrupa signos, lenguaje y normas. De la “descripción física de la realidad” a la “descripción de cómo nos sentimos y autoidentificamos”. Todos aquellos que no se identifiquen con la dicotomía biológica masculino/femenino llevarán en sus partidas de nacimiento y otros documentos oficiales la etiqueta no binario. Una categoría lógicamente privativa y por ello liberatoria e ilimitada, donde se apiñan gender queer, gender fluid, Two Spirit, bigender, trigender, transgender, gender non conforming, gender variant y quizás cuántos otros híbridos y fusiones. Una etiqueta que en todo caso presupone una relación maniquea entre los sexos y su significante púdico, el género.
2. Espero que la opinión de que el estado no debería interesarse por los genitales de los ciudadanos no parezca anárquica, pero el idioma italiano y la cultura a la que pertenece tendrán que destejer otras tramas linguísticas. Para empezar, escribe Sensini, a los lexicólogos “no siempre les es fácil establecer si un sustantivo es masculino o femenino”. Vale tanto para los animados como para los inanimados, a los que a menudo les imponemos un género por si las moscas. No sacaremos a la aguja del pajar pidiendo ayuda a los neorrealistas, conocidos por su docta ignorancia de las arduas delicias lingüísticas. Mejor repasar los conocimientos básicos. La mayoría de los nombres de animales tienen un solo género, femenimo o masculino (la araña y el sapo, el jaguar y la ballena), al igual que los objetos que tienen géneros difíciles de motivar (la pluma y el mantel, el espejo y la cara, etc.). Algunos sustantivos cambian de significado cuando cambia el género (el pollo/la polla, el llanto/la llanta, el caño/la caña), para no hablar de los géneros comunes o promiscuos, llamados con elegancia epicenos (docente, periodista, militar). Dejemos de lado los pronombres y los nombres propios, algunos de los cuales soportan variaciones de género, Ángel y Ángela, Francisca y Francisco, y otros no: Ana no da Ano, Clara no da Claro, Salvador no da Salvadora.
Son masculinos los árboles y femeninos sus frutos. Masculinos los vinos, los montes, los lagos, los ríos, los años, los meses, los días y hasta las oraciones (Ave María, Credo, etc.), pero femeninas las ciudades y aldeas, las islas, los continentes, las vocales y las nociones abstractas. ¿A quién atribuirle la babélica responsabilidad de este desorden lingüístico (Fabbri) complicado por las intricadas desinencias, terror de los italófonos extranjeros? Más allá de la evolución sociocultural (automobile era masculino y terminó siendo femenino) y de la interferencias entre categorías internas de la lengua, por ejemplo, el género se hibrida con el número, para mayor complicación de los géneros plurales?
El mayor sospechoso es el Neutro, que existía en griego y latín y hoy sobrevive en las lenguas germánicas y eslavas. En italiano y en las otras lenguas romances ha desaparecido, salvo una que otra reliquia, y se ha reciclado masivamente como masculino, un género que lo dice todo y se ha extendido hacia el femenino, que es intensivo pero no está contento de serlo. No sin razón: en la más desgastada metáfora italiana “la donna è un fiore” el término de comparación /il fiore/ es masculino, al contrario de lo que ocurre en lenguas más galantes como el francés y el español. Lenguas que todo traductor conoce como repletas de falsos amigos de género: en español las gafas y la computadora son femeninos y los modales masculinos. Para el francés epigrama, epíteto, epitafio, y equívoco son todos femeninos. De aquí la dificultad de traducir idiomas como el inglés. Los préstamos que llegan de esta lingua franca no son fáciles de encerrar en la jaula de los géneros romances: vaya y pase por la show girl (mujer), la full immersion (inmersión) o la new age (edad), pero por qué il cheese cake (torta), il chewing gum (goma) y la mail (carta)? Y cuando se abandona la etiqueta patriarcal “Derechos del Hombre” -con mayúsculas- por “derechos de la persona” (person es neutro en inglés) ¿somos conscientes de estar reemplazando un masculino (el hombre) por un femenino (la persona)?
En definitiva, el idioma es un sistema que se autorregula, pero es posible tratar de sustraerle cuotas de sexismo vejatorio (en italiano los diminutivos suelen ser femeninos y en español los progenitores son ¡los padres!) sin adecuar por ello todos los significados a la morfología del inglés.
3. Y sobre todo no paremos aquí. Formulemos, sin principio de precaución gramatical, una modesta propuesta: abandonar la categoría (mal) vinculante del género masculino/femenino y dar espacio al neutro. Un término que es el calco latino del griego udéteron, ‘ni uno ni otro’. ¿¡Por qué no!? ¿Acaso no viven fuera de la prisión binaria del género el chino y el turco, el japonés y el persa, el armenio y el húngaro, y sus hablantes conversan tan campantes? Puesto que de moción utópica de los efectos se trata, recordemos una patética invitación al Neutro (“grand thème retrouvé“) con el que Roland Barthes quería soliviantar el más vejatorio de los lugares comunes, la oposición viril/no viril. Para el sagaz semiólogo, el Neutro era la falta de simbolizaciones prefijadas, la “oscillation amorale” de una vibración de sentido. Algo más que la deleitosa insignificancia del libre juego de expansiones infinitas (“textos gongorianos y sexualidad feliz”). El utópico neutro ya no sería el tercer término de una antinomia masculino/femenino sino el segundo de un nuevo paradigma donde se opone a la Violencia teatralizada -exhibición, prevaricación, intimidación, victimismo- de cada género.
Cóme sería este idioma neutro? Preguntémoslo a la “écriture blanche” (¡siempre Barthes!) de la literatura. Lo demás es chisme.
Nota
- Mientras la norma generadora del sustantivo Femi(ni)cidio está social y culturalmente justificada, postular la naturaleza predadora del hombre podría configurar cualquier homicidio cometido por una mujer como ejercicio de legítima defensa.
Bibliografia
R. Barthes, Roland Barthes por Roland Barthes, Paidòs, 2004.
P. Fabbri, Elogio di Babele, Meltemi, Roma, 2003.
M. Sensini, La grammatica della lingua italiana, Mondadori, Milán, 2010.