“Fabula rasa” ovvero gli occhi al cielo


Da: AA.VV., La fotografia. Oggetto teorico e pratica sociale. Atti del XXXVIII Congresso AISS, a cura di Vincenza Del Marco e Isabella Pezzini, Roma 8-10 ottobre, Nuova Cultura, Roma, 2011.


 

Il sereno è la più diffusa delle nubi (Montale)

1.

Il titolo, assegnato dagli organizzatori al mio intervento mi lascia libero di una ricerca non vincolata e a trovare una chiave per poterne parlare. Il metodo adottato è quello della semiotica standard nell’accezione di modello, di riferimento a un livello predefinito di qualità.
Nella “megaloscopia” contemporanea (P. Virilio) la fotografia si è come climatizzata e abbiamo un’abitudine quasi narcotica al suo uso. Qui mi interessano invece le Ex-foto, nel senso di Ex-voto, cioè dedicate, come per grazia ricevuta, all’illuminazione d’un problema di senso. L’autore o meglio il corpus testuale prescelto è di Luigi Ghirri, il quale sosteneva vigorosamente che il suo intento non era scattare foto, ma costruire immagini.
Il mio intervento s’inscrive quindi nel proposito di R. Barthes nella Camera Chiara: “Je voudrais faire une histoire du regard”. Senza però condividere l’opzione ontologica su cui si fonda, che ci sembra fondata sulla specificità del medium analogico a cui fa riferimento. Nella fotografia analogica infatti ciò che è particolarmente significativo, è la traccia, la presenza irriducibile, del soggetto che è stato o ha posato davanti all’obbiettivo. Una tecnologia che ha generato lo “spettro” della presenza. Ritengo che sia il momento di contrastare il presupposto referenzialista, le riflessioni sull’ontologia fotografica per porci risolutamente il problema della sua significazione testuale.
Sulla fotografia si è molto dibattuto: a partire da Ch. S. Peirce che la classifica tra gli indici fino alla filosofia analitica, v. la proposta di D. Walton per cui basterebbe fotografare una fotografia per ottenere un effetto di trasparenza. A parte la scarsa efficacia descrittiva del modello di Pierce (J. Elkins) ritengo che il riferimento a una lettura fenomenologica della luce (J. Fontanille) sia un buona base per una disciplina del sistemi e dei processi di significazione fotografica.
La digitalizzazione della fotografia ha provocato una crisi epistemologica comparabile a quanto accade nel campo cinematografico in rapporto al video. È una tecnologia costruzionista e impressionista ma non nel senso delle impronte del reale sui sali d’argento. La fotografia digitale combina unità minime, i pixel, che si ordinano in segni: segni di segni quindi e non di realtà. Non è trasparente al mondo, dà impressioni di referenza, effetti di realtà.
Si può parlare in diversi modi di fotografia, in maniera sistematica o aforistica, ma anche in questo caso va ricordato che la parola “aforisma” proviene da apo-orizein cioè da “determinare un orizzonte” e che è sempre necessario tracciare un pianodi consistenza. Cosa succede quando non fotografiamo oggetti o soggetti ma l’atmosfera? Quando mettiamo a fuoco il cielo?

2.

La ricerca di Ghirri, documentata nelle opere pubblicate nel libro Infinito, ci offre l’occasione per alzare la testa e rivolgere gli occhi al cielo: una semiotica ad alta quota. È questo il focus del mio intervento.
Il cielo è un buon oggetto per la fotografia – senza foto non ci sarebbe astronomia! – ma credo ci siano delle ragioni teoriche per guardare il cielo. Per Kant, sopra di noi stava un cielo ordinato – un firmamento – quanto l’ordine morale dentro di noi. A distanza di qualche secolo il nostro sguardo è rivolto dentro di noi – ai segreti genetici o cerebrali, mentre il cielo appare alll’astronomia contemporanea violento e strano – buchi neri e nane bianche. Anche la fotografia è generata da una strana macchina fatta di calcolo e di luce; puntarla al cielo, permette di rinvenire o di inventare oggetti recalcitranti, che mettono alla prova i nostri metodi.
Nella storia dell’immagine fotografica troviamo esempi rilevanti. U. Mulas ha tentato di fotografare il cielo e poi fare degli ingrandimenti e verifiche; nei cieli di A. Stieglitz – Equivalents (1923-31) – non c’è nulla salvo le nuvole cangianti, le cui variazioni atmosferiche erano già state sperimentate dallo stesso Daguerre, che, nel 1839, era già in grado di fare tre fotografie del cielo nella stessa giornata.
Il caso di Ghirri mi sembra più pregnante, perché rimette deliberatamente in causa una genere artistico come il panorama, ereditato dalla tradizione pittorica. Infinito, un’opera di 4 x 6.5 stampata a colori, fatta nel 1974, non è la mimesi di un cielo fotografato ogni mattina per un anno di seguito e non sempre alla stessa ora. È un catalogo in cui si evidenzia come si fa a non mettere in “posa” l’oggetto fotografato: si guarda dalla terra al cielo, all’esatto contrario della foto aerea che guarda la terra dal cielo.

Fig. 1
Alcune di queste fotografie non rappresentano nulla, neppure una nuvola, salvo in una dove si trova, per caso un aereo lontano. La norma costante è un cielo assolutamente vuoto e cromaticamente sfumato. Almeno quaranta cieli dell’atlante sono appena di diversa tinta ed è impossibile stabilirne l’orientamento. Un gesto radicale quanto sistematico, una sfida al visibile, agli spettri che abitano le emulsioni fotografiche.

Fig. 2
Già nel 1973 Ghirri aveva pubblicato la serie Atlante, foto di mappe ingrandite fino ad essere illeggibili. Queste fotografie della terra sono il contraltare delle foto del cielo in Infinito. Qui si manifesta l’approccio sistematico di Ghirri, che va oltre la “climatizzazione quotidiana” degli sguardi mediati, per mettere in gioco alcune categorie semiotiche ed estetiche dell’immagine fotografica.
Ghirri era ed è noto per scattare “panoramiche” classicamente ed esattamente prospettiche, fatte di linee convergenti – solchi, canali, ecc. – a volte mediate da una cornice interna all’immagine: ad es. due colonne, che orientano il guardare verso il terminale prospettico. La convergenza delle linee, il punto di fuga, è però bloccata da una linea trasversale: strategia nota agli Impressionisti e specialmente a Van Gogh. La linea d’arresto della fuga prospettica non è netta e determinata: sfuma nelle nebbie della terra padana di cui Ghirri ci offre un’interpretazione poetica e costruita. La nebbia è, alla lettera, un fading dello sguardo, un vanishing point, cenno allusivo verso un esito indeterminato. “Mi piace” – dice Ghirri – “usare l’atmosfera che impedisce di vedere lo sfondo”. Si potrebbe accostare la ricerca di Ghirri ad alcuni tratti del manierismo: l’esperienza della luce, la distruzione del cubo prospettico e additare una vicinanza con il Correggio?

Fig. 3
Fig. 4
I semiologi chiamano “deissi”, l’atto ostensivo che crea l’inquadratura, scelta dall’occhio “veggente” del fotografo e “enunciazione enunciata” la cornice interna, operatrice d’ulteriori focalizzazioni. Le foto terrestri di Ghirri usano d’una “deissi fantasma” (Buhler), un’indicazione sospesa che enuncia con fermezza qualcosa che sottrae al vedere. Nel co-testo di questa serie fantasmatica si collocano le fotografie del cielo, che Ghirri chiama foto “celesti”; “un atlante cromatico di 365 possibili cieli” – scrive nell’introduzione a Infinito – “di segni puri a partire dalla riconosciuta impossibilità di tradurre i segni naturali“. Un’autodescrizione semiotica “connotativa” di cui tener conto – una poetica di cui far tesoro – per rifigurarla dentro la terminologia “denotativa”. Ghirri è critico rispetto alla mimesi della natura, convinto com’è che spetta al linguaggio fotografico caratterizzarla. Scrive ancora: “[È]… in questa non possibile delimitazione del mondo fisico della natura dell’uomo, che la fotografia trova validità e senso, in questo suo essere un linguaggio assoluto, nel farci riconoscere la non delimitabilità del reale; qui trova la sua saturabilità e la sua autonomia”.

3.

La prima osservazione riguarda il cielo: quello di Ghirri è differente da quello dell’astronomia, della fotografia aerea, ed anche da quello della “nefologia”, la rappresentazione delle nuvole. Sa che la storia del cielo è quella di una fisiognomica mal conosciuta e mal nominata. E che reperire e classificare in segni – astratti o semimotivati, nominati, interdefiniti, combinabili – i mutevoli turbamenti atmosferici è il grande progetto che va da Lamarck a Goethe, dalla fine del XVIII all’inizio del XIX. Fino a Luke Howard, il quale, in buon latino, ha codificato le forme del cielo – cirri, nembi, cumuli e cosi via. Una terminologia utilizzata ancora oggi per il riconoscimento distintivo della forme di ciò che sembrava difficilmente raggiungibile: un sapere rigoroso delle nuvole. L’atmosfera come luogo di segni infinitamente ricorsivi, è il luogo della riflessione scientifica e Goethe, in una famosa poesia, dedicata proprio a Luke Howard, propone di acquisirne i termini per tornare successivamente al cielo dell’esperienza. L’occhio fotografico di Ghirri procede al contrario da un riconoscimento degli elementi del mondo – i segni naturali – per riportarli al cielo dell’arte – i segni puri.
Renè Thom, un matematico che molto ha scritto di linguistica e semiotica come “discipline morfologiche esemplari”, traccia due percorsi a partire dalla percezione: (i) scendere analiticamente verso le salienze del mondo, ed è il movimento della scienza, che approda infine ad un “cosmo” indifferente oppure (ii) risalire verso le pregnanze di valore fino all’estremo “caos” emotivo e simbolico.
Ghirri sa come descrivere nuvole e cielo – conosce il cielo non vuole andarci (Galileo) – e a partire da queste salienze vuol risalire verso una pregnanza diversa. Quale?
Pe rispondere parto da un suo titolo: Fabula rasa, chiaramente lontano da ogni celeste trascendenza. Infinito è uno spazio zero su cui si possono disegnare tutti i segni e i prodigi – non UFO ma UFS, Unidentified Flying Signs – che possono apparire e sparire. Per l’osservatore è l’expérience du dehors, di cui parla tra gli altri Foucault, l’annullamento dell’atto enunciato da una soggettività articolata, il vanishing point all’interno del paesaggio. Come la nebbia che ostacola e disperde le istanze di enunciazione, gli operatori delegati ad organizzare il dispositivo prospettico.
La camera di Ghirri non è la camera dolorosa di Barthes che coglie, accoglie e raccoglie le sofferenze per la morte della madre. È una camera davvero chiara, apparentemente equanime, sprovvista di pathosformel, dove l’immagine si fa quasi acheiropoetica – non digitata da mano umana. Infinito è una specie di “Operetta morale” leopardiana dove avvertiamo, come nel Cantico del gallo silvestre, “un silenzio nudo, una quiete altissima”. Coglie il mondo in flagrante delitto d’indifferenza, strizza l’obiettivo a un cielo vuoto e sorprende le cose nel loro apparire/sparire. Come il deserto terrestre che per il fotografo J. Baudrillard era un simulacro incondizionale – ispirato forse alla Land Art o all’Antonioni di Zabriskie Point – così l’album Atlante di Ghirri è un operatore elementale (non elementare!) di un’indifferenza cosmica, ma anche un attrattore virtuale pregnanza e di senso. Il cielo sta all’atmosfera come i deserti al panorama.
Questo almeno per quanto riguarda lo spazio. Quanto al tempo invece, rammentiamo che per Ghirri la fotografia è sempre “una narrazione in sequenza”: per lui il fascino della foto sta nel contenere e condensare uno svolgimento. L’anno trascorso nelle fotografie del cielo è una sfilata di presenti; l’Atlante non è un’istantanea ma una “succedanea”: immagini iterate nel tempo non del tempo. L’atto fotografico di “tutte le mattine del cielo” è un ritornello che coniuga il punctum dell’istantanea allo studium della ripetizione. Un mantra visivo, un rituale quotidiano.
Quello di Infinito allora non è un paesaggio “a vuoto”, ma uno spazio disponibile per i percorsi e agli incontri, per la scienza e per lo zodiaco, per i termini e i terminali, i fini e il destino.


Luigi, Ghirri, Infinito, Meltemi, Roma, 2001.
Infinito. L’installazione è di 4 metri per 6,5, stampe a colori. Sezione fotografica del Csac, composta esposta 1979 con foto del 1974 per la mostra presso il Salone delle Scuderie, Museo di Parma.

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