Enunciati misteriosi e enunciazioni ombre


Da: E. Bruno (a cura di), Per Alfred Hitchcock, Editori del Grifo, Montepulciano, 1981, pp. 107-112.


Voi sapete che la simulazione e il segreto sono la regola delle introduzioni alle relazioni e la simulazione è quella di dire non mi intendo dell’argomento ma vengo qui a parlarne comunque. Generalmente poi si dovrebbe svelare che l’autore della simulazione sa di cosa si tratta e deve restare segreta la ragione del tatto che ha usato al suo pubblico. In questo caso, e dico il vero, non essendo un esperto di Hitchcock e amandolo di un amore di amatore, come si dice, cioé di dilettante, e prendondovi il diletto che la parola amatore e dilettante comporta, sono stato invitato dagli amici di Filmcritica a parlare di un problema che mi interessa in quanto semiologo, e in quanto persona che si interessa ai problemi della comunicazione.
Per prima cosa vorrei dire che quello che mi piace, mi diletta, quello che amo da amatore nei film di Hitchcock non è soltanto la qualità testuale ma il gioco fra l’enunciato e l’enunciazione del segreto e della simulazione: sono categorie di cui qualunque teoria della comunicazione ha bisogno, categorie che sono al cuore stesso del funzionamento comunicativo. È molto probabile e scopro immediatamente le mie carte, che non sia vero che il segreto sia una zona d’ombra su una definizione luminosa e chiara della comunicazione, che la comunicazione giri intorno al segreto; non è vero che la simulazione (pensate ai film di spionaggio, pensate alla menzogna del colpevole che verrà smascherato) è costitutiva della comunicazione ma la simulazione è, letteralmente, la centrale del funzionamento del discorso, per la linguistica moderna, è la regola della lingua, cioé la lingua non dice il mondo direttamente come è, ma è, per così dire, in direzione continua sul mondo e tra questi sistemi di indirezione sta la simulazione e il segreto.
Secondo concetto che ci servirà per discutere un po’ la questione della relazione tra enunciazione e enunciato: l’enunciazione e l’enunciato sono due categorie distinte che hanno però qualche pertinenza per lo studio semiologico.
Noi riteniamo, e vedrete che questa cosa mi pare avere una certa pertinenza, che non è soltanto la struttura narrativa della storia ma la modalità con cui questa è portata a conoscenza del suo pubblico che conta; se voi mi permettete questa piccola metafora, io direi che il destinatore è il destino, cioé quando noi andiamo a vedere un film di Hitchcock, la serie delle posizioni che egli ci ha definito con le tecniche di ripresa, con i sistemi linguistici, ecc. con lo sguardo, sono il posto che egli ha «destinato» per noi.
Di questo destino dello spettatore l’avventura del cinema hitchcockiano, credo che sia appunto il discorso della sua capacità di cattura, di affascinazione, di seduzione dello spettatore, non solo dello spettatore concreto ma di quello che viene rappresentato, per così dire, nel tempo. Sia cioé che avvenga sotto forma delegata, attraverso un attore che è là per interpretare il desiderio dello spettatore, sia che sia la caméra a costruire, attraverso una serie di punti di vista, quello che sarà lo spettatore del film di Hitchcock.
Gli spettatori sono incompleti, assenti all’inizio del racconto e vengono progressivamente costruiti nel racconto; lo spettatore è sempre un «prodotto» che esce alla fine del racconto, sia nella sua posizione, sia nella sua passione. Vi darò un esempio di ciò che chiamerei il problema dell’enunciazione enunciata, cioé il modo con cui un personaggio può essere, per così dire, il rappresentante dello spettatore delegato nel testo stesso.
Qualcuno di voi ricorderà il commentatore di Leon Battista Alberti; Alberti suggeriva sempre che in una serie di immagini è bene che ci sia un personaggio il quale punti con il dito la cosa che si vuol mettere in evidenza: questo personaggio è nella storia, ma nello stesso tempo punta verso chi lo ascolta, per mostrare che cosa accade di veramente importante nella storia: chiamiamolo per comodità enunciazione enunciata.
Vi ricordate probabilmente Il caso Paradine: nel film c’è il personaggio della figlia dell’avvocato, collega del protagonista Gregory Peck, la quale durante la scena del processo, sistematicamente, spiega i motivi, le ragioni, del feroce e atroce scambio di battute fra l’avvocato e il giudice, Charles Laughton; anche qui abbiamo un personaggio che gioca lo stesso ruolo del commentatore di Leon Battista Alberti, punta la scena, indica che cosa sta succedendo e lo indica non soltanto alla moglie del protagonista che l’ascolta e che è vicina a lei nella scena, ma lo indica a voi, al pubblico, sottolineando il tipo di interpretazione che bisogna dare.
Questo personaggio, delegato all’interno della storia, è un personaggio che nello stesso tempo è nella storia e fuori dalla storia. Cioé è fuori dalla storia perché punta e vi guarda e attira il vostro interesse di queste strategie di cui Hitchcock è maestro. Il protagonista dell’enunciato è spesso un rappresentante dell’enunciazione. Un’altra strategia, nel cinema di Hitchcock, è la musica (in questo caso di F. Waxham) pochissimo valutata, lavorata nella sua relazione con il significato della struttura narrativa. Qualche volta può darsi si tratti di musica di scena, cioé, per esempio, suonata da un’orchestra, e qualcuno di voi ricorderà una scena famosa, in cui un grido interrompe un’orchestra (L’uomo che sapeva troppo).
Altre volte la musica non è dell’ordine dell’enunciato ma una musica dell’ordine dell’enunciazione, cioé la musica serve per avvertirvi che qualcosa d’importante sta per accadere.
Altre volte ancora la musica interviene per sottolineare che proprio quello che è importante è accaduto; la musica annuncia cioé le passioni con cui voi dovete accogliere la scena, vi dà non soltanto istruzioni cognitive (attenzione qualcuno sta dietro la tenda e guarda!…) ma vi dà anche istruzioni passionali indicando il momento in cui avere paura. Per questo dico che la musica di Hitchcock, le cui strategie sono molto sottili, compongono uno spettatore che sa e si appassiona. È curioso, e abbastanza singolare, notare che tutte le analisi cinematografiche con la loro vertigine dello specifico visivo, finiscono regolarmente per fare sparire l’apporto musicale alla struttura della significazione.
C’è poi il problema delle strutture di enunciazione, cioé dell’uso specifico della macchina da presa. Su questo argomento non sono competente, voglio soltanto attirare l’attenzione su alcuni punti che mi sembrano di un certo interesse.
Il primo punto che mi sembra fondamentale nel discorso Hitchcock è il fatto che il modo con cui la caméra si presenta, è un modo che nello stesso tempo crea un proprio indicibile; l’indicibile e il dicibile, il visibile e l’invisibile sono direttamente, immediatamente, posti dal testo. Ogni volta che parlo e dico automaticamente, scelgo quello che ho detto e seleziono tutto quello che non dico; ogni discorso crea il proprio indicibile.
La macchina da presa di Hitchcock, come tutte le macchine da presa, ma forse più abilmente delle altre, crea nella struttura del proprio dicibile il segreto che vi farà fare una serie di assegnazioni in contumacia. Vedete un viso che trasale dalla paura e immediatamente assegnate, senza averlo visto, una causa che provoca la specifica passione della paura.
Ogni dicibile crea proprio un segreto e vi costringe banalmente, a quelle che gli psicologi chiamano, con una parola pedante, ma molto divertente, le assegnazioni contumacie.
Vi ricordo che le attese non sono puramente cognitive ma che le attese sono passionali e che anche le attese sono tradite e si tradiscono. Dunque la creazione (la stessa tecnica della caméra è necessariamente creatrice) del dicibile e dell’indicibile, del visibile e del non visibile, non è soltanto dell’ordine dell’enunciato, di ciò che avete visto, e di ciò che non avete visto, ma, con una sottile e raffinata strategia, di un sapere per lo spettatore, che molto spesso non è condiviso dagli attori dell’enunciato stesso. Voglio dire che la caniéra contribuisce, come il discorso, alla creazione di uno spazio cognitivo oltre che di uno spazio passionale diviso in maniera molto singolare; vi do un esempio in Giovane e Innocente, si ricorderà che all’inizio della storia si vedono soltanto due persone, da molto lontano che litigano e improvvisamente due occhi di cui uno ha un tic nervoso, un irregolare battito della palpebra. Durante la ricerca il supposto criminale (che non ha visto l’occhio con il tic) troverà finalmente un impermeabile incriminato e otterrà l’informazione che questa persona che ha prestato l’impermeabile ha un occhio che batte irregolarmente, cioé ci sono momenti del racconto in cui il sapere del visore (o dello spettatore) sono identici al sapere del personaggio; ma questo fenomeno è assolutamente eccezionale rispetto alla struttura generale di qualunque racconto sul far sapere, non è una proprietà specifica di Hitchcock quella di far sapere ai propri personaggi cose che lo spettatore non sa o di far sapere allo spettatore cose che il personaggio non sa. Ma è un suo specifico modo di dosare la struttura cognitiva e quindi la struttura passionale: non sapere significa segreto, segreto significa curiosità e così via, curiosità significa attesa, ecc. ecc.
Allora non è tipica di Hitchcock ma è una delle caratteristiche strategie del cinema hitchcockiano di riprodurre immediatamente questa dissimmetria costante tra il sapere del destinatario e il sapere dei personaggi della storia.
Un altro esempio molto semplice, è nel film tradotto in italiano, se non sbaglio Il delitto perfetto: è una storia nella quale il personaggio, Ray Milland, racconta all’uomo che dovrà uccidere la moglie di lui, le ragioni abbiette, per cui vuole uccidere la moglie. Ma tali ragioni, la sete di denaro, la paura di restare povero, ecc. saranno note solo a lui, all’assassino il quale invece viene ucciso dalla donna. Dopo di che, quando Ray Milland verrà smascherato non verrà mai rivelato a nessuno dei protagonisti l’abbietto segreto che lo ha spinto a ideare il crimine. Tanto è vero che, alla fine, tutto si potrà ricomporre in una scena di raffinata e borghese eleganza, cioé l’assassino potenziale, una volta scoperto offre da bere, e la moglie e l’amante di lei accettano di bere.
Il segreto della sua abbietta motivazione resterà segreto. I protagonisti non lo sapranno, il solo che lo sa è lo spettatore, il quale dunque dovrà sapere questa volta più di quanto i protagonisti stessi non sanno. Ma guardate, questa situazione è abbastanza eccezionale, può accadere esattamente il contrario, pensate al Caso Paradine.
Lì come si ricorderà, abbiamo una donna che svela la propria passione, ma nulla viene detto su questa passione, nulla viene detto del mondo con cui questa specie di Lady Chatterley cinematografica, ha amato.
Nel film questa passione resta dunque segreta! Lasciatemi dunque fare una brevissima ipotesi; l’ipotesi è che in un cinema come quello di Hitchcock molto spesso la struttura logica della divisione degli indizii, la organizzazione deduttiva, induttiva e abduttiva (come direbbero oggi i semiotici degli inizi) per arrivare al segreto, non è cruciale. Perché quasi sempre non è mai scoperto deduttivamente chi ottiene la verità, ma il colpevole stesso che si (sentite la parola) «tradisce», che lascia, cioé, filtrare, sfuggire, il segreto. Voi sapete che cosa è il segreto, in ogni caso soffermiamoci un momento. Il segreto è e non è l’indicibile! Il segreto è quello che voi volete dire a qualcuno che vuole saperlo.
Il segreto della fascinazione del film di Hitchcock è la sua manipolazione del segreto e lasciatemi dire che la sua fascinazione è la modalità con cui viene manipolata la struttura del segreto e del modo come viene regolata. Per esempio ci sono rivelazioni di falsi segreti, ricorderete, per esempio, ancora nel film Delitto perfetto, accettando il suggerimento dello scrittore di gialli per televisione, il colpevole confessa veramente, ma la sua vera confessione è una confessione simulata. Ricorderete a quanti livelli le confessioni vengono fatte e che sono tutte «false confessioni» che ne annunciano un’altra.
Allora vedrete come la macchina obbedisce a questa logica interna del segreto. Ecco uno dei problemi che la semiotica si pone, correlare la strategia dell’enunciato, cioé di contenuti alla strategia dell’enunciazione.
Vediamo se c’è qualche caso i cui la mdp necessariamente deve creare questo tipo di organizzazione; il segreto ha un doppio destinatario, quello che vuol sapere non è soltanto colui che cerca, ma anche il pubblico che è costituito in diverse forme.
Dunque abbiamo per così dire, parecchi formati di pubblico creati dalla caméra, il che vuol dire che la caméra crea parecchi formati, e che noi non ci interessiamo della forma del testo, ma dei formati della sua produzione e dei formati della sua recezione.
La caméra può spiare, la caméra può percorrere indifferente, la caméra può rivelare, e così via, noi abbiamo bisogno per spiegare questo prodotto finale, che lo spettatore cognitivo e appassionato, passi attraverso una serie di scelte. Ebbene, vedrete che la caméra è lì per ingannarlo e disilluderlo, per attirarlo e creargli curiosità: si mette dietro la porta, spia attraverso le fessure, aspetta dietro le porte che vanno aperte, attende dietro uno spazio vuoto, qualcuno che arriverà.
Queste strategie sono evidenti, e i giochi di simulazione sono abbastanza raffinati. Pensate, per esempio, a quando la caméra si avvicina ai volti dei personaggi, come per spiare e indicare le emozioni che vengono, e voi sapete molto bene che quei volti non sono lì per rivelare le emozioni ma per nasconderle. La caméra spia sul viso i segni del segreto mentre la realtà spia il segno della simulazione dei segreti.
Vorrei che ricordaste una scena famosissima, il famoso bacio di Notorius, quando per ingannare il marito i due personaggi lo ingannano. Truffaut ha detto una parola molto bella: «questo bacio falsamente falso», espressione, mi pare, tutto sommato elegante: questo bacio falsamente falso è visto dal marito da dietro una finestra, se vi ricordate bene, con una specie di griglie, come l’inizio di una sbarra.
Sapete la famosa storia… io conosco un segreto su di voi, voi sapete che io ho scoperto il vostro segreto… in Hitchcock questa tematica è spessissimo usata; appena vengo a scoprire il mio segreto, voi volete mantenere il segreto sul segreto; vi ricordate il caso di Sebastian alla fine di Notorius egli ha scoperto il segreto su di loro, loro hanno scoperto il segreto su di lui, ma rispetto alle altre spie, tutti e tre devono mantenere il segreto che hanno scoperto, il segreto l’uno dell’altro. Cioé è possibile immaginare che io abbia scoperto il segreto sul fatto che voi avete un segreto sul mio segreto, e così via.
Cosa fa la caméra? La caméra è… necessariamente la spia, in questo gioco complesso di segreti di segreti, di segreti.
Ora, il modo, a mio avviso, con cui Hitchcock lavora è assolutamente singolare, non solo sul piano della struttura dell’enunciato, cioé quando mostra Sebastian che vuole mantenere il segreto davanti agli amici che hanno scoperto il loro segreto: ma anche quando la caméra deve mettere a parte di questo segreto le spettatore allorché tutti gli altri non lo sanno. Pensate a quel travelling celebre, che partendo dall’alto, durante la festa di Notorius, scende attraversando tutta la scena, fino a mostrare la chiave, che sta nascosta nella mano e di cui voi spettatori siete gli unici a conoscere il segreto, oltre naturalmente ad Ingrid Bergman, che è il solo protagonista che «sa».
Ma nel cinema di Hitchcock non è soltanto la strategia del segreto che conta quanto anche l’ordine di fascinazione che vi dà costantemente.
Credo che la fascinazione sia, assieme a questo gioco della simulazione e del segreto, uno dei tratti essenziali del cinema di Hitchcock.
Chi di voi ricorda la donna straordinariamente interpretata (fotografata, più che interpretata se volete) da Kim Novak in La donna che visse due volte? Ebbene, ricorderete che dopo averla perduta, il protagonista la ritrova completamente travestita, è lei, ma volgare, non raffinata, con pesanti orecchini, truccata grevemente. E ricorderete pure il momento in cui il protagonista James Stewart la spoglia e la riveste per farla uguale alla donna che aveva creduto prima perduta. Lui crede di avere trovato un’altra donna qualunque e di averla lentamente trasformata e rivestita fino a farla uguale a quella desiderata e amata. Ma quando l’identificazione sarà compiuta, solo allora troverà la verità: la verità che si trova solo alla condizione di avere percorso la vertigine, il vertigo della falsità di queste sottili strategie delle simulazione del segreto.

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