L’esodo e il riso


Da: AA.VV., E. Tadini. I Trittici, Studio Marconi, Milano 1990.


(in margine a un trittico di Emilio Tadini “Insomnia night”)

“la rimembranza è una festa in mezzo alle tenebre”
(Nabokov, Ada, o l’ardore)

Un trittico è un gioco di testi. Separa le superfici e moltiplica le cornici; dispara la visione e sollecita alle relazioni tra le parti e il tutto. Richiede, poeticamente, uno sguardo lineare e simultaneo che impiglia altri testi nella sua rete. Confonde i segnalibri.
Un lemma: i profughi. Ognuno di noi – artista, semiologo, filosofo – lavora in vista di un dizionario. Per evitare che tautologia ci colga, la figura del profugo (“chi è costretto ad abbandonare terra, paese o patria in seguito ad eventi, persecuzioni, cataclismi”) va differenziata e differita ma anche accostata ed interdefinita: al transfuga e all’emigrato, allo sfollato, al nomade e al pendolare.
Sceglierò di riconoscere tra gli attori del trittico l’esule, meglio l’esule in viaggio, nell’esordio di un esodo collettivo. Per capire, con E.T., quella condizione di dismanagement and grief (Auden), che fa dell’esule una “condizione famosa per la sofferenza che comporta (e) dovrebbe essere conosciuta anche per la sua infinitezza anestetizzante, per la smemoratezza che infonde, per il suo distacco, per la sua indifferenza e perché apre terrificanti panorami umani e disumani per i quali non abbiamo altro metro che noi stessi” (J. Brodskij, Dall’esilio).
Un’opzione: teorico del linguaggio, provo l’esule come un evento linguistico. L’esule, specie lo scrittore, si raccoglie nella sua madre lingua. Questo nesso, privato in patria, in esilio assurge a fato (“è detto, è scritto”).
Il prestigio della propria lingua – panno nero dì velluto, cappello a cilindro, bacchetta magica – si fa ossessione e dovere.
Un genere: la tragicommedia (v. Brodskij).
(i) il tragico: l’esule è il cieco Edipo che muore ai confini: a Colono, avvinghiato ai ricordi di Tebe e senza poter entrare ad Atene. (La frontiera è separazione e anche somma di filtri di traduzione). Meglio, l’esule è un attore che recita Edipo.
Lo ha compreso bene St. Exupéry a Lisbona nel 1940 tra i profughi dell’ultima guerra mondiale (Lettre à un ôtagé).
Nel casinò dell’Estoril, nel paquebot in viaggio per le Americhe, il viaggiatore (“voglio essere un viaggiatore, non voglio essere un emigrante”) avverte il carattere spettrale del profugo, la fine di una densità. I marinai che doppiano il Capo Horn e invecchiano contro il muro dei venti contrari, fin dalla partenza cominciano a tornare; alzare la vela è il primo gesto di ritorno. Ma quella degli esuli è una “nave fantasma, un limbo d’anime che devono nascere, un carico di piante senza radici”. L’esule è un figliol prodigo senza casa in cui tornare; allora i suoi gesti diventano quelli di una comparsa che cerca, senza riuscire, di provare i sentimenti dei vivi. “Era irreale. Come un ballo di bambole. Ma era triste”. L’incolumità fìsica gli toglie ogni senso sociale. L’esule ha un bel mostrare scorie d’identità: aneddoti, rubriche d’indirizzi, lettere d’amore zeppe di nomi propri come fiamme appena spente che crede di portare ancora intatte nel cavo della mano. Quel che è ancora caldo e vivo non serve più a nulla. Il diario della memoria è rilegato in pelle di zigrino. Diventa sempre più difficile allacciare la dubbia finzione del presente alla realtà incontestabile del ricordo. Le fila delle marionette si intrecciano e nevica nella palla di neve del destino. Anche lo spazio (tavoli e pianoforti, sedili e valigie) che unisce la separazione degli esuli non ha denominatore comune, è innominato. “I soli a sembrare reali, al punto che si desiderava di toccarli col dito, (erano) quelli che integrati alla nave e dotati di vere funzioni, portavano i vassoi, facevano brillare i rami, lustravano le scarpe e con un vago sprezzo servivano dei morti”.
Tragico forse non è lo spazio: è il tempo che trascina la sua coda di scorpione. L’esule vive fuori tempo: grazie all’oblio artificiale a cui è stato costretto si vede in una luce postuma. Persino la sua prospettiva di successo è il ritorno. Per Brodskij “uno scrittore in esilio è tutto sommato un essere retrospettivo e retroattivo”. Che sia l’in-condizione di ogni pratica artistica? L’esule ha un “destino cartaceo”, “il destino di un libro sperduto sullo scaffale in mezzo a coloro con cui ha in comune soltanto le prime lettere del (…) cognome”. C’è sempre il rischio d’un destino retro-stilistico: “l’esilio rallenta l’evoluzione stilistica sospingendo uno scrittore verso posizioni conservatrici”. E.T. conosce i rischi e la posta: lo riconoscete esule tra gli esuli – in basso a destra, nel pannello di destra?
(ii) il comico. Ma il trittico di E.T. fissa l’insostenibile tragico attraverso la comicità e precisamente il grottesco (che è almost beautiful). Non il grottesco da camera (“carnevale vissuto in solitudine nella coscienza del proprio isolamento” v. M. Bachtin, L’estetica di Rabelais), non quello romantico, dal riso tetro e melanconico. Nei pannelli esterni del trittico i profughi sono orientati verso il/la cantante Ermafrodito circondato da maschere (frontali), da musici da fiera e da marionette. Gli esuli tragici sono “presi” nell’utopia d’una festa. Qui sta, mi sembra, tutta la forza affermativa – artistica ed euristica – del grottesco, la sua “pienezza bifronte” (Bachtin). Il corpo ibrido, chimerico del/la cantante, quello iperbolico del ballerino-pupo hanno la forza e il cromatismo caricaturale e parodico d’una estrema libertà dalla nostalgia e dal timore. Sono le figure mutanti di una transizione in cui il tempo gioca e ride. L’immagine spazio-temporale – sospesa nel ricordo e nel rimpianto (questa speranza dell’irrevocabile), cullata nella nostalgia (la felicità d’essere tristi) – “fa la capriola”. Come il sentimento, come il giudizio.
Il pannello centrale estende il suo principio carnevalesco a quelli laterali. Il tamburo batte la vita e la morte; la marionetta non subisce l’alienazione di una volontà estranea, ma fa brillare il frammento di un altro mondo; la maschera interdice la vieta coincidenza di un nome e di un viso e addita alla disparità possibile con se stessi; il clown pince sans rire, segnala il carattere aperto della serietà tragica; lo sciame degli oggetti (armi e strumenti – di musica e di scrittura – suppellettili e stoviglie, uova e gusci di tartaruga, candele, dadi e sigarette) prende valore di amuleti. Se in ogni carnevale c’è un piccolo inferno (“il carnevale è processione degli dei detronizzati”) allora “l’inferno si è frantumato e si è sparpagliato come un corno dell’abbondanza” (Bachtin).
Al comico è dato il dono della intra-visione: punto di vista alternante, ambivalente e reversibile dove balena la possibilità viva della città dell’oro. Utopia del sentimento e della conoscenza verso cui l’esule è in viaggio, mentre fugge, spesso, le utopie realizzate. Il riso grottesco della verità in esilio capovolge lo spazio-tempo (non ci sono nomi di destinazione sulle etichette delle valige del trittico, solo il numero tatuato sul polso suggerisce una provenienza). Il profugo fugge verso il meglio (da una tirannia si può essere esiliati in una democrazia…); d’altronde “per uno scrittore andare in esilio è forse, per molti versi, come un tornare a casa, poiché si avvicina al luogo di quegli ideali che lo hanno ispirato fin dall’inizio” (Brodskij).
Anche l’osservatore del trittico viene moltiplicato e messo in movimento. Gli si offrono le superfici di lettura di piccoli rebus verbo-iconici (EX è radice d’esilio?); rime plastiche entro e tra i pannelli (la striscia policromatica sulla gonna del/la cantante e la mostrina del soldato?), ecc. C’è un ritmo rappresentato (il ballo, la musica [big-bang], la canzone [fish-song]) e che udiamo; c’è la scansione orizzontale e verticale delle figure (nel dispositivo serrato della profondità lo spazio è più tra le figure di quanto non le distribuisca e le sostenga); c’è il ritmo infine degli spostamenti che l’osservatore è tenuto a scegliere: battere e levare, avvii e sincopi della visione.
L’esilio è tragicomica lezione di senso morale (divieto di vieta vanità; “sgonfiare le mongolfiere dell’Io”, Brodskij); politica (un uomo liberato non è ancora un uomo libero; chi è libero non incolpa nessuno delle proprie sconfitte); sociale (monito a chi si trastulla con le città ideali). E soprattutto un’iniziazione alla ricerca intellettuale. Nel più forzoso dei percorsi c’è sempre un drive, impulso e deriva. Prendiamo il segno. La mano sinistra del pittore appoggiata al viso, indica in direzione opposta al suo sguardo. Il gesto deittico, del pollice, diverso dal commentator di Alberti, punta fuori quadro, altrove. “…tutte le immagini portano scritto: più in là”. Indicazione “metafisica”? L’esilio come metafora artistica per Brodskij è eminentemente metafisica e d’altronde “se il metafisico non disegnasse penserebbe?” (Bachelard, Poetica dello Spazio).

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