Le forze del segno


Da: Catalogo della mostra “Antonin Artaud”, PAC, Padiglione Arte Contemporanea, Milano, dicembre 2005.


Pensare, non sognare è il nostro dovere
(Antonin Artaud, “Van Gogh, il suicidato della società”)

Pensare con Artaud è giostrare col fuoco, esposti al caos della sua fiamma, energia e luce, alla fluttuazione dei bordi tra vita e scrittura. Un supplizio per la critica schiacciata tra il peso della biografia e la complessità dei testi – saggi, narrazioni, teatro, cinema, poesie, traduzioni, pittura. Il rischio è che il corpus dell’opera occulti il corpo o che questo travalichi la “carne verbale” (Noel). Ma la posta è altissima: “trovare un nuovo statuto dei rapporti tra esistenza e testo, come tra due forme di testualità e la scrittura generale nel cui gioco si articolano” (Derrida, 1980).
Si tratta quindi di approfondire l’enigmatica congiunzione della follia e dell’opera, per sapere di più su ciascuna di loro e giungere a una esperienza affermativa, che tragga da versi, gesti, apparizioni, balbettii e grida il vigore di un nuovo pensiero1. La critica è forzata a farsi clinica per coglierne il senso insolito, la singolarità selvaggia: clinica per riconoscere la disorganizzazione progressiva e creatrice della mente, critica per scoprire nel non senso apparente le differenze di linguaggio che ne cambiano la figura. Emergono così due momenti consecutivi e conseguenti nel metodo di drammatizzazione di Artaud: lo sfondamento e la rifondazione.

1.

Ho visto quel segno
(Antonin Artaud, “Al paese di Tarahumara”)

Il critico clinico deve quindi rinunciare all’esemplificazione – usare Artaud come martire dell’arte – e sostituire l’interpretazione con la sperimentazione. In primo luogo sui segni e sulla lingua2.
Artaud ha riflettuto sul teatro come luogo dove gli oggetti ordinari e il corpo umano sarebbero “elevati alla dignità di segni”. Le forme linguistiche non bastano al “linguaggio fisico” della scena, che è votato a realizzare, con la musica, le immagini e i gesti, “un segno poetico e magico”. L’attore è un carniere di segni: recita e cita un testo sincretico scritto in caratteri geroglifici. Le espressioni del suo viso andrebbero, come gli ideogrammi, etichettate e catalogate, per partecipare direttamente e simbolicamente a un linguaggio concreto. Per Artaud, infatti, i lineamenti più profondi della figura umana sono tracciati in uno spazio geometrico vivo, scritto nei segni elementari di cui la terra primordiale dei Tarahumara serba l’alfabeto e la nomenclatura visibile. Sono numeri, lettere, figure di geometria – triangoli, cerchi, croci – e colori, sparsi per ogni dove e su ogni supporto: rocce e ombre, vestiti e oggetti rituali.
Nietzsche e Freud avevano già rintracciato la scrittura geroglifica della poesia, della musica o del sogno, ma la fonte prima di Artaud sono i burroni nel Gordon Pym di Edgar Allan Poe. Un gigantesco sistema di camminamenti, buchi e baratri in forma di triangoli e nodi; lettere di antichi alfabeti che disseminano la polvere e la nera roccia di granito dell’immaginaria isola di Tsalal.
I 'burroni' dal 'Gordon Pym' di Edgar Allan PoeCosì è il Messico dei Tarahumara: terra costruita, scrive Artaud, come “i paesi della pittura […] presentazione trascendentale e dipinta delle realtà ultime e più elevate. […] Segni d’un linguaggio basato sulla forma stessa del respiro quando si sprigiona in sonorità” (Antonin Artaud, Al paese di Tarahumara).
Nonostante le diversioni e le cadute esoteriche, il segno sincretico di Artaud – parola visibile, sguardo eloquente – non è l’espressione ridondante di una mitologia, ma un’energetica universale che esige una nuova relazione interlocutiva, un principio efficace di destinazione. Il proposito dell’inventore del corpo senz’organi non è solo ridurre la divaricazione tra la forza e la forma o seguire la faglia tra un segno intelligente e un segno intenso, ma suscitare l’emergenza di forze di trasformazione nei diversi mezzi e forme espressive. Il teatro della crudeltà, come una centrale surriscaldata, consiste in “trasferimenti di forze / dal corpo / al corpo”; una tensione forsennata volta a “cancellare una scrittura apocrifa che sottraendomi l’essere…, mi teneva a distanza dalla forza nascosta” (Antonin Artaud, Al paese di Tarahumara).
Artaud ha una teoria e una tassonomia delle forze che agiscono sul corpo e sul testo, sulla voce e sull’immagine: forze repulsive e dilatanti, compressive e astringenti, espulsive e rotatorie. Forze in campo, attive e passive: tutto un montaggio di attrazioni e di repulsioni destinato a slogare il corpo e il linguaggio articolato, per far emergere un nuovo senso e indicare un altro destino.
Un rovello incessante che è, etimologicamente, una ribellione.
Derrida (2005) si è interrogato più d’ogni altro sui getti d’energia esplosiva che percuotono e perforano gli scritti e i disegni di Artaud. Colpi di mano, chiari gesti performativi che generano oscure forme; compromettendo o mettendo in opera un equilibrio vibrante di tensioni contrapposte che presiedono al calcolo delle forme e dei segni. È Deleuze (2003), però, ad aver colto appieno la guerra senza quartiere che Artaud dichiara al corpo organico e ai suoi linguaggi: l’anatema gettato sull’anatomia simbolica e la rivendicazione di una forma altra di significanza e di inter-soggettivazione. L’ingiunzione di una Forma-fiamma fatta di velocità differenziali, risultato provvisorio di uno strappo e di uno strazio; movimento fuori di sé, che vuol operare un transfert e una trasfusione nell’altro da sé (Noel).

2.

È in questo senso quindi che mi propongo di sperimentare un corpus linguistico di Artaud, la glossolalia e l’incontro, corpo a corpo, con una pittura che dipinge forze: I corvi di Van Gogh.

2.1.

“Yo mertin/di/bartarelda/bartaeda/ti matra/yo markoum/ti forradira/ya medlira/tenitra to kanpoumg/a/askourda/a/tenskida/fatsitra/Merde” (OEuvres complètes, tomo XIV).
La parola è necessaria, per Artaud, anche quando non ha significato. I suoi ultimi scritti sono costellati di composti grafici che hanno l’apparenza di morfemi e di sequenze frastiche, che per il recluso di Rodez erano “sequenze di sillabe” e per i critici-clinici “glossolalie”. Parole agglutinanti d’un discorso inarticolato: consonantico, gutturale e aspirato, pieno di apostrofi e di accenti interni, ansiti e scansioni, una modulazione che sostituisce i valori sillabici e letterali.
Le possiamo leggere, ascoltare o pronunciare nella tradizione delle avanguardie storiche da Mallarmé ai futuristi fino alla poesia transmentale dei russi, lo Zaum. O ricondurle al dialogo tra teologia e misticismo. O farne una costellazione di sintomi, dissoluzione schizofrenica del dire, verbigerazione. Ma dimenticheremmo il proposito di Artaud: cogliere nuovi concetti espressi in un vero linguaggio:”ogni linguaggio vero è incomprensibile”; “Il pensiero non è sotto ma tra le parole”. Questi simulacri verbali, che derivano dalle necessità della parola futura, più che da una parola già formata, pongono radicalmente il problema del senso.
L’assenza della significazione lessicale ha attratto l’attenzione di chi vede la lingua come un dizionario, un sistema di rappresentazioni e di riferimento. Eppure Artaud, con queste “frasi valigia”, intendeva “fare sempre una forma nella non forma”. Una forma di soggettivazione e d’interlocuzione, ottenuta attraverso tutte le relazioni tra il corpo, la qualità della voce, il periodare, la scansione prosodica, nonché gli atti di linguaggio e tutte le forze performative intese a rinnovare i termini d’una comunicazione scaduta.
Nelle cosiddette glossolalie ci sono due utopie. La prima è fonica ed è il contrario di Babele. Si tratta di esplorare tutti i suoni d’ogni possibile idioma, producendo, per combinatoria sillabica, ogni parola umanamente possibile. Per questo la “glossolalia” genera il non senso – che a volte Artaud traduce in francese o viceversa – oppure la xenoglossia, cioè l’emergenza di un lessico straniero nel garbuglio dei suoni. Questo dono “pentecostale” delle lingue si staglia sullo sfondo dell’amataodiata lingua materna. Paule Thévenin (1993) riteneva che si trattasse di italiano:”faceva sentire tutte le lettere [la “u” in particolare] con una pronuncia molto più vicina all’italiano che al francese”. Quanto ad Artaud, egli diceva spesso di parlar “turco”, alludendo al suo levantino poliglotta di marsigliese.
La seconda utopia è somatica: l’attivazione carnale dell’intero apparato fonatorio: lingua, denti e cavità orale e variazioni del respiro: “ripercorro per ogni vibrazione della mia lingua tutte le vie del pensiero nella mia carne”. Non bisogna farne però una postura estatica, un’eruzione pulsionale, la trascrizione di un balbettio insensato e di un grido ansimante. Per Artaud si trattava d’insegnare alle parole un nuovo comportamento!
Meglio seguire quindi la via tracciata da Deleuze e Guattari (2003) che, davanti a questi ansiti verbali sgrammaticati ci avvertono: questa nuova lingua non è esteriore alla lingua, è solo il suo esterno. Le sillabe in libertà non sono un antilinguaggio: utilizzano una potenzialità che è insita nell’idioma, ne mettono le variabili in variazione continua. Sono segni, duri o molli di un puro idioma-affetto; “ideofoni” che significano direttamente le azioni e le passioni del corpo3.
Perché allora non proseguire l’esperimento, evitando le vacue analogie musicali e richiamando la nozione di forza? Potremmo distinguere allora tra i toni gravi e gli acuti e soprattutto tra i fonemi diffusi, a bassa concentrazione d’energia, e quelli compatti, esplosivi e turbolenti. La sequenza consonantica compatta /d-t-k/ – in cui Paule Thévenin (1993) riconosce l’anagramma di /Artaud/ – è davvero esemplare. Le esplosioni e le transizioni sonore dettano un ritmo, fatto di intervalli, alternanze e sovrapposizioni, cadenze di respiro che ne variano l’intensità sensibile. Leggere è sentire l’ansito di Artaud, la sua asfissia e la sua ispirazione e contemporaneamente riconoscere nelle “locuzioni insensate” le forze e gli atti linguistici della declamazione. Sono gesti vocali come le imprecazioni e le ingiurie, le rampogne e le invettive, le maledizioni e le assoluzioni. Artaud proferisce e fulmina: anche i nomi propri come Hitler (!), sono esclamazioni e improperi!
La lettura delle “glossolalie” riserva altre sorprese al critico-clinico: il persistere di un simulacro quasi lessicale, non superiore alle quattro sillabe (i “vocoidi” familiari agli attori e ai musicisti), e quasi grammaticale – quasi articoli e quasi preposizioni. E soprattutto quasi pronomi, in cui emerge, nel conflitto delle istanze soggettive (l’io e il me), una singolarità fluttuante in cui domande e risposte si fondono. In alcuni testi di Artaud le “glossolalie” sgorgano subito dopo la descrizione di un viso! C’è poi un’ultima, decisiva ragione per togliere alla “glossolalia” l’ipoteca medica che la descrive come borborigma d’un folle: la costruzione poetica e le proprietà peculiari del verso. Come in altri suoi componimenti scritti in un francese semanticamente corretto, anche le “sillabe” di Artaud sono distribuite secondo lunghezze, durata e strofe. I versi sono in maggioranza ottosillabici: distribuiti in non più di tre morfemi lungo una strofa secondo versi d’eguale lunghezza, realizzando sovente una tipica figura della dissimilazione fonetica: l’ablaut (Jakobson).
“raibend/oi na mintrend/ointrend/neintrend/o pennitra”
“bartaelda/bartaeda/cohedir/coedira/coedi/safan/sfatsa/sfasa/fardu/fardumo/droarg taorg/droarg /darg/droarg daor” (OEuvres complètes, tomo XIV).
Questo principio poetico è radicale (Lotman). Dissolvere la parola “ordinaria” è infatti la strategia propria del verso: attraverso la ripetizione fonica, le pause, gli spostamenti d’accento e le variazioni ritmiche, la riga poetica viene smembrata fino alla sillaba, al fonema o al grafema. “La poesia, che riporta ordine, suscita prima il disordine: fuoco gesto sangue grido” (Antonin Artaud, Eliogabalo, o l’anarchico incoronato).
E ancora: “un trous sans mot,/syllabes sons/syllabes sons/mors sans de/il balayèrent le sens, avec la haine des sens”. In effetti, se tutte le sillabe vengono accentate, l’accento non discrimina più la morfologia delle parole e il loro senso. Si creano così espressioni improvvisate o astruse, che talvolta possono coincidere con vocaboli francesi o di altre lingue. È questo il fondamento della xenoglossia:”il verso rifà una parola totale, nuova, straniera alla lingua” scrive Mallarmé;”una lingua creola” soggiunge Lotman.
Tuttavia l’effetto non è solo quello, ornamentale, di dare alla linea poetica una diversa sonorità e solennità. Nel verso, la plasticità della lingua ha una capacità complementare di significato. Le parole che suonano “vuote” sono artifici negativi; contrassegni di significati altrimenti impossibili a proferire. I sensi nuovi sono generati col metro e con la generalizzazione del principio della rima, la quale, col parallelismo della posizione e del suono, crea sinonimie impossibili nel linguaggio ordinario. Il balbettio della parole introduce un principio d’eterogeneità nella langue.
La composizione poetica nel suoinsieme diventa allora un “segno integrale” che semantizza tutti gli elementi
non dotati di significazione, concentra e moltiplica i pensieri e ridispiega le forze. Il sillabare di Artaud è forsennato – un senso incantatorio e magico per la forma e per le sue emanazioni sensibili -, ma non è dissennato – “una forma di contenuto deve pur esserci” – nota Deleuze, 2003 – “in queste forme lontane dall’equilibrio”.
Questa parola blesa, attraverso la sua intonazione, trova la forza di stringere un nuovo patto di comunicazione. Ogni intonazione è animista: cerca l’interazione attraverso l’interiezione. Nella poesia di Artaud i soprassalti sonori – apofonie ed eterofonie – e le percussioni grafiche sono forze che hanno la forma d’un grido. Non è l’urlo animale ma, etimologicamente, il richiamo rivolto all’altro uomo – l’etimo di “gridare” è quiritare: il rapporto tra concittadini. La sua esecuzione, lungi da ogni transe “glossolalica”, esigeva, per Paule Thévenin (1993) un duro studio durevole e un costante sforzo di delucidazione4.
Il suono che ricostruisce l’ascolto è uno soltanto dei regimi di segni eterogenei,” macchine semiotiche”, in cui s’esprime quest’idioma universale e segreto, che Artaud pretendeva consegnato in un Libro perduto e dal titolo glossolalico: Letura d’Ephahi Falli Tetar Fendi o Photia o Firtre Indi. Testo che immaginiamo scritto per analfabeti, redatto in geroglifici e istoriato d’immagini; dove la pittura s’infiamma con la scrittura e la linea e il colore scambiano le loro forze con le frasi. Per Artaud, infatti, la pittura si sente quando la parola si disegna; la pittografia si ascolta come la musica e l’occhio è scosso quanto l’orecchio. Il disegno è una scrittura da sciogliere e riannodare altrimenti. Anche i fori di matita e di sigaretta che costellano le pagine scritte nella reclusione di Rodez hanno una radice sonora: la parola “buco” deriva da “bocca”!
La poesia di Artaud, con i suoi ideofoni, investe l’immagine coi suoi ideogrammi: “guardando certi quadri [di Artaud] si ha come l’impressione che è la sillaba ‘ra’ che li ha generati e che ‘ra’ s’espande nel tratto o nel colore” (Derrida, 2004, 2005). Nei disegni volontariamente maldestri di Artaud c’è un’inimitabile destrezza: cercare al di là della lingua e della figura un piano soggiacente, dove la sequenza di suoni “r, tr, br, ra” genera i disegni; dove “letteralmente si informano le forme e si forgiano innanzitutto nella lingua o meglio nella trachea, là dove le differenze glossematiche non hanno ancora significato [ma sono] pronte asovraccaricarsi di senso”. La compattezza dell’energia fonetica e grafica si diffonde; le intonazioni diventano oggettive, “solidificandosi” nei ritratti e negli autoritratti. Pronte sempre a irradiare nuove energie. Lo sfondamento dei parametri linguistici ordinari è simile alla catastrofe visiva d’un quadro. Esperienza somatica, visiva e vocale, che sfigura l’ordine iconografico e grammaticale, perché vuol rifondare un’altra testualità, inaudita e mai veduta.

2.2.

Descrivere un quadro di Van Gogh, a che pro?
(Antonin Artaud, “Van Gogh, il suicidato della società”)

Vincent van Gogh, 'Corvi sul campo di grano', 1890 (Olio su tela; van Gogh Museum, Amsterdam)Nel secondo esperimento i ritratti e le descrizioni di Artaud si articolano ai volti e alle vedute di Van Gogh.
Per Artaud, come per Nietzsche e Klages, la fisionomia – d’un viso o di un paesaggio – è allegoria di forze in azione, del loro antagonismo dinamico (Ausdruckgelande). Nell’autoritratto di Van Gogh, come nel proprio ritratto eseguito da Balthus, egli riscontra i vettori che ne fanno “un geroglifico animato”, “un totem di potenza”. Riconosce a Balthus d’aver realizzato una somiglianza interiore e plastica: “l’abbandono e il disgusto del profilo femminile sinistro, che si lascia dietro un amaro passato e il lato ardente, vivido e indagatore del profilo destro, pronto a divorare il mio avvenire”5. Non si tratta di svisare, cambiare connotati e connotazioni, disfare le fattezze abituali e i loro feticci sociali, ma di trasmutare “filosoficamente” le procedure di soggettivazione.
L’autoritratto di Van Gogh “sembra avanzare per divorarci e poi nel momento in cui la stretta sta per richiudersi, si nota lo sguardo sospeso, volto dall’altro lato”. Di questo viso, Artaud coglie il momento “in cui lo sguardo, scagliato contro di noi come la bomba di una meteora, assume il colore atono del vuoto e dell’inerte che lo riempie”. E ancora:”sguardo divorante penetrante acutissimo, osceno quasi a forza di penetrazione, di sincerità e che al contempo è sguardo vuoto, cavo, stravolto, ritratto indietro, riverso su di un fuori subesterno, più tremendo di tutti gli interni”. Come descrivere meglio la forza rotante degli occhi di Artaud stesso nelle fotografie, nei fotogrammi e nei suoi disegni? Un vettore che compone potenza e atonia e penetra simultaneamente nello spazio interiore e in quello dell’osservatore. Sguardo che salta gli occhi e trasforma una storia altrui nel discorso che ci riguarda.
Artaud era deluso da Picasso che “definisce se stesso ben più di quel che esprime”. La pittura delle forze e le loro trasmutazioni, Artaud la incontra solo guardando I corvi, ultimo dipinto di Van Gogh, “grande opera’” alchemica o crudele dramma elisabettiano. Il paesaggio vi è letto, come già il territorio dei Tarahumara, come pittura geroglifica, fatta di figure geometriche, numerologie e caratteri tipografici. Quanto ai corvi, sono come filze di virgole in una grafologia del paesaggio. Ma più di ciò che il quadro enuncia ad Artaud interessano i dispositivi della sua enunciazione, il volto di Gorgone che sta al centro d’ogni dipingere. Van Gogh non cerca infatti il racconto e la rappresentazione: è la forza rotante e contorta dello sguardo “che ci ispeziona e ci spia, che ci scruta con occhio truce” che “ce ne fa venire incontro, sporgente dalla tela rappresa, l’enigma”.
La libertà costruttiva del nostro esperimento ci permette ora di riconoscere l’acume con cui il “folle di Rodez” legge il “malato mentale” della Provenza. Nel 1946, l’anno della mostra di Van Gogh a Parigi e che precede alla pubblicazione del “suicidato della società”, Meyer Shapiro, il grande storico americano dell’arte, legge I corvi per farci comprendere che ad Artaud questi uccelli del malaugurio giungono come un presagio fausto e quanto sia tranquilla la convulsione apparente del dipinto. Shapiro riconosce infatti in quest’opera un vero e profondo lavoro di calcolo, articolato in due istanze contrapposte: dapprima una forza violenta di disintegrazione, poi una contromisura che, al colmo dell’angoscia e della desolazione, genera un dispositivo plastico e cromatico come segno e operatore di “buona salute”. Da critico clinico, esplora il quadro come un teatro della crudeltà in cui il formato insolito – basso e fortemente allungato – e l’incertezza prospettica, rarissimi nello stesso Van Gogh, gettano lo spettatore in uno stato confuso e inquietante. Le linee dei tre sentieri divergenti che sembrano scomparire nel grano o fuoriuscire lateralmente, convergono “come torrenti precipitosi, dall’orizzonte verso il primo piano, come se lo spazio avesse perso improvvisamente la propria focale e il tutto si rivoltasse aggressivamente contro lo spettatore”. Mentre la prospettiva legittima presuppone uno spazio oggettivamente compiuto e distinto dall’osservatore, nei Corvi invece “lo spazio emana dal suo occhio come una scarica gigantesca che si concretizza in un agitarsi ininterrotto di linee marcatamente convergenti”. La terra sembra resistere all’imposizione prospettica, i centri sono dissolti – anche il sole è una massa oscura e indistinta, senza centralità -, le divergenze prospettiche impediscono il movimento diretto al punto di fuga. Lo stormo sinistro dei corvi, zigzaganti figure di morte, proviene dal lontano orizzonte, cresce e s’allarga avvicinandosi, mentre i campi triangolari, senza distorsione prospettica, si dilatano allontanandosi. Questi uccelli geroglifici volano dall’orizzonte verso il primo piano, si approssimano allo spettatore e ne invertono il percorso visivo verso il punto di fuga. È lo spettatore quindi a diventare il loro fuoco prospettico. Il movimento divergente e ondulatorio dei sentieri e la serie in movimento dei corvi presentano una prospettiva temporale, l’imminenza crescente d’un istante in arrivo. L’osservatore sembra paralizzato dal presentimento d’un fato incombente e infausto e il volere stesso dell’artista sembra bloccato: il mondo muove verso di lui e lui non può muoversi verso il mondo. Il cielo dei corvi, basso e soffocante, si estende oltre la portata dell’individuo e finisce per inglobarlo. È “il desiderio compulsivo di essere inghiottiti [scrive Shapiro] e di perdere la propria individualità nell’infinito”.
Oltre la danza frenetica delle pennellate, la lettura procede verso un livello più profondo e più astratto. In un cosmo che ha la semplicità d’una stratificazione originaria, i contrasti visivi più elementari diventano poeticamente essenziali. E qui – pur nella paralisi e nella dissoluzione del mondo e della soggettività che altri traducono in sintomo di disturbo mentale – vibra una controforza rasserenante, un dispositivo di resistenza – geometrico per le forme e aritmetico per i colori – che ci rinvia alla lettura “allucinata” di Artaud.
Nei Corvi, la frequenza dei colori è inversamente proporzionale all’ampiezza e alla frequenza delle aree. Sembra quasi che l’artista abbia disposto “una numerazione: uno è l’unità, l’ampiezza, la dimensione definitiva, il cielo puro; due è il giallo complementare della doppia massa di grano maturo, divisa e ondeggiante; tre è il rosso dei sentieri divergenti che non portano da nessuna parte; quattro è il verde del tappeto intatto di questi quattro sentieri: ennesimo elemento della serie, ecco la progressione interminabile dei corvi”. Inoltre, i due spazi divisi, il cielo e le strade, sono poi “riconnessi da tocchi supplementari di colore che riprendono, senza mutarle, le forze più ampie dell’insieme e instaurano dei legami tra zone separate. Due macchie verdi nel cielo blu sono riflessi, pur offuscati, del verde dei sentieri; numerosi tocchi di rosso sul campo di grano lungo la linea dell’orizzonte riprendono il rosso dei sentieri”.
Shapiro coglie nel quadro gli effetti di tristezza e desolazione, ma ne riconosce anche la salute e la forza. Proprio come Artaud, il quale rinviene nei Corvi la guerra degli elementi, distrutti non appena ricomposti, ma vi coglie anche, in fieri, l'”insurrezione della salute”. Perché la buona salute “è pletora di mali collaudati, di formidabili ardori di vivere, da cento ferite corrosi, e che bisogna comunque far vivere, che bisogna indurre a perpetuarsi”. Il “re Van Gogh”, come lo chiama, “non ha mai avuto paura della guerra per vivere, cioè per strappare il fatto di vivere all’idea di esistere”.
Come il pittore olandese, Artaud il forsennato non è un insensato e il suo dissenso estetico non è dissennato. Con la ripartizione delle linee, la consonanza dei colori e delle forme, trova scampo da ogni malformazione, attraverso l’opera e nell’opera: il fuori senno prende più senso e più valore (Derrida, 2005).

3.

Al maestro di ciò che non c’è ancora6

Si potrà mai compilare la grammatica dei segni con cui Artaud ha tracciato – pronunciato, scritto e disegnato – le incognite dell’infrasenso? Sperimentando con lui ciò che non è visibile senza essere nascosto e quel che non è dicibile senz’essere taciuto? La sua ricerca, condotta fino al totale annientamento, non ha abdicato mai alla vita e il forsennato è rinsavito nella mutazione di nuovi saperi. Nonostante il suo “impotere ” – o grazie a questo – l’internato di Rodez ha generato nuovi pensieri e ci ha consegnato nuovi atti: ha cancellato vecchie parole e ne tracciate di nuove.
Oggi non è più il tempo di quelle discipline del corpo e della mente. Non è più la società della repressione, quella delle prigioni e dei manicomi: i problemi politici e artistici sono quelli della comunicazione e del controllo. Anche la cultura dello spettacolo non è più quella del teatro, ma della televisione: del suo senso comune sono piene le fosse. Eppure Artaud resta un tratto necessario e un doppio filo tagliente tra le parole presente e futuro. Un interlocutore intrattabile nella sua domanda incessante di altri occhi e orecchi. Ogni volta che ci sale alla gola l’asfissia del plausibile e del probabile è a lui che chiederemo “il possibile, più possibile ancora”.


Note

  1. Quali che siano i precedenti filosofici – Nietzsche, Bergson o il giovane Marx (Derrida, 1980) – senza Artaud la filosofia francese contemporanea sarebbe incomprensibile. torna al rimando a questa nota
  2. La parola non basta; per Lyotard è necessaria una “semiotica dell’intensità che esige grido e labirinto”. “Comunque un segno”, aggiunge Deleuze (1989). torna al rimando a questa nota
  3. Gli autori di Mille Piani hanno sperimentato un dispositivo fonetico che agisce in questa zona di infrasenso e opponela sonorità attiva, tagliente delle consonanti ai valori tonici e passivi: il crepitare delrespiro, segno “molle” del corpo senz’organi. torna al rimando a questa nota
  4. Ecco come Artaud insegnava a gridarea Paule Thévenin (1993): “non lasciare svanire il grido […] passare dal tono più acuto aquello più grave, prolungando la sillaba fino all’esaurimento del respiro”. torna al rimando a questa nota
  5. In una lettera dall’Avana, 31 gennaio 1936. torna al rimando a questa nota
  6. ANTONIN ARTAUD, Le théâtre et la culture, in OEuvres complètes, tomo IV, Gallimard, Paris 1997. torna al rimando a questa nota

Bibliografia

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