Conversazione con Luciano Fabro


Da: AA.VV., Les rencontres rossiniennes, a cura di F. Mancini, U. Allemandi Editore, Torino, 2005.
Trascrizione dell’incontro con Luciano Fabro, a cura di Paolo Fabbri, Bruno Cagli e Daniel Soutif. Galleria Mancini, 27/10/2004.


Paolo Fabbri – Allora, visto e sentito?! Il suono e la veduta, la musica e le opere.
Innanzi di tutto, accordatemi una premessa: prendo la parola per primo, perché ero con Luciano Fabro l’ultima volta, cioè la prima, all’inaugurazione. È la figura dell’anafora che assicura se non la coerenza, ameno la coesione del discorso su questa installazione a cui torniamo per una ripresa. Ci sono molte ragioni e passioni per farlo; una è il piacere di rivedere Franca, e di rivederci tutti assieme. Poi, perché il giorno della presentazione avevamo invocato la presenza di Daniel Soutif, che non era riuscito a partecipare. Dato che gli assenti hanno spalle vigorose, ci eravamo sempre rimessi a lui… Ricordate? Soutif ha curato il catalogo di Fabro nella grande mostra di Boubourg; opera che fa ancora testo, lo dice Luciano, per il suo lavoro. Daniel lui, ha diretto il dipartimento culturale del Centre Pompidou per circa 8 anni per venire poi in Italia – uno dei rari francesi che parla un italiano senza pecche – a dirigere il Centro Pecci per l’arte contemporanea a Prato.
Inizio con una brevissima osservazione poi passerò parola a Soutif, il quale conosce l’opera di Fabro, ha avuto molte occasioni di discuterne con lui e potrà chiarirne alcuni punti, ma è la prima volta che sente e vede questa installazione. Poi interverrò io che che l’ho vista e rivista e avrei due domande sorpresa per Fabro: questioni precise per chi è destro a schivarle, ma lo fa sempre in modo interessante e rivelatore.
Osservazione. Ci sono dei posti al mondo adibiti allle cose deputate: i luogi comuni. Ce ne sono altri, che non esistono, ma si vorrebbe che fossero e si chiamano utopie. Michel Foucault ha rinvenuto un’altra classe di posti e ha proposto la parola eterotopia, che ha una grazia pedante e desueta, ma designa bene le utopie “alla portata”, i luoghi che non stanno fuori dal mondo, ma ci sono compresenti. Ora anche questa galleria è eterotopica: si può varcare una soglia e trovarsi di colpo, rispetto alla vita quotidiana e alle sue urgenze, in contatto col pensiero e con la creazione, in un laboratorio d’arte e di intelligenza e dell’arte.
La parola a Daniel.

Luciano Fabro – … tenete presente che Paolo ha discusso delle tesi oggi e probabilmente anche ieri.

Daniel Soutif – Anch’io ho molte scuse perché per arrivare qui ci ho messo tre giorni… comunque sono arrivato. Mi è capitato un problema con gli aerei, forse c’è qualcosa che ha a che fare con i volatili. Devo ammettere che è la prima volta in assoluto che mi capita di dover parlare di un’opera d’arte che mi è appena stata presentata, è una cosa, devo dire, piuttosto violenta. Da Fabro mi aspetto cose del genere. Il mio unico vantaggio è che conosco Luciano e la sua opera bene, faccio questa premessa perché mi siano poi scusate tutte le cose completamente stupide che potrei dire. Venni una volta a Pesaro in occasione di un intervento di Haim Steinbach che era legato a Rossini, e quindi avrei potuto pensare che anche nel caso di Fabro ci sarebbe stato qualcosa legato a Rossini, qualcosa di musicale.
Ma veramente non ho pensato nulla di questo genere. Quindi devo dire che quando ho visto gli oggetti presenti in questa sala, mi hanno proprio colpito: appartengono, mi dicevo, a una nuova famiglia di opere di Luciano. Non svegliano immediatamente il sentimento suscitato dalle sue opere già conosciute, almeno da me. Se si guarda più attentamente, se si abbassa l’occhio, si vede l’uovo di marmo e si collega qualcosa di questa opera nuova a qualcosa di già conosciuto. Ma a prima vista c’è proprio quella tentazione tecnologica nuova: la registrazione del oscilloscopio. Luciano mi stupirà sempre. Di questo farò poi un capitolo a parte dedicato alla sua relazione con la scienza e la tecnica. Comunque, non mi ero immaginato che ci sarebbe stato qualcosa di sonoro, pensavo che l’impianto fosse solo destinato a amplificare, anche un po’ troppo, le nostre voci, ma quando Luciano ha detto: “bisogna fargli sentire”. Ho sentito. E visto, perché secondo me non si tratta di una cosa né semplicemente visiva né semplicemente sonora. Si tratta di uno di quei casi, che probabilmente appaiono all’inizio del secolo scorso, di opere sonore visive e di opere visive sonore. Questi strani miscugli nati sul terreno del visivo più che su quello del sonoro, iniziano con Russolo e anche con Marcel Duchamp, che fece tentativi musicali più che interessanti. Quando ho sentito quella terrificante opera, e dico terrificante nel senso del piacere che uno prova quando va a vedere un film dell’orrore, e lo fa apposta per provare questo piacere paradossale, ho pensato a uno di questi film famosi, un grande classico Uccelli di Hitchcock. Poi c’è quello che è rimasto della musica di Rossini, dell’ouverture, che è usata come filo. Ma ci sono questi animali che, come dice Luciano nel titolo dell’opera, Giocano. E allora è ancora peggio, perché se stanno giocando i loro giochi sono proprio violenti come quelli degli uccelli di Hitchcock. D’altra parte mi è anche venuto in mente, e questo farà piacere a Paolo, il ricordo del film di Fellini Prova d’orchestra, che finisce quando un pallone di ferro entra nella stanza delle ripetizioni, dove è andato tutto male, e la distrugge e allora ho pensato che forse dentro al pallone c’erano dei gabbiani e non lo abbiamo mai saputo. Dopo il finale del film di Fellini comincerebbe l’opera di Fabro: questo strano misto in cui dei musicisti che suonano un’ouverture di Rossini si trovano investiti da animali, dai loro rumori e dal loro canto. Questi sono stati i miei pensieri mentre sentivo e guardavo quest’opera. Aggiungerei che tutti questi pensieri sono legati soprattutto al suono, il quale evidentemente è collegato alle sculture di Luciano. E se voglio cercare degli antecedenti per queste sculture, mi sembra che fanno un po’ pensare a delle opere già ben conosciute di Luciano: gli Ignudi, questi marmi che lui ha presentato in diverse circostanze, per esempio al castello di Rivoli, dove stavano alle finestre. Si tratta di una nuova maniera di figurare qualcosa di verticale, la cui verticalità ricorda un essere che potrebbe essere anche umano, ma non si sa con sicurezza. La figurazione che poi viene a coprire l’oggetto naturalmente la riduce a una notazione di un suono, una notazione neanche musicale perché il suono si può, come sanno tutti, notare in diversi modi con le linee, le note di musica o si può analizzare con l’oscilloscopio. Non so come tutte queste cose si sono poi collegate nella mente di Luciano. Gli farò la domanda a cui probabilmente non risponderà perché evade sempre le domande come ha già annunciato Paolo. Queste presenze, comunque, hanno qualcosa della fantascienza e di una messa a distanza. Secondo me, l’eventuale paura o terrore che potrebbe nascere dalla parte proprio musicale e sonora viene molto limitata dalla presenza della parte visiva che ci da il sentimento che c’è anche qualcuno di tranquillo dentro tutto questo, che sta a registrare, che non sta così male e che quindi forse ci possiamo stare anche noi. L’uovo, tutte queste uova, naturalmente, sono alla fine un po’ minacciose, perché potrebbero fare nascere altri gabbiani e così probabilmente la cosa non finirà mai, anche se si sa che l’ouverture di Rossini – una volta entrato dentro il ciclo della musica si capisce anche la struttura – condurrà tutta questa faccenda ad una fine, il che è rassicurante. Quindi queste, chiedo scusa, sono le mie prime reazioni a quest’opera che poi non mancherò di studiare di più. Dal punto di vista musicale devo dire sono abbastanza meravigliato dal fatto che Luciano, che non è un ragazzo, anche se fa finta di esserlo, si appropria tranquillamente, e questo è logico, perché chi si appropria di una cosa deve accettare di farsi anche appropriare, delle tecniche musicali dei ragazzi di oggi. Loro, come si dice in inglese, praticano il sampling in modo sistematico e ne hanno fatto un nuovo modo di fare musica. Sapevo degli interessi di Luciano per il sonoro e la musica, ma non immaginavo che si sarebbe lanciato un giorno sullo stesso terreno dei suoi nipotini. Ricorderò solo, per chi non lo sa, un altro momento musicale nella vita artistica di Luciano. A New York, non so più in quale anno, ’89, ’90, Luciano aveva presentato un omaggio a Mondrian e a Duchamp che si chiamava se non sbaglio Nudo che scende le scale ballando il Boogie – Woogie. Anche li c’era una musica. L’opera era un’istallazione abbastanza complessa, con diversi elementi. C’erano queste figure di marmo che evocavo prima, sdraiate su una scala, perlomeno paradossale perché era orizzontale; c’erano i colori tipici dei famosi quadri di Mondrian dedicati al Boogie – Woogie a New York. Poi c’erano i sottili fili verdi tesi sulle pareti della galleria e nel sottofondo c’erano dei Boogie – Woogie, quelli che poteva ascoltare, come si sa, Mondrian. La componente musicale doveva essere filologicamente legittimata, doveva essere la musica che aveva effettivamente sentiva Mondrian. Mi ricordo all’epoca di avere avuto una discussione su questo punto con Luciano, sulla scelta esatta dei brani. Forse non te lo ricordi.

Luciano Fabro – Non me lo ricordo.

Daniel Soutif – Va beh. Oggi evidentemente il nostro ragazzo è passato al sampling, una cosa di natura veramente diversa. Di tutto questo spero che ci parlerà un po’ e che ci spiegherà come ci è arrivato. Ecco la mia prima reazione… Come tesi va bene professore? Sono bocciato?

Paolo Fabbri – Scusate, la complicità tra chi parla, non deve escludere gli ascoltatori.
Siamo tutti certi che l’installazione singolare di Fabro ha un senso esatto quanto allusivo e che l’autore non ci spiegherà espressamente un significato: solo le tracce che ci lascerà nacondendolo serviranno a carpirlo.
Avevo promesso di porgli delle domande: col vantaggio rispetto a Daniel d’aver visto l’installazione e con l’effetto di relativo sbigottimento, di quanti erano stati colpiti da questa musica forte, dal montaggio di elementi naturali, gli uccelli e iperculturali, Rossini. (Mi dicevo, Soutif ci aiuterà perché ha il péché mignon di essere uno studioso di jazz; scrive regolarmente sulla “rivista del jazz” diretta da Filippo Bianchi e con una rubrica di jazz ha collaborato a lungo con Libération).
Provo dunque a fare l’osservazione promessa. Cominciando con un aneddoto sull’altezza del tono sonoro. Era ancora vivo Luciano Berio e ad un incontro organizzato sul lago d’Orta, dalla Fondazione di Valerio Adami, era presente Piergiorgio Odifredi, che, da buon matematico, pensa che la relazione tra la matematica e la musica cominciò con Pitagora e finisca con Bach. Odifredi ha avuto un’esperienza devastatrice con il testo registrato di Berio, composto da sole voci ad un tono altissimo (La moglie di Berio, Talia, sosteneva intanto che l’autore avrebbe voluto ascoltarlo ad un volume ancora molto più alto). Odifredi disperato è scappato via. Insomma meglio essere più prudenti quando si parla della razionalità della matematica e della musica: anche Babele ha la sua sintassi.
Ora prendo dei guanti anch’io. Una delle osservazioni di Daniel, l’ho fatta anche io nel mio giro delle installazioni di Fabro quando mi accorsi che sono quasi tutte ad altezza d’uomo. Ho controllato: non si tratta della medesima taglia, però sono ad altezza d’uomo. Questo conferma la tesi di Daniel sul loro antropomorfismo: quando ha parlato di statue, di schemi – statua con una sostanza espressiva diversa, dal cromatismo vario e vivace. Certo sono tracce di oscilloscopio, ma con una lampante verticalità che dà loro un andamento astratto da figurine cicladiche o etrusche, ombre della sera colorate..
Dopo di ché ho cominciato a guardare le uova. Mi piace che l’abbia già scritto Soutif nel catalogo della mostra parigina: nelle sue opere Fabro ha utilizzato spesso questa figura iconografica ricorrente per perfezione astratta nella tradizione artistica della ormai secolare modernità: Brancusi è un punto di riferimento! Mi ha confortato quando sono andato a vedere e ho scoperto che non sono affatto gusci, ma uova in bianco marmo di Carrara.

Luciano Fabro – Sì ma potrebbero essere anche le altre, che però si rompevano in ogni momento.

Paolo Fabbri – Ecco l’Uovo di Colombo. Il fatto che Fabro usi delle forme – uova e che questi si trivino incollate alla base dell’installazione (la statua) mi ha fatto pensare a due valori: il primo è la grande dissonnza dei gabbiani, o della massa di uccelli, che hanno ricordato a Daniel gli Uccelli di Hitchcock e che a me sono sembrati, arrischio, una firma. Sapete che è significatico e complicato il senso del luogo dove firmano gli autori, e a me è parso che, poste come sono alla base dell’opera, le uova perdessero il solo un carattere plastico e figurativo, un nido, ma che si disponessero come firma. I semiologi vivono in stato di allegoria grafica: allora ho contato lettera per lettera – effe – a – bi – erre – o – , F – A – B – R – O, insomma: sono cinque e ho pensato: è la firma di Fabro. Adesso lui potrà dire che deliro l ma che in tal caso sarebbe lui l’autore dell’allucinazione, poiché vado nel senso della forma della sua opera.

Daniel Soutif – Su altre uova di Fabro… Bisogna dire che ci sono opere in cui sono molte di più. Quelli che conoscono il lavoro di Luciano, non possono ignorare quest’opera fantastica intitolata Ovaie che è fatta di cavi di ferro proprio grossi, che sono messi a coppia su una lunghezza di 7, 8 metri…

Luciano Fabro – Sì. Anche 10…

Daniel Soutif – È variabile. Appare un po’ come un serpente di ferro nel quale le uova sono inserite tra i cavi e sono ben più numerose. Il numero, quindi, ti è capitato a pennello oggi. Un’altra volta potrebbe non andare così ma comunque era carina…

Paolo Fabbri – Va bene, ci ho provato. Comunque, Gombrowicz docet, noi incontriamo sempre il caos del mondo nella direzione di un ordine qualsivoglia. E queste proiezioni sono i risultati dell’opera, non spiegazioni esterne, ma effetti del discorso audiovisivo di Fabro.
L’altra questione che mi ha incuriosito è il montaggio, l’intercattura tra lo stridore degli uccelli e la musicalità rossiniana. Ho notato, ma mi dirai se è calcolato dal tuo gioco di sampling, che è in gioco un’alternanza tra la musica iperculturalizzata e l’immenso brusio che è il vero contrario del suono articolato; l’inarticolato appunto. Barthes scriveva: “il brusio è il tormento di una finalità nella profusione, in cui tutto si riproduce e niente si ripete”. Mi pare profondo: nel brusio c’è un’assenza infinita di finalità, La colonia di quegli ucceli, costantemente rinnovata nelle generazioni, potrebbe proseguire nel suo perenne bruire, mentre Rossini chiude alla fine del crescendo. Da una parte dunque un brusio illimitato senza finalità, mentre dall’altra articolazione e chiusura,. Capisco la “paura” di Daniel, alla minaccia di questo il bruire stridente, Però ho notato che talora nel montaggio, l’articolato e l’inarticolato si mescolano, scambiano le loro proprietà. All’inizio è solo Rossini o solo stridore: si comincia poi a intra – udire un’interferenza, una specie di “sinfonia di uccelli”, come quelle di Messiaens. Ad un momento nei giochi di sampling i suoni emergono mescidati, come se Fabro volesse mostrare che ogni musica torna sempre al brusio, o che nell’indefinito brusio c’è promessa di musica. “Elementare Watson?”. Forse!
Invece non ho capito il battere irregolare della bacchetta.. Vorrei avere qualche lume o segno in più su queste battute. Impressionato dal solito numero, mi sono anche chiesto se erano cinque battute,… no! ho abbandonato l’ipotesi
Io per la verità avrei finito. Ci sono implicite alcune domande e magari qualche suggerimento a Daniel per tornarci sopra.

Luciano Fabro – Allora credo sia necessario, più per raccontare questo lavoro che per dargli delle interpretazioni, dire che è un lavoro che si potrebbe considerare una specie di cesto, un nido di aneddoti. Cominciando da quello di Rossini sull’ouverture del Signor Bruschino che allora fece scalpore. Lo racconta anche Stendhal, anzi si parte da Stendhal e poi ci sono state varie interpretazioni. Vale a dire, lui detta come istruzione che ad ogni battuta e tra una battuta e l’altra si batta l’archetto sul piattino, quello che raccoglieva la cera. E questo è stato l’elemento scatenante di tutta una serie di ipotesi su come sarebbe stata questa ouverture con queste interruzioni. Una cosa abbastanza complicata, anche perché bisogna vedere che ritmo avrebbero creato i violinisti e anche come l’ouverture si sarebbe moltiplicata per lo meno per due, per tre, essendo interrotta ad ogni battuta da questo colpetto. Naturalmente, i musicisti trasformarono questo gioco, in modo non direi provocatorio, ma certamente pungente, in una regola di esecuzione. Per cui in tutta la trascrizione, come si diceva di Shakespeare di trascrizione in trascrizione, riuscirono a sistemare queste battute in alcuni momenti. Perché talvolta ne dessero tre, come risultano qua, talaltra quattro, o una, non si capisce. In effetti anche a me davano fastidio queste interruzioni, che trovavo molto arbitrarie. E inizialmente volevo toglierle, ma le volevo anche lasciare come citazione di un vezzo tipico delle persone di mestiere, che non si lasciano smuovere sui dettagli. Ecco questa è la questione Rossini. L’altra viene da più lontano, quando fui invitato a fare un lavoro in una landa sperduta della Norvegia e andando a visitarla mi dissero che era un parco protetto dove si riproducevano gli uccelli, in particolare alcune specie di gabbiani. Andai su, loro si aspettavano che facessi il monumento per la piazza del paese, ma ho detto: no, voi siete quattro gatti invece gli uccelli sono tanti, mi sembra più interessante fare qualcosa per loro. E così feci un lavoro: Nido. Lo volli collocare in un’isola, veramente favolosa, incredibile, dove le persone non possono andare se non 15 giorni all’anno perché tutto il resto, o nidifica uno o nidifica l’altro. Quando si andava lì c’era questo rumore, questo suono così assordante che era impossibile riuscire a parlare, a capirsi, anche urlando, perché era come una specie di cava. In quei giorni lì mentre preparavo il lavoro, di fronte a quello che poteva essere considerato un albergo, c’era uno stabile un po’ abbandonato dove s’era sistemata una colonia di gabbiani. E nacque un altro stimolo, stando seduto lì a guardarmi il panorama, mi accorsi che nel canto di questi gabbiani, c’era uno che a un certo punto dava la partenza, poi entravano tre, quattro, cinque ta – ta – ta, e poi a un certo punto entrava il coro. Cioè la struttura era analoga a quella di una qualsiasi sinfonia con tutte le varianti che non si ripetono, ogni volta erano originali. Naturalmente io avrei voluto avere lì con me l’amico che poi ha registrato queste…, ma ero solo con le 40 persone del paese, perché il paese non superava le 40 persone e nessuno aveva un registratore. Era veramente una cosa… In quei giorni io andavo fuori e assistevo a questo concerto, che durava più o meno, anche come tempo, come una ouverture da ‘700 da ‘800, cioè quando ancora le cose erano quiete e avevano dei tempi molto… da fiato. Per cui quando poi andammo a collocare questa scultura l’anno dopo,… ah no, la registrazione avvenne 10 anni dopo, quando organizzarono un tour in queste isole e ci fu anche questo regista, Penco, che ha fatto le riprese e anche le registrazioni sonore, e allora ci trovammo in una situazione, però, diciamo meno precisa, perché mentre nel caso precedente potevano essere circa 200 gabbiani, poi potevano essere 200.000, con l’aquila che girava sopra aspettando. E tutti i gabbiani erano su queste pareti di roccia alte 200 metri, e le uova stavano nel nido, mi pare che stessero davanti… si infatti loro stavano molto attenti, quasi che le sentissero, forse le scaldavano meglio. Erano gabbiani piuttosto grandi, quindi si vedeva. Però, ciò nonostante, come si sente, nonostante fossero a questo punto, non più in trecento, ma forse in 30.000, mantenevano un periodo, un coro, veramente. Non so se i cori umani quando raggiungono tante persone riescono ad avere dei periodi così organizzabili, ecco. Poi, io ho preso l’ouverture di Rossini: a questo punto non potevo spaccarla per battute, non avevo né il tempo né la tecnica né la possibilità, e mi sono semplicemente accontentato di alternare questi periodi per cui il tempo che voi sentite, cioè qui c’è tutta l’ouverture, da 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, e lo stesso vale per il canto dei gabbiani, praticamente a sandwich vanno avanti fino alla fine. Ecco, la cosa curiosa è che pur non avendo mai cercato fino in fondo di mischiarli, all’inizio li tengo molto staccati, poi a un certo punto mi sembrava quasi che un periodo, perché parlo più di periodo che di musica, entrasse nell’altro. E allora non sono stato a fare troppo il puritano e li ho lasciati entrare, tentando sempre però di ritagliarli, salvo alla fine che sembrava quasi che i gabbiani avessero prima studiato la lezione, fatto delle prove e alla fine avessero imparato, ecco. È tutto…, va beh. Sono stato bravo…

Paolo Fabbri – Bravissimo.

Luciano Fabro – Oh! Grazie.

Paolo Fabbri – Tocca a Daniel adesso. Poi io passerei la parola per qualche chiarimento.

Luciano Fabro – Questo è un contraddittorio!

Daniel Soutif – No,… io non posso contraddire. Aggiungerei due o tre altri pensieri. Quello che ha detto Luciano, ma questo è logico, è un’altra storia, diversa da quella che mi fa venire in mente l’opera. Avrei potuto anche immaginarla in parte perché sapevo di questo lavoro, su quest’isola, questo nido. Mi mancava invece l’aspetto sonoro dei gabbiani che Luciano non mi aveva mai raccontato. Non sapevo neanche la storia di Rossini. Ho fatto un po’ di altri pensieri legati agli uccelli, direi. Quello che vorrei capire adesso è quali sensazioni hanno fatto si che pensassi allora a registrare questi uccelli. Li avevi registrati con uno scopo già pensato o così solo per avere del materiale che avrebbe trovato un senso successivamente? Gli uccelli non sono come gli altri animali nell’immaginario. Innanzi tutto volano e quindi ci possono anche colpire. Possono essere molto gentili, ma anche molto negativi.

Luciano Fabro – Erano proprio quelli che colpiscono!

Daniel Soutif – Quindi qualcosa di legittimo nella paura c’è. Nella storia dell’arte, nella storia del pensiero occidentale, l’uccello occupa uno spazio veramente importante. Siamo nel paese che ha visto nascere San Francesco d’Assisi e la tematica del parlare con l’uccello, che poi arriva fino a Pasolini con Uccellacci e Uccellini. Musicalmente invece, l’uccello dispone di uno spazio esistente, ma non così grande come si potrebbe pensare; c’è naturalmente Pappagallo, il personaggio del Flauto Magico. Ma il grande artista che ha lavorato con gli uccelli è Olivier Messiaen. Ha fatto del loro canto una cosa completamente musicale. È andato a sentire gli uccelli, a notare le melodie, le armonie eventuali e ne ha tirato fuori un materiale che ha considerato come se fosse già una musica. E proprio sulla base delle caratteristiche solite della musica, cioè il ritmo, la melodia, le eventuali armonie, presenti degli uccelli che Messiaen ha creato un’opera lirica gigante dedicata non a caso a San Francesco d’Assisi, tra l’altro si sta presentando in questo momento anche a Parigi. Pensavo anche a questo, mentre ascoltavo l’opera di Luciano, ma non ho seguito questa strada, perché, se si vuole parlare di musica, mi sembra che la dimensione dell’opera sia proprio attuale: mischiare, incollare delle fonti diverse, alla fine il risultato è più elettronico che qualunque altra cosa, elettronico nel senso non della tecnologia, ma della cosiddetta musica elettronica. Si potrebbe intuire questa relazione anche per quanto riguarda il livello sonoro alto che è uno dei cliché di questa musica detta elettronica o tecno: deve stare al limite del sopportabile. Delle volte può diventare pericolosa per l’orecchio; fa parte proprio del concetto. Questo, lo ripeto, è una cosa che mi ha molto stupito. Potrebbe essere così che comunicano il visivo e il sonoro. In questo senso il sonoro diventa spaziale, diventa una cosa invadente che si traduce in visivo, non veramente visibile, una cosa che finisce per toccare lo spazio. Sono tutte cose a cui immagino che tu abbia pensato. Avrai pensato in particolare al tuo rapporto come corpo umano con questi animali vicini che fanno un po’ paura. Ti circondano, in un certo senso. Si sente evidentemente questa dimensione nell’opera. Invece sono meno d’accordo così, almeno da quello che ho sentito, sul’idea che il canto degli uccelli potrebbe passare a una musica che sarebbe di tipo sinfonico per esempio. È una tendenza che si manifesta ogni volta che si lavora sul suono che emettono gli animali. Per esempio c’è anche il canto delle balene. Ci sono tutte queste registrazioni che spesso sono rilavorate, per esempio un po’ accelerate perché diventino udibili per noi e montate in un modo che si riferisce alle nostre strutture musicali classiche. Ma tutte queste osservazioni sono un po’ sparse, non c’è una polemica… Vi deludo.

Luciano Fabro – Questa è la prima volta che io faccio sentire a lui la musica, fino ad oggi l’ha sempre fatta sentire lui a me, per cui una certa rivalsa ho voluto prendermela.

Daniel Soutif – Posso aggiungere una cosa? Adesso mi viene in mente che uno dei più grandi musicisti di jazz, grandioso, una delle figure mitiche, Charlie Parker, era soprannominato Bird, Uccello, non perché la sua musica ricordasse il canto degli uccelli, ma evidentemente per l’altra connotazione dell’uccello: quella del volare e del dominare tutto il paesaggio. Bisogna ricodare che, quando Charlie Parker è morto a New York alla giovanissima età di 35 anni, i suoi seguaci scrivevano sui muri Bird lives, Uccello vive, perché era diventato il modello di tutta una generazione. Ma a prima vista gli uccelli di Luciano hanno pochissimo a che vedere con Bird. Forse si potrebbe cercare invece nel campo di una musica improvvisata più recente, pure talvolta un po’ terrificante. Se si andasse verso questa direzione il suono di questi uccelli mi farebbe allora pensare ai momenti più radicali del free jazz, questi momenti in cui scatenati, i musicisti facevano più rumore possibile usando spessissimo l’acuto degli strumenti a ancia per emettere dei suoni proprio da uccelli.

Luciano Fabro – Ma vorrei provocare Daniel,… con lui presente, feci già un concerto per uccelli, al Pompidou.

Daniel Soutif – È vero, è vero!

Luciano Fabro – Quando… no…. L’anatra, quella, era a Lucerna. Al Pompidou invece sono stato lì per mezz’ora a dire delle cose e a usare i sifulì dei vari uccelli senza che loro sentissero niente perché non funzionava il… (risa)

Daniel Soutif – Io lo posso raccontare. Era l’inaugurazione della mostra di Luciano al Pompidou. Aveva installato una delle sue opere famose, che è un grande cubo di specchi dentro e fuori, attorno al quale furono disposte delle sedie sui quattro lati in modo tale che la gente seduta fosse confrontata con la propria spettacolarità perché guardando questo cubo si vede dentro. Dentro il cubo si era messo Luciano con i suoi strumenti da uccellista o…

Luciano Fabro – … da uccellatore.

Daniel Soutif – Da uccellatore. E poi aveva chiesto che suonassero quattro batteristi che si trovavano invece negli angoli della stanza. Il che faceva parecchio rumore, devo dire. Mi ero dimenticato questo particolare, ma è un antecedente. Invece non ero presente a quello di cui parla Luciano con l’anatra, non mi è stato neanche raccontato.

Luciano Fabro – Guarda io facevo tutto: facevo il merlo, cercavo di farlo al meglio… poi, dopo circa 10 minuti, un quarto d’ora, forse anche di più, una mezz’ora, esco e vedo tutti con gli occhi sbarrati (risa),… specialmente i miei parenti, mia moglie, perché non capivano, sapevano che ero dentro, ma non sentivano niente… è successo qualcosa! Invece era solo che non funzionava il microfono!

Spettatore – Dopo è venuto il suono?!

Luciano Fabro – No, no,…è sparito nel…! Era quello che si dice il suono allo stato puro.

Daniel Soutif – Questa allora è la dimensione cagiana, se si può dire, discendente da John Cage, perché lì era un’opera silenziosa, era qualche minuto di silenzio firmato da Luciano Fabro (risa).

Luciano Fabro – No, no.

Daniel Soutif – Lo so, lo so (risa),… lo dico per…

Paolo Fabbri – Non si sentiva ma c’era. Il suono c’era.

Luciano Fabro – Avevo anche studiato come…, che non è facile!

Paolo Fabbri – Bene. Prima di tutto avere trovato questo background di bird watcher, di uccellatore che noi ignoravamo, ci ricolloca finalmente dentro un’altra sede di spiegazioni rispetto alle uova. Il suono crea una spazio profondo che contiene queste figure, simulacri di uomini – uccelli concertanti e canori.
Adesso però tocca a voi per le domande, chiarimenti e curiosità!

Spettatore – Questo per esempio perché non incorpora l’oscilloscopio?

Luciano Fabro – C’è anche lì: Solo dato che come tutti, come bene ha detto Daniel, volevo fare il ragazzo, giocare con gli strumenti anche del Photoshop, praticamente è lo stesso, ma invece di mettere col cursore di qua uno, lo mette di là, uno viene giallo, l’altro viene rosso, c’era questo effetto un po’, non so come lo chiamano loro, effetto faro casuale, come quando uno accende una lampadina e tutte le cose prendono un colore al limite, nascono delle ombre, ecc.

Spettatore – Visto che lei prima parlava di dettagli, vorrei sapere perché i portauovo sono tutti di colori differenti e come mai li ha messi in quel modo?

Luciano Fabro – Come portauovo?

Spettatore – Il sostegno, la base delle uova.

Luciano Fabro – Ah,… no!… Quelli sono portachiavi (risa)

Spettatore – Siccome c’era poca gente all’inizio, quando abbiamo veramente visto e sentito il suono che lei ha prodotto, vorrei che lo ripetesse, perché la gente non sa veramente cos’è quest’opera.

Luciano Fabro – Ma quelli che non lo sanno, non si rendono conto che lei ha detto una cattiveria (risa).

Paolo Fabbri – No, io penso che sia una buonissima idea, di risentire la musica. Che sia a questa lingua che venga reso il turno di parola.

Print Friendly, PDF & Email

Lascia un commento