Fare un Sessantotto: diffidenze e guerriglia


Da: Il ’68. Testi e commenti, Almanacco di Alfabeta2, Derive/Approdi, Roma, 2018.


 

(…) il reale ci è dato sempre e soltanto attraverso il filtro di formulazioni mutevoli e il nostro modo di cogliere la realtà si fonde in unico amalgama con essa.
P. Sloterdijk

1. Il senno del post-

“Notte delle Idee”, Firenze, il 25 febbraio 2018. L’Istituto culturale francese, interpretando il gusto delle ricorrenze e la cultura internazionale dei giubilei, aveva riunito per una riflessione sul Sessantotto ricercatori italiani – semiologi e architetti – e docenti dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze.
Scesi dalle ville fiesolane, e subito risaliti, due formatori delle élites governative d’Europa furono categorici. Come esistono dei Nonluoghi, così ci sono dei Nontempi, e il Sessantotto è uno di questi. Per l’insegnante, greca, la data rilevante della fine del secolo breve era la caduta del muro di Berlino; il docente slovacco avvertiva invece i colleghi italiani e il numeroso pubblico di non farsi soverchie illusioni: la storia è matrigna, dixit Trotsky! Il direttore belga delI’Istituto Europeo concluse, irenicamente o ironicamente, che si chiudeva con Trotsky un colloquio cominciato con Goethe.
Nel mio intervento infatti insistevo, sulle spalle del grande europeo, che le date sono pudiche, specie quelle che lasciano un segno profondo nella storia; come il Sessantotto. È arduo spiegare il significato di eventi che hanno cambiato le condizioni necessarie a cercarne le spiegazioni. Per me, italiano, l’anniversario semisecolare era l’opportunità di gettare uno scandaglio nella profondità temporale e nelle memorie dismesse o naufragate. Per comprendere quanti sono i diritti che sembravano impossibili agli europei di allora e che sono stati acquisiti con la presa di parola del Maggio. Con il senno futile o utile del post-, ho ricordato ai miei interlocutori la stagione del Sessantotto praghese e il ruolo che, anni dopo, ebbe il movimento studentesco di Atene nella rotta dei colonnelli greci. Ho insistito ad nauseam che l’anchilosi del ricordo si deve all’implosione dell’Oltre: alla mancanza d’illusioni motrici che ci chiedano, come accadeva cinquant’anni fa, di “abitare il possibile”.

2.1. Il dissidio: Umberto Eco vs Edoardo Sanguineti

Prestiamo più attenzione a quel fatto sociale totale che fu il Sessantotto: mettiamo altri in condizione di farlo e chiediamo che ci venga restituita l’attenzione, possibilmente in buono stato. Premetto che le fotografie che riconducono al Sessantotto sono in bianco e nero e che non è facile ritrovarne i colori. È più difficile ancora evitare l’ascolto “dicotico”, il binarismo aurale di messaggi opposti e simultanei provenienti dalla destra e dalla sinistra di allora e di ora.
Per provarci, vorrei toccare un punto, o essere toccato dal punctum di un dibattito sul senso della cultura e della politica che si svolse in pieno Sessantotto tra Umberto Eco e Eduardo Sanguineti (con G. Davico Bonino) sulla rivista Quindici, organo del Gruppo 63. L’esito del dissidio ha esplicitato e trasformato alcune posizioni intellettuali dell’avanguardia artistica in Italia e la tenuta del modello marxiano della cultura in generale e politica in particolare. Ha svolto inoltre un ruolo inaspettato nella nascente temperie degli studi sul linguaggio e la comunicazione fino a prospettare una futuribile “guerriglia semiotica”.
Il confronto tra due figure salienti dell’Avanguardia artistica di quegli anni richiede un’indicazione co-testuale. Avviene nel mezzo del cammino della rivista Quindici che uscì dal giugno 1967, fino al 19 esimo numero nell’agosto 1969. La divaricazione che ne seguì, ha ridefinito il senso del progetto della rivista, la sua trasformazione ed anche la sua chiusura.
Lo scopo iniziale della pubblicazione era comunicare la teoria elaborata da Gruppo 63 e i testi di una nuova generazione di intellettuali, artisti e scrittori ad un pubblico più vasto degli addetti alle letture d’avanguardia. Da “Enciclopedisti del secolo dei lumi” motteggiava Eco. Il tono però rimaneva alternativo: Quindici “non vuol informare se non di ciò che sta a cuore ai suoi collaboratori, cioè fornire opinioni partigiane e faziose”, esordiva il primo numero. L’intento iniziale era la “poetica dei segni”, un nuovo linguaggio critico che fondesse inestricabilmente la funzione poetica e quella analitica del linguaggio, per contestare “tutti gli aspetti – culturali e politici – della “conservazione linguistica” (Giuliani). La rivista era quindi costitutivamente aperta e virtualmente disposta all’impatto massiccio del Sessantotto. Nel chiuso della serra politica e culturale di quegli anni, il gruppo 63 aveva già anticipato il senso dell’incipiente industria culturale: il sistema comunicativo nella società industriale avanzata non era più la sovrastruttura della vulgata marxista, ma un’industria pesante. L’intellettuale non era più un testimone: poteva capire e trasformare la realtà personale e sociale aggredendola con mezzi linguistici in grado di attaccarne le radici comunicative. Un impegno culturale suscettibile di riscrivere la nozione stessa di cultura (Eco). Per questo Quindici, unico tra gli di altri giornali italiani pubblicò i documenti più rilevanti della contestazione di quegli anni e rese possibili i dibattiti speculativi e gli accaniti diverbi che ne seguirono. La potente carica di contraddizione portata dagli eventi del Maggio francese interruppe anche il consenso “enciclopedico” della rivista che Eco aveva annunciato o soltanto sperato. Gli estremi del dibattito in seno all’Avanguardia, avvenuto nella turbolenza e nella proiezione violenta dell’immediato, hanno ancora oggi l’interesse dei momenti d’intensità qualitativa. Mentre sondaggi e inchieste sociologiche ex-post lasciano emergere i luoghi più comuni, gli esiti immediati ed eccitanti della parola “caosmica”, presa dal vivo (De Certeau) rendono conto di un movimento sociale che inventa e trasforma nel suo farsi e che per questo non poteva essere interamente cosciente e organizzato.
Nel Quindici n.11 del 15 giugno ’68, redatto nel calore del Maggio, il testo di Eco, “Il gioco delle occupazioni” apriva il numero dal titolo Francesi ancora uno sforzo, con documenti sui graffiti dei muri della Sorbona e testi di D. Cohn-Bendit. Nel Quindici n. 12 del settembre 68 dal titolo, Quale contestazione? si trova “Vietato vietare” di E. Sanguineti e G. Davico Bonino, con la lunga risposta “Vietando s’impara” di Eco, il quale tornerà nel Quindici. n. 16 del marzo 69, con “Pesci rossi e tigri di carta”, sulla situazione politico -culturale della rivista, di cui A. Giuliani lasciava la direzione a Nanni Balestrini.
1. Nel primo intervento Eco stilava un Atto di Diffidenza verso “lo sport alla moda delle occupazioni”, della Biennale di Venezia o della Triennale di Milano da parte di artisti legati al sistema finanziario internazionale delle gallerie d’arte.
Secondo un modello marxista consolidato, gli operai occupavano la fabbrica, luogo di produzione economica e gli studenti la università, luogo di riproduzione culturale, mentre l’occupazione dei luoghi espositivi sarebbe stato soltanto, per Eco, un “spazio di esercitazioni sovrastrutturali dove il sistema gioca a perfezionarsi in condizioni non repressive e beatamente ludiche”. Il compito d’una cultura della contestazione era invece d’impegnarsi nei tempi lunghi d’una trasformazione culturale “sovrastrutturale”, nella mutazione delle forme e dei contenuti di senso e di valore. Inoltre, da teorico d’avanguardia qual’era, per Eco la ricostruzione negli spazi della Triennale del facsimile di una barricata parigina era una copia pedissequa da museo delle cere – come costruire accanto all’originale una copia della Torre di Pisa senza neppure la distanza ironica di un’operazione pop.
2. Davico Bonino e Sanguineti espressero in Quindici n.12 il proprio, virulento Atto di Diffidenza verso quello di Eco, rifiutando “sofisticate selezioni settoriali”, cioè la differenza tra operai, studenti e artisti, tra opposizione culturale ed eversione politica. “Il capitalismo imperialistico”, parole loro, “andava paralizzato in tutti i gangli”, ma “sotto l’egemonia della coscienza possibile della classe operaia e contadina”. Poiché il Sessantotto, partito dalla Sorbona, è stato il più grande sciopero generale della storia europea, Sanguineti, critico dello spontaneismo dei movimenti studenteschi, non riconosceva all’università un ruolo di contraddizione sociale. E trovava ovvio il mancato incontro tra operai e studenti nel corso delle giornate francesi, il 17 maggio ’68. Per il coerente comunista (v. “tu, vota comunista”, Sanguineti) il piano rivoluzionario per paralizzare l’organizzazione borghese della cultura non doveva attendere i tempi lunghi della trasformazione delle forme espressive e comunicative.
3. Eco non era d’accordo sul ruolo dell’intellettuale organico (o dell'”utile idiota”); accettava il ruolo di pifferaio della rivoluzione – “fare qualcosa di omogeneo all’azione rivoluzionaria” – alla condizione d’inventare con lo studio e la poesia uno spartito diverso. Un'”opposizione culturale ed eversione politica del presente regime” come quella che attuavano il movimento studentesco o quello antipsichiatrico, senza i dettami dell’azione leninista o della repressione poliziesca. Con la forza (e le debolezze) di un attacco diretto al potere, non gravato da interessi economici immediati e da conflitti interni ad organizzazioni strutturate come i sindacati.
Ribadiva inoltre che l’attività letteraria dell’avanguardia – Sanguineti compreso – portava non sul presente, ma sul futuro e non si doveva barare, con il politicamente corretto – diremmo oggi – di “scrivere romanzi sui contadini in rivolta o dipingere partigiani fucilati”. O di rifiutare, provvisoriamente, i premi letterari. Riconosceva però che l’intensità caotica degli avvenimenti del Sessantotto esigeva un impegno nuovo, intermedio tra milizia politica e ricerca. Come quello condotto dagli intellettuali nel caso Braibanti, assolto il 13 luglio del 68 dal reato omofobo di plagio: “pericoloso strumento nelle mani dell’autorità per punire ogni gesto intellettuale che abbia spinto qualcuno a seguire l’appello di qualcun altro (…) per comportarsi in modo che la società definirà come aberranti”. Tra le azioni inventive degli operatori di cultura destinate a sensibilizzare una coscienza collettiva di là da venire, Eco proponeva di mettere “l’immaginazione al potere” – slogan che è etimologicamente “grido di guerra”. “Inventiamone delle belle”, scriveva: sperimentare e non soltanto interpretare.

2.2. L’immaginazione al potere: guerriglia semiotica

Per Eco l’arma da teatro della politica culturale era (1) l’analisi semantica e il suo spazio campale (2) la guerriglia semiologica.
(1) L’analisi semantica doveva venire a capo della retorica contestatrice, pittorescamente qualificata come Sputtanamento Globale: lo slittamento di significato a cui è sottoposto, per “parentela semiotica” un termine nuovo come “contestazione”. A parità di significante, il concetto finirebbe, per uso interessato e usura comunicativa, col rovesciarsi nel suo opposto e smarrirsi inerte nella chiacchera mediatica. “La retorica della contestazione si applica a operazioni che possono riconfermare l’ideologia della conservazione (…) come l’occupazione di una esposizione d’arte”. Sul modello brechtiano dei Miti d’oggi di Roland Barthes, toccherebbe allora al semiologo, “demitizzare”, screpolare col proprio metalinguaggio lo spessore connotativo dell’ideologia borghese dominante. Come avrebbero fatto in precedenza Marx e Engels con lo “splendido esempio di semiologia delle strutture narrative” dei Misteri di Parigi di E. Sue. Per Eco, il libro La Struttura assente. Introduzione alla ricerca semiologica, Bompiani, 1968 – recensito da me in Quindici 11, – era diventato nella febbre del Sessantotto un “manuale per il subito”, solerte e contro-culturale. Utile anche per decostruire il mito, tenace nella sinistra, dello stato sovietico, l’URSS, come portatore di speranza e di emancipazione.
(2) Eco sapeva che i Sessantottini avevano vigorosamente avversato i corifei dello strutturalismo – “les structures ne descendent pas dans la rue, Barthes non plus (Le strutture non scendono in strada, neanche Barthes)”. Voleva dichiarare una Guerriglia Semiologica con la capacità d’invenzione comunicativa di cui era stato testimone al momento dell’occupazione sovietica della Cecoslovacchia, il 20 agosto ’68. Una guerriglia improvvisata e inventiva delle comunicazioni condotta da gruppuscoli di intellettuali e studenti dotati dei nuovi “mezzi di produzione semantica”,come lo spostamento dei segnali stradali per confondere le truppe d’occupazione. Il semiologo guerrigliero proponeva di “adoperare i messaggi altrui (…) riempiendoli di nuovi significati, o facendone affiorare i significati occulti.(…). Scoprendo nuove interpretazioni e nuove possibilità di lettura in messaggi imposti con altri fini”. Una postura pugnace che contraddice l’immagine d’un autore moderato, fautore dei piccoli passi con cui Eco ebbe poi a rappresentarsi e a presentarsi: Nec in arcadia Eco? Sappiamo che nessuno è mai morto di contraddizione!

3. L’Entusiasmo e l’apatia

Il futuro autore del Nome della Rosa intuiva che le sue proposizioni, propositi e proposte erano “a metà tra le confessioni del figlio del secolo e la richiesta immediata di qualcosa che ci sfugge ancora”. Un avvenire senza lunga durata è come una politica senza storia. Il cinquantenario del Maggio permette oggi i tempi lunghi della ricerca culturale. Possiamo quindi marcare un tratto che sfuggì al dibattito che nell’annus mirabilis mandò a carte Sessantotto l’avanguardia artistica italiana. Una singolare apatia. L’incapacità teorica di riconoscere il senso e la forza di una disseminazione che è stata planetaria negli atteggiamenti e degli atti: dagli Usa alla Francia, dalla Germania al Messico, dall’Olanda all’Argentina, dalla Polonia alla Spagna. All’apertura cognitiva del dogma marxista corrispondeva infatti il grado zero di quella passionale; una cecità o almeno una miopia sul ruolo del desiderio che ha impedito di riconoscere l’efficacia effusiva dell’Entusiasmo, a cui Kant aveva attribuito la propagazione virale della Rivoluzione francese. Un’esplosione innescata da una miccia rapida come quella, detta il “passafuoco”. Un “patema” dell’animo e del corpo il cui medium e significante è stata la musica rock, “incantesimo del XX sec.”, propagata dalla setta “entusiasta” (T. Leary) degli hippies. L’antropologo V. Turner nella sua analisi della rivista californiana Oracle, vol. 1, n. 6, febbraio 1867 – bibbia del movimento- aveva distinto i tratti di “liminalità”, caratteristici di una “communitas”: antistrutturali e antigerarchici, utopici e controculturali.
Nell’intensità affabulata del Maggio, nel pathos attrattore d’illusioni e conduttore di diversissime forze, è stato J. F. Lyotard a riconoscerericonosciuto l’energia utopica, la fiamma e la cenere, la tensione d’un segno energetico di storia (Geschichtszeiten). La prova immanente anche se indeterminata, di nuovi legami che si instaurano epidemicamente tra gli uomini; l’indicazione non comprovata di un dispositivo collettivo di enunciazione, precursore di collettività e di comunità. Una nuova era, fervida di relazioni interpersonali, di autodeterminazioni individuali e collettive con un loro filo conduttore: “La folle ambizione di decolonizzare l’arte, la scienza, la vita, per farle interagire su tutti i piani della soggettività e della vita sociale” scriveva F. Guattari, un protagonista del Maggio. Una presa di posizione secondo il desiderio a cui G. Deleuze aggiungeva: “il possibile, se no soffoco”.
Discetteremo per tutto l’anno se il Sessantotto vada sommerso o salvato. C’è chi si rifugia nell’epidittico – elogio e/o biasimo – chi lo giudica come trapassato e chi delibera la sua pertinenza futura. C’è chi prende ad esempio l’empirismo radicale della sua azione politica e chi ritiene che i suoi valori possano realizzarsi solo tradendosi. Com’è accaduto in quel Sessantotto riuscito che è stata la rivoluzione iraniana, un esito clericale e bigotto che ingannò Michel Foucault.
Il Maggio ci riguarda: per resistere alle obbiezioni incompetenti non basta una veduta da lontano; occorre una visita prolungata per non spiegare il senso con termini che sono da spiegare. Fin d’ora possiamo convenire che il Sessantottino non vada giudicato per gli obbiettivi che avrebbe raggiunto – la libertà sessuale – o mancato – l’alternativa situazionista alla società del consumi – ma per le comunità virtuali che ha inventato e/o attualizzato. E quelle che potrebbe realizzare. Suvvia, “ancora uno sforzo” (v. Quindici n. 11), nonostante il nuovo principio di precauzione e l’autismo che ci affligge, possiamo ancora resistere al presente per abitare il possibile.


Bibliografia

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U. Eco, P. Violi, “La controinformazione”, in La stampa italiana del neo-capitalismo, a cura di V. Castronovo, N. Tranfaglia, Laterza, Bari, 1976.

P. Fabbri, “Strutturalismo metodologico del filosofo convalescente”, Quindici, n. 11, giugno, 1968.

– “Dove ha sbagliato Sciascia”, L’Europeo, n.42, 20 ottobre 1978,

Elogio di Babele, Meltemi, Roma, 2003.

A. Giannuli, Bombe a inchiostro, Bur, Milano, 2008.

J. F. Lyotard, L’entusiasmo. La critica kantiana della storia, Guerini, Milano, 1989 (1986).

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A.Touraine, La società post- industriale, il Mulino, Bologna, 1970 (1969).

V. Turner, Simboli e momenti della comunità, Morcelliana, Brescia, 1975.

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