Da: Lettera internazionale: rivista trimestrale europea, Associazione Lettera Internazionale, Roma, 94, 2008.
Ma che cosa è il tempo? Suppongo che sia una via di transito dei significati
Manganelli
1.
Il nostro pianeta è soggetto a riscaldamento semantico, non solo atmosferico. Nel generale abbassamento dei Lumi, è difficile distinguere le parole nuove, quelle dotate di nuovi significati, da altre che attraversano catastrofiche transizioni di fase. Tra queste ultime, è Utopia.
Nel tempo postmoderno dell’istantaneità e del presente, pronunciare l’utopia sembra un anacronismo congenito. I più sembrano ormai convinti che nessuno vedrà il victory day del regno dei fini e che si potrà vivere soltanto nella dilazione, nell’estensione durativa di un presente permanente. Le grandi trascendenze politiche e ideologiche si scioglierebbero nel panteismo dell’informazione e in quello mercantile, mediati dalla comunicazione e dal denaro. La tensione e la mobilizzazione storica – giungere a fini infiniti con mezzi finiti – sarebbe ferma ai piedi del muro dei tempi. Contiamo il tempo alla rovescia, in direzione del presente. Siano scesi dalla scala mobile del progresso e il principio speranza – coi suoi correlati di trionfo o di apocalisse – ha trovato rifugio nella moda a cui la storia ha passato il testimone. Il pensiero critico avrebbe quindi perduto ogni crisma di valutazione. L’epoca è diventata opaca.
Questa morte presunta dell’utopia esibisce, ci sembra, tutti i tratti della distopia o della discronia. La sua retorica – la faccia significante dell’ ideologia – ci aiuta però a chiarire il senso di quella che Bloch chiamava la “funzione utopica”. Una tendenza o una propensione a fare dell’irrealtà un vettore di realtà. Un andare contro corrente, contro l’incompletezza del reale, anticipando i risultati attraverso l’augurio: “melodia pulsionale che libera la volonta e le suggerisce quello che deve volere”. Per il semiologo è questione di scelta e di percorso tra le modalità esistenziali: la Virtualità e la Realizzazione, e i loro contrari la Potenzialità e la Attualizzazione. Lo spirito dell’utopia è abitato oggi da un principio di precauzione: non è rivolto a realizzare la virtualità del “non ancora”; vive nell'”ancora”, nella tensione di una potenzialità che intende attualizzarsi, ma senza volersi realizzare. Una “sospensione interamente mobile e surplace” dice Sloterdijk, un cenno incoativo che si chiarisce, senza proiezione definitiva e imperativa come un’indicazione, un “segno precursore d’un avvenire non dato”.
2.
Riflettere alla vulgata postmoderna ci conduce quindi oltre la funzione utopica, nella direzione dell’Eterotopia e dell’Eteroglossia.
Cominciamo col porre in dubbio la fine dichiarata dei grandi racconti utopici della modernità e il moltiplicarsi dei raccontini “deboli”. Se così fosse, non siamo mai stati moderni. Due grandi narrazioni continuano infatti ad attraversare con le loro vicende tragiche ed ironiche, la (post)-modernità, detta riflessiva: (i) l’Individualismo identitario e (ii) il Cosmopolitismo della globalizzazione.
Per quanto riguarda l’Individualismo, per cui la sola utopia possibile sarebbe la riuscita personale, c’è chi ha osservato che la ricerca biologica e tecnologia medica contemporanea garantisce l’Ucronia di una vita immortale (Baudrillard). Nei laboratori contemporanei “la vita non esiste” (Szent-Gyorgy) se non come “insieme di fenomeni capaci di servirsi della morte” (Atlan). Quanto alla medicina, essa opera nella prospettiva implicita dell’immortalità tendenziale e asintotica degli individui. Un’immortalità senza trascendenza, funzionale e in tempo reale, che sembra una parodia delle antiche utopie, mitiche e religiose. Il soggetto della vita non è più curato in quanto soggetto a morire. L’estradizione della morte permette quindi l’utopia immanente, cioè l’Eterotopia, d’una persistenza del corpo nell’accanimento terapeutico e prefigura un diritto di sopravvivenza perpetua.
Quanto alla Globalizzazione, non è qui il luogo di reiterare i dogmi economici e politici per cui nel sistema integrato del capitalismo globale – iper o supercapitalismo – l’aumento della produttività e della tecnica è omologato alla crescita del processo culturale e democratico. Azionisti di tutto il mondo unitevi! La società in cui vivete, passata dal dispositivo gerarchico a quello connessionista, è composta di ONG, industrie, banche e media; lo stato è un’impresa, il popolo sono i consumatori e la rappresentanza è un sondaggio.
Basta ricordarne l’ironia oggettiva degli effetti, l'”eterogenesi dei fini”. La mondializzazione economica è una balkanizzazione naturale e culturale. Il progresso è retrogrado: lo sviluppo tecnico si accompagna ad un rinnovo identitario arcaico; gli squilibri tecnici sollecitano i ritorni di fiamma etnici; all’accresciuta mobilità fisica risponde una chiusura delle memorie culturali e il moltiplicarsi dei muri. Le reti globali creano ghetti. Al ridursi delle diversità tra gli stati corrisponde l’aumento delle differenze all’interno. E poiché lo sviluppo è multi-naturalista, produce cioè nuove nature, la terra – che la storia aveva sempre considerato come una scena e non come un attore -corre rischi aggravati dagli stessi tentativi di porvi rimedio (Beck). Parafrasando Holderlin: “là dove cresce quel che salva cresce il pericolo”: da, wo das Rettende wachst, wachst die Gefahr auch.
Il globo, inteso come mercato per ciascuno – la proprietà privata si estende dal suolo ai geni – non è una casa per tutti. E il “managerialismo” meccanicistico, per chiamarlo col suo nome, non può produrre una semio-sfera unificata dei significati e dei valori. Si moltiplicano i luoghi senza soggetti – non luoghi di transito e i soggetti senza luoghi – i migranti e le loro comunità ancorate non già alla terra ma a sistemi di rappresentazioni: lingue, segni, testi, forme di vita e culture. La globalizzazione cosmopolita assottiglia e rende porosi i confini tra gli stati contenitori che, per “nazionalismo metodologico”, avevano generalizzato ai loro abitanti il sistema semiotico unico o dominante, della lingua. Tuttavia l’effetto non è quello, che si riteneva scontato di creare: una lingua e un’unica cultura, come vuol far credere la distopia dell’inglese dominante e della macDonaldizzazione globale. Al contrario il confronto multiculturale sta provocando impredicibili fenomeni di Eterotopia in cui il contatto senza esotismo e il difficile confronto con altre culture provoca un ritorno riflessivo dei fondamentalismi e dei revisionismi. In primo luogo la Commemorite, disturbo postmoderno – con l’ansia, lo stress e le allergie – che reinventa agiografie, storie sante retrospettive a titolo decorativo e liturgico. Anche l’integrismo non è tradizionalista, ma la ri-territorializzazione immaginaria di chi ha perduto la propria nicchia etnica. Uno storno di fondi simbolici.
3.
La globalizzazione non è uniforme. Nei suoi effetti che sono sempre locali, sta provocando tante modernità riflessive quante sono le trasformazioni nella ecologia dei segni e dei linguaggi. Una Eteroglossia plurale mediata dai mediascapes dalle nuove tecnologie dell’informazione.
Nella società della conoscenza, dove la termodinamica delle forze è stata sostituita dalla grammatica dell’informazione, i linguaggi del “multiverso semiotico” (Sloterdijk) coi loro predicati di realtà e di valore, le loro tattiche di enunciazione e punti di vista, presentano un nuovo ruolo “mediante”. I principi del loro funzionamento, dagli incontri e scontri tra lingue e discorsi fino alle traduzioni tra sistemi di segni, ci offrono le forme e le formule per la comprensione e la presa dei fenomeni di senso in una società globalizzata e multilingue.
In primo luogo perché l’apprendimento linguistico chiede tempo. Se l’informazione globalizzata delle nuove tecnologie è istantanea e simultanea, l’apprendimento dei sistemi segnici, la cui complessità non è uno slogan, esige una applicazione prolungata. L’utopica lingua di tutti è di là da venire.
Rassicuriamoci inoltre sulla conclamata distopia che vuole l’inglese, come lingua unica e planetaria della cifra e del consumo, Pentecoste veicolare dell’età dell’informazione. L’anglofonia non è il mezzo che è diventato messaggio. Oggi l’inglese è parlato dall’8,33% pianeta: è il doppio degli arabi, certo ma la metà dei cinesi. Poi, come tutte le lingue supercentrali, l’inglese, con britannico dispetto, si va differenziando in varietà “dialettali” autonome – americano, australiano, indiano. E se è stata, negli ultimi dieci anni, la lingua del web, oggi è scesa sotto il 50%: gli spagnoli hanno introdotto la loro grafia, i francesi i loro accenti. E i progressi della traduzione automatica, almeno per i codici più ristretti delle lingue settoriali, faranno il resto.
Ma se le altre lingue, minoritarie o minorate fossero inghiottite o sterminate? Ancora una distopia: nei prossimi 50 anni si prevede ne spariranno tra l’8 e il 16%! Di che parlare di lingue in pericolo, guerre linguistiche, killer language, linguicidio! La ricerca linguistica semiotica e antropologica va però in tutt’altro senso. Ci offre l’immagine di una ecologia simbolica complessa in cui i fenomeni di obsolescenza sono accompagnati da esempi di sorprendente vitalità. Ci sono lingue che muoiono – non per genocidio, le lingue sono in pericolo in tempo di pace! – nel dispositivo di competizione e selezione attivato dalla globalizzazione, ma anche lingue che nascono come i creoli. I pidgin urbani e proletari degli emarginati resistono davanti alle lingue di prestigio dei potenti, come le “lingue franche” dell’Africa e dei Caraibi. Quello che accade invece è il moltiplicarsi dei plurilinguismi, delle interferenze, dei prestiti, delle commutazioni di codice e dei sincretismi. La creolizzazione è un modo di riempire forme nuove d’antichi significati. Salvaguardare le lingue come sistemi grammaticali e/o lessicali significa trattarle come i marmi dell’Ara Pacis. Il modo corretto per farlo è la pratica di una traduzione a cui collaborino membri di comunità differenti, in grado d’introdurre significati nuovi nelle lingue di partenza (source) e in quelle di arrivo (target).
Le lingue insomma sono internamente variabili e non evolvono in modo uniforme; non vanno preservate quindi ma rivitalizzate. La metafora della lingua come gioco logico di scacchi è inadeguata; meglio pensarla in termini biologici, come popolazione di idioletti che si comportano come virus! Più che di morte delle lingue sarebbe meglio parlare della loro capacità di trascendere il mondo costruito dalle pratiche discorsive attraverso i fenomeni di Eteroglossia che di manifestano nel processo di divergenza degli idiomi.
I linguaggi non sono definiti dai termini del dizionario e dalla morfologia delle frasi che generano, ma dall’Ordine dei loro Discorsi. Dal modo con cui i parlanti focalizzano e selezionano i contenuti degli enunciati nonché il loro punto di vista e la relazione – personale o impersonale – con gli altri locutori. La globalizzazione è accompagnata da una vasta gamma di ristrutturazioni e riprogrammazioni discorsive che ne trasformano la pretesa di verità e l’efficaca. Mentre il discorso politico è notoriamente ricodificato da quello pubblicitario, oggi che la nuova vulgata planetaria – flessibilità, governance, esclusione, ecc. – proviene da discorso del management, enunciazione “esperta” che legittima l’inevitabilità dei processi che studia e a cui partecipa. Un genere comunicativo che, attraverso le grandi istituzioni finanziarie internazionali ha permeato localmente lo stile delle istituzioni pubbliche, governi, sindacati e università compresi.
I discorsi non si pronunciano però nello stesso modo e nella stessa cornice partecipativa. Nel potenziale semantico di un enunciato e nei punti di vista della loro enunciazione ci sono tendenze conflittuali che conducono all’uso di parole, segni o immagini che appartengono a sfere in opposizione di senso e di valore. È l’Eteroglossia semiotica che introduce nel discorso apparentemente condiviso elementi di distanza e di parodia. Come il linguistic crossing, in cui il locutore usa la lingua o il discorso altrui e i mezzi della sua trasmissione, restando però all’interno della propria comunità: accentuando eventualmente i tratti comunicativi dell’altro per ipercorrezione e ironia, come una maschera semiotica che sospende l’affiliazione quando non la contesta. Un operatore privilegiato dei mutamenti linguistici.
Come l’Eterotopia, anche l’Eteroglossia insegna che si abitano le culture e le lingue e non le sole tecniche comunicative. Le culture sono fatte di identità e alterazioni, dei dialoghi e degli alterchi che i loro membri intrattengono con gli altri e con loro stessi. Per questo Internet non è un linguaggio ma un supporto alla comunicazione: le comunità che si formano, come ad es. le chat room sono definite dai formati e dalle regole di partecipazione, dai turni di parola, dalla selezione dei contenuti e del lessico. Dalla loro capacità di costruire nell’infosfera, una minima eterotopia e un eteroglossia. È più facile dare una rete al mondo che dei mondi alla rete.
4.
Quanto detto obbedisce, ci sembra, ad un principio immanente di precauzione. Il grande racconto della globalizzazione non va vissuto come decadenza dei formati del nazionalismo metodologico. Ci saranno molte modernità: molte nature generate dalle scienze, molte lingue e molte culture. Il determinismo economico e tecnico – il dogma della “crescita produttiva” – non può ridurre il ruolo del “mediante” simbolico nella costruzione di comunità in condizioni vivibili. Gli universi discorsivi saranno certamente caratterizzati da mutazioni segniche e dalla ridefinizione della semiosfera: come i rapporti tra mediascapes e technoscapes.
I modelli di diffusione e acculturazione non riescono più ad iscriversi nella narrazione cosmopolita. Per comprendere queste mutazioni, non basta però decretarne la liquidità. Servono strumenti di lettura adeguati ai nuovi testi sociali: Per es. “le statistiche sociali” – dice Boltanski – “sono in crisi […] perché la raccolta dei dati si realizza secondo formati che rendono invisibili i nuovi rapporti di forza”. Un pensiero semio-critico, la cui richiesta proviene dalla scienza stessa, che sappia pensare il senso come significato e come direzione. E porsi tra le cose e non al disopra di esse: oltre alla distanza critica va mantenuto un principio di attachment: un attaccamento attivo in luogo dell’impegno utopico.
Non è facile diventare contemporanei del nostro presente.
Bibliografia
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