Le forme nuove del warfare e la circolazione di modelli fra semiotica, strategica e letteratura spionistica


Da: (con Federico Montanari), Vita Fortezza e Maurizio Ascari (a cura di), Conflitti. Strategie di rappresentazione della guerra nella cultura contemporanea, Meltemi editore, Roma, 2007, pp. 249-259.


Studiare i sistemi di significazione, di produzione del senso, attraverso il metodo della semiotica vuole dire articolare, smontare processi di costruzione e di espressione del senso, all’interno dei diversi sistemi sociali e culturali (dalla politica, ai media, fino all’arte e alla letteratura). E non occuparsi solo di comunicazione nel senso abituale che viene attribuito a questo concetto – vale a dire dei modi di scambio e trasmissione di messaggi e contenuti – anche se evidentemente tale ambito della comunicazione non può non assumere una certa preminenza. La semiotica cerca invece di considerare anche la comunicazione come un insieme processo di senso: una pratica culturale che consiste nella circolazione di modelli e di pratiche semiotiche, che va analizzata nelle sue diverse componenti e nello statuto dei suoi diversi partecipanti.
È in questa direzione, allora, che la semiotica si interessa di problemi concernenti la strategia e le forme della guerra. Essa cerca di mostrare quali condizioni – costruzioni, categorie implicite, modi di vedere, di pensare o sistemi di attese – si attivino nel corso di una interazione, di una relazione con l'”altro“: sia esso avversario, nemico, partner.
Ma allora che cosa può dire e cosa ha detto la semiotica a proposito di conflitto e di “interazioni bellicose”? Prima di rispondere a questa domanda è necessario chiarirsi sulla definizione di testo. Per testo, come è noto, la semiotica, da tempo (e con essa tante altre discipline appartenenti al dominio delle scienze umane) non intende più soltanto testi letterari, scritti o verbali, ma, potremmo dire, porzioni di sistemi di significato situati all’interno di una data cultura. Forme di testualità diffusa che non si contrappongono affatto alle pratiche (modalità di agire e di produzione) all’interno di un ambito culturale sociale. Un testo può essere un dipinto, un testo letterario, così come un dato comportamento o stile di vita sociale; e, dunque, anche un certo modo di vedere, o fare, la guerra, in un dato periodo storico-culturale (cfr. Lotman 1984; 1985)2.
Tuttavia, un modo di vedere, di rappresentare la guerra, da parte di una data cultura (cone le sue forme testuali e letterarie) può produrre degli effetti all’interno di questa stessa cultura: divenire efficace addirittura sul piano strategico, fino a retroagire sulla stessa condotta di un esercito o di un conflitto. E di questo una semiotica della cultura – e della cultura strategica – deve saper rendere conto. A tale proposito, è un semiotico delle tradizioni culturali come Jurij Lotman a sottolineare, ad esempio, l’importanza di una “iper-estetizzazione” e teatralizzazione della guerra durante l’epoca napoleonica e in particolare nella Russia di Alessandro I3.
Dunque, ecco un caso in cui la guerra o l’esercito, vengono “rappresentati” e quindi percepiti in un certo modo all’interno di una data società, con una serie di effetti di senso che si riverberano dai testi letterari all’interno di quella stessa cultura e sulle sue pratiche, in particolare grazie a veri e propri “testi” sociali e rituali, quali possono essere il modo di marciare, le parate o il cambio della guardia a corte.
A proposito di questa concezione di testo come vera e propria “tessitura” del significato dei fenomeni sociali all’interno di una data cultura, è anche vero che effettivamente, oggi, l’antropologia e le altre scienze sociali condividono con la semiotica l’interesse per una tale concezione. Un antropologo come Geertz (cfr. 1983)4 sottolinea, proprio a proposito dell’atteggiamento verso la guerra depositato nella nostra cultura, in particolare in riferimento alla mentalità e alla memoria collettiva della grande guerra, l’idea secondo la quale i fenomeni culturali possono essere colti solo “in traduzione”: vale a dire attraverso la comparazione che lo studioso compie fra diversi fenomeni; dunque, anche fra i diversi “testi”, intesi come modi di apparire di quel dato evento attraverso descrizioni, visioni, resoconti. Ed è esattamente qui che si innesta il problema specifico del rapporto fra modelli semiotici, letteratura e strategia. La letteratura fornisce esempi di modelli strategici “potenziali” e di modi, non tanto o non solo di “rappresentare” la guerra, ma di “pensare e immaginare”, concepire la guerra stessa: come modi del cogliere, intercettare i “segni di guerra” – e al tempo stesso produrli e disseminarli in una data opera – in un dato periodo (pensiamo ai casi sopra citati con Fussell, di Pynchon, di Lawrence; o di Lotman, con la letteratura russa e Tolstoj; per arrivare sino al Proust studiato da Gilles Deleuze).
Ma veniamo al problema specifico del rapporto strategia-letteratura e spionaggio. Innanzi tutto sottolineando ancora una volta come esso consista in una questione squisitamente culturale e culturologico-semiotica. Ovviamente non è pensabile analizzare un dato pensiero di tipo strategico, o una data condotta strategica di azione senza tener conto della cultura che l’ha prodotta. Tuttavia, come dicevamo sopra, per l’approccio semiotico non si tratta di dare per scontato il contesto o l’ambito socio-culturale, pensando che da quest’ultimo si possa far derivare una data concezione di azione o di strategia. Semmai si tratta, al contrario, di analizzare una condotta o concezione strategica per ricavarne la cultura o una “visione del mondo” soggiacenti.
A questo proposito forniamo un altro esempio. Studiare un modello di razionalità strategica – magari a partire da Lawrence d’Arabia – significa parlare di “cultura strategica” o di un’antropologia della strategia con lo scopo “di rendere conto delle differenti forme che la guerra adotta a partire dalla tradizione storica e culturale degli attori implicati” (Alonso Aldama 2003). Nello specifico, nel caso della guerriglia o “rivolta araba” di Lawrence, si tratta di una forma e di un modello strategico assai diverso da quello ordinario, e in cui prevale un’idea di “non-battaglia”, di “linea di fuga” nel deserto, di condotta “flou” o “acentrata” dello scontro (concetti fra l’altro ripresi e sviluppati da teorici della strategia come Brossolet, Poirier [1997] o Joxe, o da filosofi come Deleuze e Guattari [cfr. 1980])5 e in cui l’avversario è paralizzato dalla sua stessa adesione a modelli “razionali”, tipici della tradizione di guerra occidentale.
Gli arabi, per Lawrence, ignorano le lezioni della grande politica e della grande guerra: si trasformano in una sorta di “nuvola” che si muove nel deserto, rendendo incerti gli stessi limiti di territorio da essi occupato; facendosi ubiquitari e mobili, provocando negli ufficiali nemici un senso di smarrimento, di “incoerenza” per l’incapacità di capire la loro logica, la logica dell’altro.
Ed è in un senso assai simile, anche François Jullien afferma la radicale alterità di un altro pensiero, di un’altra cultura strategica e di guerra: quella cinese (cfr. Jullien 1996). Pensiero in cui prevale l’idea di divenire come fluire continuo di trasformazioni e di adattamenti elastici alla condotta del nemico: in questo caso la guerra si vince proprio non entrando in battaglia, logorando l’avversario “lasciando che le cose accadano” (cfr. anche Fabbri 1999), dunque mettendo in campo un tipo particolare di soggetto agente, assai diverso da quello pieno, “attivo” e razionale della strategia occidentale.
D’altra parte, ciò che è avvenuto, questa volta nella cultura occidentale, più in generale, soprattutto negli anni successivi all’avvio della guerra fredda, è stata una trasformazione dell’idea di strategia, la quale, partendo dall’ambito specifico degli studi concernenti la guerra, si è via via allargata, assumendo il carattere di modello ampio; e che curiosamente sembra assomigliare ai modelli “orientali” di guerra sopra citati.
Se le cause di questo ampliamento del concetto di strategia sono da imputare alla percezione delle trasformazioni storico-politiche – la guerra è diventata via via guerra globale e “totale”, tale da investire oramai tutte le strutture di una società, e sempre di più si è dilatata temporalmente e spazialmente, uscendo dai campi di battaglia tradizionali – ecco che, allora, il frutto di un tale cambiamento di percezione consiste in una trasformazione di pensiero e, potremmo dire, di punto di vista. Come afferma il generale Poirier, a partire dall’eredità culturale dei secoli passati, la strategia – intesa “come pensiero dell’agire e sull’azione” – non esisteva che a partire da, e nella guerra (cfr. Poirier 1997, pp. 32-33); ora, via via la funzione strategica si estende sempre di più: dapprima alle operazioni preparatorie alla guerra – organizzare e mobilitare le forze, saper prendere in considerazione le innovazioni tecniche –; successivamente, una tale concezione, per quanto ancora limitata, si protende al di là della guerra stessa. E ciò, soprattutto a partire dall’avvento della guerra fredda (cfr. ad es. Schelling 1963).
In cosa è consistito tale cambiamento veramente culturale? E inoltre, in che modo esso ha prolungato le sue conseguenze sino ai giorni nostri e agli anni successivi alla fine della guerra fredda con la guerra “al terrore”, quella “globale permanente” e “dell’enduring freedom“? E infine e soprattutto come si lega tale trasformazione strategico-culturale con i modelli letterari?
Il concetto di strategia si è sviluppato sia in estensione che in profondità perché ha dovuto occuparsi non più della guerra ma della sua virtualità. Le armi nucleari ampliano sempre di più la possibilità di utilizzare non già il ricorso alla forza, ridotto nella sua praticabilità, ma la minaccia. Ecco allora aprirsi quel nuovo scenario che gli studiosi di conflitto, dallo stesso Poirier ad Alain Joxe, definiscono proprio come “guerra semiotica”, arrivando sino al concetto di “gesticolazione strategica” (Joxe 1983, p. 24). La differenza consiste in questo: la guerra e il conflitto vengono ora considerate anche come un campo di possibilità per mostrare all’altro le proprie volontà, le proprie intenzioni o, al contrario, di dissimulare queste volontà e queste intenzioni; o, ancora, simulando certe intenzioni e azioni, per spingere l’altro a comportarsi di conseguenza.
Dunque, lo spazio di interazione e di comunicazione con l’altro diviene un vero e proprio campo di manovra. Ecco che si tratta d’ora in avanti di guerra per segni. Ed è per questo che, a detta degli stessi esperti militari, possiamo parlare di vera e propria semiotica di guerra: semio-guerra.
Una virtualizzazione della guerra ne trasforma le dimensioni e lo stesso senso: ora, la guerra, intesa in senso specifico, diventa solo uno dei possibili modi della violenza armata (cfr. p. 38). E pure lo stesso ricorso alla forza diviene ora soltanto una delle possibili opzioni, all’interno di un campo di manovre strategico che comprende anche “armi semiotiche” come quelle della minaccia, della dissuasione, della manipolazione, della sanzione. Tale dilatazione dell’idea di strategia avviene dunque non solo in estensione, ma anche in profondità: trasforma la natura stessa del concetto, oltre che la forma del conflitto.
Infatti, se proviamo a definire meglio queste armi semiotiche, vediamo che esse concernono soprattutto il campo, non dell’agire in senso stretto, ma della trasformazione e deviazione di questo agire: dallo “spingere a fare o a non fare” (manipolazione) all'”impedire di fare” (dissuasione), all'”obbligare a fare” (costrizione), alla seduzione (intesa come un “mostrare di essere in un certo modo, affinché l’altro faccia qualcosa”), e così via.
Si potrebbe replicare che tale dimensione, all’interno delle strategie e delle condotte belliche, è sempre esistita, un po’ come oggi si discute tanto della novità nell’uso, all’interno dei conflitti, dell’arma della comunicazione. È chiaro che non si tratta di novità “in sé”: l’innovazione consiste precisamente nel modo di pianificare l’uso di tali “armi”; dunque, si tratta, piuttosto, del cambiamento dei modi, o punti di vista, della stessa pianificazione strategica, e quindi di una logistica: si potrà parlare allora di una vera e propria logistica dei segni e della comunicazione.
D’altra parte, è anche vero che oggi, dopo la fine del ciclo della guerra fredda, l’uso delle armi, come sottolineano gli studiosi di strategia, è ridiventato chiaramente possibile e praticabile (cfr. Jean 1996). Ma ciò ha forse portato a un superamento della fase “virtuale” e “gesticolatoria” della guerra? Nient’affatto. Anzi, constatiamo come l’uso sempre più frequente di armi “reali” – anche all’interno di spazi geopolitici come l’Europa per lungo tempo considerati pacificati, o meglio “congelati”, dal sistema bipolare USA-URSS – venga sempre più pianificato in accoppiamento strategico- tattico con le armi “virtuali” o semiotiche (sia “classiche” come la minaccia, la promessa, la sfida e la contro-sfida; sia attraverso l’uso, parrebbe, di logiche di tipo “arcaico”, come quelle della vendetta6; in più, accompagnate dall’utilizzo massiccio delle armi tecnologiche dell’informazione e della comunicazione)7.

“Espressione” e “contenuto” dei “racconti” strategici

Si sta dunque parlando dell’introduzione, nel campo dei conflitti, di una dimensione nuova, in quanto osservabile come autonoma nel dispiegarsi tecnologico; ma da sempre presente nei campi di battaglia. Dimensione che diviene essa stessa campo di manovre strategico-tattiche e che, in prima approssimazione, potremmo definire “cognitiva”. D’altra parte, è importante sottolineare come tale dimensione cognitiva venga intesa qui non in quanto dimensione meramente psicologica e di una “capacità di conoscere” ma, appunto, concernente il dispiegarsi del senso, dei processi di significato in una data situazione: dimensione propriamente e pienamente semiotica.
Ma perché una dimensione strettamente psicologica non è sufficiente a definire il campo dell’interazione conflittuale e occorre proprio una semiotica? In primo luogo perché, in situazioni di conflitto, non ci si trova di fronte soltanto a soggetti singoli, individuali o ad attori isolati, dotati di loro istanze o motivazioni, ma a “interattori“: soggetti che si costituiscono proprio in quanto sono gli uni in contatto con gli altri, gli uni di fronte al proprio avversario: legati a esso nelle varie forme del confronto. Un esempio classico di analisi semiotica è dato, a questo proposito, da “la sfida”, figura semiotica analizzata da Algirdas J. Greimas in un suo articolo (1983). Questa figura, così come il duello – che, sulla scia di Clausewitz, viene considerato, da un punto di vista prasseologico, conflitto fra “stesso” e “altro”, come la “cellula” di base di qualunque relazione fra attori socio-politici e, dunque, alla base di tutte le condotte strategiche (cfr. Poirier 1997, pp. 59-61) –, è una figura che si costruisce attorno a una struttura detta, in semiotica, “attante duale”: struttura di senso che implica il riconoscimento dell’altro in quanto sfidante, e la partecipazione di entrambi alla disputa.
Scrive a questo riguardo Greimas: “il buon funzionamento della sfida implica una complicità oggettiva fra manipolatore e manipolato” (1983, p. 211)8. Per l’analisi semiotica delle strategie, la struttura fondante consiste in una configurazione di tipo polemico-conflittuale che starebbe alla base della comunicazione e dell’azione stessa. I soggetti si trovano a lottare per congiungersi con tali valori, a scontrarsi e incontrarsi con altri soggetti che lottano per essi, alle volte contrapponendo invece altri sistemi valoriali. Quindi, un soggetto, in queste “trame narrative” di azioni, si trova sempre di fronte a un “anti-soggetto”, un “ostante” (sia esso incarnato in un nemico, in un’idea, o in una tentazione a cui resistere) e che va anch’esso a comporsi in programmi narrativi.
Dunque, per una semiotica della strategia, non si tratta soltanto di tener conto della storia e della cultura degli armamenti (Poirier), della loro dinamica e influenza, ma di comprendere la costruzione di quei veri e propri attori ibridi che sono i “partecipanti” a un conflitto. Attori ibridi, in quanto composti di “armi e uomini”.
In questo senso, come si è visto riguardo alla sfida, o al duello, possiamo parlare di attante duale (tipo di attante collettivo), in quanto tale partizione (operata sulla base di criteri comuni fra gli attori, come il loro “campo funzionale” o le loro “qualificazioni specifiche”)9 è condivisa dai due partecipanti a questa azione.

Il confronto fra semiotica e strategia

La semiotica contemporanea possiede un doppio codice genetico. Oltre alle sue ascendenze strutturaliste-continentali, vi è una tradizione filosofica di tipo soprattutto americano, in particolare derivante dal pragmatismo di Charles S. Peirce. Tale filone di studi (di cui Eco è stato il principale fautore) si concentra, in particolare, su di una concezione del senso e della produzione del significato di tipo interpretativo-inferenziale: il senso, il significato, si costituirebbe a partire dalle inferenze e ipotesi che un interprete compie, grazie alla propria competenza culturale, a partire da fenomeni, oppure testi, da “leggere”, da interpretare, appunto, sulla base di un principio di tipo cooperativo10. Questo interprete compie una serie di “mosse” a partire dalle istruzioni che inferisce dal testo stesso. Ecco un altro punto di contatto con la questione strategica: cioè sui calcoli, sulle inferenze e le aspettative a partire da, e in “cooperazione” con, il comportamento dell’altro (che diviene anch’esso un “testo” da interpretare, testo che è perlomeno “pigro” nel cooperare con il lettore, se non addirittura determinato a resistergli); con un’idea di interpretazione delle mosse dell’altro, di cooperazione, pur tenendo conto che si tratta di rapporti di tipo conflittuale. Ad ogni modo, il punto nodale qui è la questione della razionalità strategica e narrativa (cfr. Parret 1990).
Caratteristica principale delle situazioni di interazione è quella di possedere da un lato una natura intrinsecamente polemico-conflittuale: sempre, quando ci si relaziona, si interagisce con un altro, si instaura una sorta di “lotta”, per quanto amichevole o, magari, amorosa; una disputa, perlomeno sulle proprie posizioni, sulle proprie idee e credenze, se non addirittura per convincere l’altro a cambiare le sue. O ancora, una lotta, più o meno implicita, sul controllo delle reciproche posizioni. Dunque, si viene a creare una vera e propria battaglia (fatta di segni verbali e non verbali).
In secondo luogo, la cooperatività evocata sopra, in relazione a una semiotica di tipo inferenziale, è l’altro carattere tipico delle interazioni. Tuttavia, anche in questo caso, cooperazione non significa “comprensione” né tanto meno “accordo”. Anzi, gli studiosi insistono su come spesso si tratti di situazioni di connivenza più o meno imposta e obbligata da fattori esterni (regole di etichetta e di ambiente sociale) o da fattori intrinseci alla interazione stessa (ad esempio, regole di convenienza o di convivenza)11.
Al di sotto delle interazioni conflittuali, vi possono allora essere diversi modelli di “razionalità polemologica”, un po’ come si era visto all’inizio riguardo ai diversi modelli culturali di strategia, come quella “cinese” (lo si è visto del resto con Jullien), “orientale” o “araba” (con Poirier; e Alonso su T. E. Lawrence). E tali forme diverse di razionalità strategica comportano differenti modelli di “sintassi” dell’interazione: ovvero, diverse regole di organizzazione sequenziale delle dinamiche dell’interazione (attuate, ad esempio, con procedure di enfatizzazione o, al contrario, di “sordina”, nel corso dell’interazione stessa).
La strategia si manifesta più come un insieme di “regolarità” nei comportamenti interattivo-conflittuali, che non di norme da seguire: si tratta piuttosto di vincoli, frutto anch’essi di negoziazioni da parte degli “inter-attori” dotati di un potere e di una competenza, soggetti essi stessi a calcoli e previsioni, prima, durante e dopo le situazioni di interazione.

Lo studio delle “molecole” dell’azione strategica: modelli spionistici di interazione

Ecco allora che torniamo alla questione del modello di analisi semiotica e nel vivo dell’approccio semiotico alla strategia. Per la semiotica i soggetti partecipanti a una interazione, o a uno scambio comunicativo, composti, come si diceva sopra, di funzioni, sono soggetti “pieni”: queste funzioni si riempiono, si arricchiscono via via di un volere, dovere, potere, sapere, credere e far credere. Istanze modali suscettibili, naturalmente, di costituirsi nelle diverse combinazioni. Lo scambio polemico non avviene più allora fra attori “compatti” e monolitici; ma fra diversi livelli, o “strati” di queste soggettività composite.
Ecco allora che arriviamo all’importanza dei modelli spionistici.
Un soggetto qualunque – sia a livello “micro”, come un soggetto singolo, che a livello “macro”, come nel caso di un soggetto collettivo, ad esempio uno Stato, o, ancora, di un personaggio pubblico o politico – può esprimere, nel corso di un negoziato o di un conflitto, un “volere” qualcosa, ma, al contempo, “credere” che l'”altro” (il nemico, l’avversario, l’alleato) “voglia” qualcos’altro; o ancora, che “sappia”, “creda” o meno qualcos’altro.
In questa direzione l’intelligenza dei segni sta nel modo di osservarsi reciproco all’interno dei processi discorsivi. Chi enuncia non solo emette segni e significati, ma, nello scambio comunicativo, tenta di zoomare sulle immagini e sulle tracce dell’altro; in un continuo gioco e scambio tattico-strategico.
La guerra è al tempo stesso forma “di vita” alternativa a quella quotidiana ma anche potenzialmente presente nei momenti e nei luoghi dell’interazione comunicativa. In questo senso il terrorismo diventa davvero cosmopolita, nel suo manifestarsi (come del resto la mafia) nella sua rete al tempo stesso globale e inserito nei contesti. Ed è su questi terreni che tentano di inseguirlo. Di qui anche l’idea grandiosa portata avanti da studiosi di interazione sociale come Goffman; studiare l’ordine sociale è studiare il suo contrario o studiarlo per contrasto; l’ordine è una maschera che viene usata da chi lo attraversa e lo infrange (criminali, ma anche spie evidentemente). Vi è qui tutta una semiotica del non detto delle spie e dei rivelatori di senso; e in questa direzione, ancora una volta i “segni rivelatori” non sono elementi isolati ma strategie reciproche. Ed è per questo motivo che va studiato il regime del segreto e della allusione come nucleo centrale della competenza e delle pratiche comunicative, spesso anche quelle della vita quotidiana.
Dunque, a fronte dello status tipico delle ultime guerre (guerre condotte in forma “narrativa”, nel senso dell’apparente organizzazione e lucida e trasparente pianificazione comunicativa, e di dichiarate definizioni di scopi come “Enduring freedom” o “War on terror“) ecco che la pratica sporca della comunicazione spionistica torna come altro lato del campo di battaglia. Le spie sono veri e propri analisti dell’altro; controllano e osservano i punti di passaggio fra modelli culturali; sono infiltrati non solo in campo nemico ma anche nelle culture altre, non proprie. Gli agenti segreti, come è noto, devono sapersi perfettamente calare non solo nel ruolo ma negli ambienti culturali dell’avversario, sin nei più minimi dettagli. Ma questo è niente ed è quasi scontato; si tratta di un sapere che deve essere come “incarnato” per divenire efficace. Non solo non farsi sorprendere dall’altro ma saper praticare una doppiezza culturale; esser altro da sé; fino al conformismo.
Un esempio classico da The perfect Spy di John Le Carrè, è proprio questo: la spia deve assumere i tratti del conformista sottomesso. L’identità clandestina deve essere banale e “naturalizzata” (ad esempio, assumere un nome simile al proprio: è il mimetismo, alla lettera, a essere il tratto rilevante della spia, dell’infiltrato). In questo senso, ancora una volta, è interessante sottolineare l’importanza dei modelli narrativi (anche della stessa letteratura spionistica) per le forme di guerra e di spionaggio “reale” (in una circolarità tale per cui gli scrittori di letteratura spionistica attingono essi stessi da repertori “reali” e storici). In tal senso un importante storico e studioso di guerra e di intelligence come John Keegan cita Kim di Kipling come luogo di studio della complicazione e ambiguità dei conflitti. Che sono fatti di zone di indecidibilità; di confusione e cecità (rumore di guerra e “fog of war“) in cui non sempre l’informazione è la carta vincente e molto spesso e persino nelle nuove moderne guerre iper-intelligente e sofisticate sul piano tecnologico e informativo diviene importante la capacità del “Humint” del cogliere l’intelligenza del sapere fatto da spie che conoscono modi di vestire, di mangiare e di comportarsi sul terreno; da veri esperti di cultural studies.
In particolare Keegan (2003) insiste sul fatto dell’ambiguità del concetto di rivoluzione dell’informazione nelle guerre e nel mondo contemporaneo: “La conoscenza di ciò che il nemico può fare o di quello che intende fare non è mai sufficiente per garantire la sicurezza, a meno che non si abbia anche il potere e la volontà di resistere e, preferibilmente, di anticiparlo” (p. 364).
In tale senso – per inciso, e anche da un punto di vista opposto – i movimenti pacifisti avrebbero forse dovuto pensare di più a strategie di “complotto” e di infiltrazione nella cultura della guerra, per produrre antidoti preventivi.
Non solo, Keegan insiste anche sul fatto che l’immaginazione e la letteratura popolare ha molto mitizzato la figura dell’agente come “eroe”, con il pericolo di tradimenti e di individuazione da parte del nemico, non considerando il “ben più opprimente peso”; l’attività penosa del capire e della fatica di comprendere e di scoprire “qualcosa che valesse la pena sapere”. Piccoli, sporchi, faticosi frammenti di sapere; mescolati alla quotidiana vita, faticosa, banale e al contempo pericolosa. Anche in questo caso è il miscuglio, e il “fog of war” a dominare.
Come vediamo, già in questa descrizione si manifesta una ricchezza di possibilità: due attori di un conflitto possono scontrarsi o negoziare per ottenere non solo un “sapere” qualcosa, o per indurre l’altro ad aderire a qualcos’altro; nella fatica e nel lavoro quotidiano e logorante in vista di questi piccoli frammenti di sapere; al tempo stesso, far credere, a un terzo, di stare lottando per un altro “oggetto di valore” (ad esempio per la giustizia, o per un dato scopo, risultato o premio). Questi diversi soggetti partecipanti – singoli, o collettivi – si compongono e ricompongono in diversi piani “modali”: e per ciascuno di essi, e fra di essi, si possono instaurare diverse forme di lotta e di confronto.

Il nucleo polemico-conflittuale dei meccanismi semiotici

La semiotica, in particolare quella di scuola francese, di orientamento strutturalista e facente capo al gruppo di ricerca che ha lavorato attorno a Greimas, ha mosso i suoi primi passi, oltre che dalla linguistica strutturale di Saussure, di Hjelmslev e di Jakobson, proprio dall’antropologia (Claude Lévi-Strauss) e dall’analisi del racconto. Da un lato, fin dalle sue origini, essa ha cercato di analizzare gli universi mitici e culturali (cfr. Greimas 1970), scomponendoli in sistemi di valori; dall’altra parte, ha sviluppato l’analisi narratologica, in particolare partendo dalle analisi del formalismo russo (Propp) delle fiabe e dei racconti popolari. Essa è stata così in grado di sviluppare un modello di tipo narrativo: modello capace di essere sufficientemente ampio per poter fungere da griglia generale di analisi dei processi e delle dinamiche delle azioni.
Possiamo comunque affermare che la semiotica si interessa ai problemi della strategia e della guerra quasi per una sorta di “a priori epistemologico”, oltre che, evidentemente, con lo scopo di analizzare i fenomeni culturali e, nello specifico, la guerra: questa disciplina sembra portare al suo interno un modello, un cuore “agonistico”, polemico-conflittuale.
Da Saussure fino a Jakobson – e al di là dei differenti modi e sviluppi nell’intendere il binarismo, in senso più o meno categorico o oppositivo – la concezione binarista e strutturalista concepisce il costituirsi dei linguaggi, via via fino alla costruzione stessa del senso e della significazione, per differenze: il senso non sarebbe dato in maniera positiva e atomistica, ma per scarti e per rapporti differenziali. Come affermano Greimas e Courtés, una struttura è detta binaria quando, al minimo, si definisce come la relazione tra due termini.
In altre parole, qualunque valore, o componente che vada a costruire il significato – da una parola, a un testo – sarebbe data per scarto, per differenza rispetto a un altro valore.
Seguendo le parole di Greimas, è lo stesso universo che ci circonda, il mondo sociale delle cose e degli eventi, a essere da noi percepito in un tale modo, per scontri e scarti di differenze. Dunque, potremmo dire che, per la semiotica, polémos è davvero all’origine di tutte le cose; tuttavia, e vi è qui un’enorme differenza rispetto alla filosofia, o alla teoria tradizionale del conflitto (da Eraclito fino a Hegel e Marx) esso non si dà come fondamento dell’essere, o del divenire, ma si pone, seguendo ancora una volta l’epistemologia contemporanea12, come modo costitutivo di osservare il mondo. Un mondo che non è dato una volta per tutte, ma che è composto di senso percepito e si costituisce nel procedere stesso di questa percezione; e, soprattutto, tale senso – tale “sostanza del mondo” – viene colta per differenze.
Dunque, orfani di una teoria del conflitto, e privati di un “motore dialettico” del cambiamento storico-sociale, possiamo comunque concepire le basi della significazione in un senso profondamente dinamico-conflittuale.

Le passioni del conflitto

Per finire, negli ultimi decenni, questo studio delle passioni in semiotica ha conosciuto un notevole sviluppo13, fino ad arrivare a considerare la componente passionale come l’altra faccia di quella dell’azione: tale dimensione fornirebbe il ritmo, la cadenza, il legame delle sequenze di azione, nonché la loro forza e intensità. Pensiamo all’esempio, classico, del “morale” dei combattenti o dei partecipanti a un conflitto. Tale concetto assume, evidentemente, una doppia valenza: etico-morale in senso stretto; “la moralità”14 cioè, in termini semiotici, l’adesione di un soggetto a certi valori, adesione che viene, come si è detto, “modalizzata” attraverso un “doverfare” e un “dover-essere”). E passionale: il “morale” nel senso della forza dell’adesione alla lotta, con una sua più o meno intensa partecipazione; ed essa, dal punto di vista semiotico, concerne processi passionali che “modulano” o deformano i sistemi modali di adesione o di credenza, conferendo forza e incisività alla decisione di partecipare, o di intervenire, a una lotta; come, l’abbiamo visto sopra, del resto affermava lo stesso Keegan, riguardo al potere dell’informazione in un conflitto. Un altro esempio dalla letteratura a tale riguardo è quello fornito da Marc Bloch, nel suo diario della sconfitta francese, all’inizio della seconda guerra mondiale (L’Etrange défaite): strana sconfitta, dice Bloch, dovuta, più che a mancanze di tipo materiale, a motivi legati al “morale” dell’esercito francese; incapacità legate alla sua demotivazione, così come al contrapposto “ritmo” (intensivo e passionale) conferito dall’avversario tedesco al suo “dover fare” e “dover essere”, ed espresso dai nuovi dispositivi tattici e dalle nuove condotte strategiche.
Vediamo, concludendo, quanto cruciale possa essere questa scomposizione e ricomposizione semiotica dell’azione. Tali componenti si ricompongono, nei diversi spazi, tempi e attori, per rendere conto – nella loro diversa variabilità e incidenza – di quelli che possono venire considerati come veri e propri “atti semiotici”; o, come afferma anche Joxe, figure, “molecole” di azione a statuto semiotico, “stratagemi” o “tattemi”: figure di base, costitutive di configurazioni e condotte strategiche più ampie, come la minaccia, la promessa, la sfida o l’ultimatum (cfr. Joxe, Dobry, Fabbri 1985; Joxe 1997, pp. 10-11).
Si ha conflitto quando vi è soprattutto confronto fra due volontà; ecco allora l’importanza di cogliere, attraverso questo modello semiotico-culturale e letterario, le diverse maniere in cui questi “voleri” si costituiscono e si affermano: si nascondono, si inseguono e lottano.


Note

  1. Questo saggio è frutto sia della rielaborazione, dell’aggiornamento e della sintesi di un precedente articolo, scritto congiuntamente dai due autori (in una prima versione del 2001 e poi pubblicato on line sulla rivista di semiotica «E/C», www.associazionesemiotica.it) che degli interventi di Paolo Fabbri e di Federico Montanari al convegno Conflitti: strategie di rappresentazione della guerra nella cultura postmoderna. Questo testo è stato concepito congiuntamente, anche se l’elaborazione dei §§ 1, 5, 6 è di Federico Montanari, mentre quella dei §§ 2, 3, 4 è di Paolo Fabbri. La responsabilità della redazione è di Federico Montanari. torna al rimando a questa nota
  2. A proposito di guerra e di strategia, della loro percezione e rappresentazione e degli atteggiamenti culturali verso di esse in una data epoca, Lotman sottolinea come ad esempio “l’epoca napoleonica introdusse nelle azioni militari, accanto ai momenti ad esse inerenti, un inequivocabile elemento estetico. Solo se terremo conto di questo ci sarà possibile capire perché gli scrittori della generazione successiva – Merimée, Stendhal, Tolstoj – dovettero impiegare tante delle loro energie creative per deestetizzare la guerra, per liberarla dai voli di una belluria teatrale. Nel sistema della cultura del periodo napoleonico la guerra era un enorme spettacolo…” (Lotman 1984, p. 146). torna al rimando a questa nota
  3. A questo proposito, Alessandro I, vedendo le proprie truppe marciare vittoriose per le strade di Parigi, affermò: “La guerra mi ha rovinato l’esercito” (Lotman 1994, pp. 39-40). torna al rimando a questa nota
  4. Geertz riporta come esempio di fenomeno studiato “in traduzione” proprio il caso della guerra, facendo riferimento allo studio sulla mentalità e la memoria della prima guerra mondiale – a partire dal noto lavoro di Paul Fussell, The Great War and the Modern Memory (1975) –, in cui la guerra diventa “una struttura simbolica” e “mentale” che ci giunge attraverso una serie di immagini e di sensibilità diverse: ci giunge “tradotta”, ad esempio, da descrizioni letterarie. torna al rimando a questa nota
  5. Lo stesso Poirier si è occupato di cultura strategica comparativa (cfr. Poirier 1997, pp. 159-163), lavorando anche su T. E. Lawrence. torna al rimando a questa nota
  6. L’uso e l’adesione a logiche di vendetta è una delle critiche mosse da Alain Joxe alla NATO nel caso del Kosovo, al di là, ovviamente, delle responsabilità di Milosevic e della dirigenza serba (cfr. Joxe 1999). torna al rimando a questa nota
  7. A proposito delle info-tecnologie – delle tecnologie di pianificazione dell’informazione e della comunicazione nelle nuove forme di conflitto (della cyberwar e dell’infowar) – cfr. Stoker, Schöpf 1998; Virilio 1998. torna al rimando a questa nota
  8. Tale articolo è stato ripreso da A. Joxe come esempio di analisi semiotica di discorso strategico. torna al rimando a questa nota
  9. Cfr. le voci “collettivo” e “attante” in Greimas, Courtés 1979. torna al rimando a questa nota
  10. Cfr. Eco 1979, in particolare pp. 111-119 sulle “passeggiate inferenziali”, le ipotesi interpretative e le strategie che il lettore mette in atto per comprendere un testo, ma che il testo, spesso mette in atto per “resistergli”. torna al rimando a questa nota
  11. Cfr. Berrendonner, Parret, a cura, 1990, pp. 6-9, in cui si fa riferimento anche agli sviluppi della pragmatica e della linguistica americane in quanto da lungo tempo (ad esempio con autori come Grice) si sono occupate del rapporto fra norme e interpretabilità. L’altro riferimento importante è uno degli autori classici della sociologia, Erving Goffman (cfr. ad es. 1969), soprattutto per l’importanza attribuita ai rituali per la gestione delle situazioni in cui il rischio è quello “di perdere la faccia”, e in cui il conflitto consiste, spesso, proprio nel negoziare i mezzi stessi di cui ci si può servire in tali rituali; laddove, come evidenzia lo stesso Parret (Berrendonner, Parret, a cura, 1990, p. 51), la “faccia” non è altro che l’immagine, l’inter-faccia pubblica, di un “sé” (sia esso individuo, gruppo o comunità). Ricordiamo che, significativamente, i lavori di Goffman partono dagli studi di letteratura spionistica e da resoconti di agenti dei servizi segreti. torna al rimando a questa nota
  12. A questo riguardo, cfr. ad esempio Bateson 1979. In esso egli sottolinea come gli atti stessi della percezione e della cognizione si costruiscano sempre a partire da tale atto del “cogliere differenze”. Su un’idea differenziale e costruttivista del senso e del modo di percepire il mondo che ci circonda, cfr. anche Luhmann 1984; Watzlawick, a cura, 1981. torna al rimando a questa nota
  13. Per gli sviluppi di una semiotica delle passioni cfr. Fabbri, Pezzini, a cura, 1987; Greimas, Fontanille 1991; Fabbri 1998, in part. pp. 26-28. torna al rimando a questa nota
  14. Cfr. ad es. Pavone 1991, per un ampio studio dei processi etico-morali che portano ad aderire alle motivazioni di un conflitto. torna al rimando a questa nota

Bibliografia

Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

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