Da: Catalogo della mostra di Nunzio, Sarai d’ombra, a cura di Cornelia Mattiacci, Galleria Franca Mancini, Pesaro, 8 agosto – 30 novembre 2013.
La carta da visita
Isabella: “Or tutta l’arte a me adoprar conviene”
G. Rossini, L’italiana in Algeri (atto 2, scena 5)
Sono invitato alla mostra di Nunzio a titolo di spettatore critico. Mi trovo in una strana postura: non posso leggere l’invito con lo sguardo interessato del critico embedded, quello che fiancheggia l’attività dell’artista come promotore e curatore. (Per lui pensare l’arte è pensare con l’arte). E neppure con l’occhio del visitatore curioso, quello che può stare davanti all’opera come di fronte a uno specchio o come un sordo che osserva quelli che parlano. Lo spettatore critico invece è tenuto a un veder doppio, a praticare quello che G. Dorfles – un amico di Nunzio e mio – chiamerebbe un osservazione “proairetica”: un’esperienza di valorizzazione e di scelta. Non posso accontentarmi quindi della comunicazione immediata – a “bassa definizione” – e neppure di collocare il Sarai d’ombra nel percorso complessivo di un artista riconosciuto com’è Nunzio. Mi propongo allora di adoperarmi, cioè di mettere in opera questa sua opera soltanto. Di implementare la mostra, trattandola come un esperimento singolare in cui la Galleria Mancini è la “bolla” dove installazioni e partecipanti sono gli “agenti di scambio” degli sguardi. Una clinica per gli occhi dove vedere, vedersi ed essere visti. La visibilità è uno dei rituali segreti che celebra l’arte: le azioni e le passioni della luce, i lumi e le ombre; punti ciechi ed orbi. Una postura limitata, ma tanto più necessaria quanto più innovative sono le pratiche artistiche. “Il problema degli stili nuovi è quello di analisi critica e non di teoria generale dell’arte. […] In arte non si danno regole per scoprire di ciò che vale: va scoperto attraverso la ripetuta visione e la seria valutazione dell’opera, sapendo correre il rischio dell’errore” (Shapiro).
L’Aniconico e i contrasti
1. Il dispositivo di Nunzio combina Oggetti di forma e di sostanze differenti e ci costruisce e conduce come Soggetti: ci fa fermare, muovere e osservare. I suoi segni, cose e parole, titoli e spazio vanno decifrati prima col corpo – un bricolage ottico e aptico, cioè tattile – poi col pensiero.
La prima osservazione, che rischia di essere determinante, come le prime impressioni, è il suo carattere aniconico, non mimetico. C’è chi ha visto nell’opera di Nunzio solo “massa di materie suddivise e di grandezze diverse” (Vergine). Ma cosi facendo ne ha mancato del tutto l’interno dinamismo, i rapporti e l’energia. Sappiamo da tempo che l’astrazione è compatibile con la dimensione materiale: può presentare una drammaturgia di contrasti di sostanze e di forze, anche se non rappresentati figurativamente. Opposizioni di luce e d’ombre, di prossimità e di distanze: come la musica che si legge nelle note ma anche tra le note. Anche l’assenza di titolo, frequente nelle opere di Nunzio, è un artificio positivo. La rinuncia al naturalismo oggettivo accresce la dimensione della libertà soggettiva; arricchisce la pulsione e la sensazione e dota gli oggetti più comuni d’una vitalità fisiognomica. Li dispone in forme materiali – tavole, stecche longitudinali, paratie verticali – e in raggruppamenti affini, paralleli e contrastanti. Si creano pieni e vuoti, cavità e concavità e si propongono sequenze che hanno una loro tensione, un equilibrio, un’alternanza e un ritmo. Una segreta scrittura ideografica. La cornice delle pareti o del pavimenti sono ulteriori inquadrature per sguardo. La deformazione coerente che Nunzio dà ai suoi “composti” esprime un giudizio particolare sul mondo, attraverso emozioni altrimenti inesprimibili. Pensieri di un corpo situato nello spazio e nella luce. Per l’artista autentico la percezione fissa è come le idee fisse: quindi destinata a cambiare.
L’elementale e l’alchemico: piombo marcato, legno brunito.
2. Cominciamo dalla Sostanze espressive che richiedono una partecipazione intima degli osservatori – la forma la ritroveremo ai bordi della materia, come l’atto creativo all’interfaccia della potenzialità. Precisando che nell’impiego dei materiali, gesso o legno, piombo ecc., l’opera di Nunzio non ha nulla di primitivo. L’elementale non è sinonimo di rudimentale: quando è preso e articolato nella forma diventa sostanza, la quale occupa la mente così come i concetti occupano il mondo. Nunzio non crea ex nihilo: lavora con oggetti già materialmente trattati. Con il suo bricolage sperimenta però delle qualità materiali – crepe, venature – e cromatiche – anche in non colori del bianco e nero – che ama estrapolare, mettere in tensione e opporre binariamente tra loro. L’esperienza ed esperimento col Piombo e il Legno che troviamo nella mostra richiama la parentela profonda tra l’opera delle arti e il labor dell’alchimia. Una disciplina dell’immaginazione materiale più affine alle arti e alla loro adesione alla vita delle cose, che non alla scienza e alla storia (Elkins). In un tempo in cui le meraviglie del mondo sono destinate ai musei o alle trasmissioni televisive, l’alchimista, come alcuni artisti (v. Zorio, Fabbri) restano aperti alla curiosità e alla cura.
(i) Il Piombo, sostanza delle lastre esposte, è uno dei metalli più antichi e più impiegati in pittura(Primo Levi). Per gli alchimisti era una “materia prima”: pesante e oscuro, compatto e opaco, lento e grave il piombo stava sotto il segno di Saturno, il malinconico pianeta degli artisti. Ma è anche il più tenero dei metalli comuni: tagliato o inciso di fresco rivela un colore bluastro brillante che l’aria trasforma in grigio opaco.
Quanto al (ii) Legno, esclusiva materia dell’installazione principale, Nunzio lo tratta in opposizione al Piombo. A differenza di altri artisti, che impiegano il bronzo e cercano nel legname l’albero originario (Penone). Nunzio – che già anneriva il gesso – brunisce il Legno col fuoco. In una lucida intervista ha dichiarato “il fuoco è come una sorta di risveglio dove tutto bruciando rimane identico, ma uniformemente nero” (Obrist). Una strategia pirotecnica già presente nei ricettari dell’alchimia. Una “legnocromatura” ottenuta con sostanze opposte: il legno e il fuoco. L’infiammabilità non è una qualità astratta, ma una sostanza transitiva: quel che resta del legno arso è la materia di un corpo combusto, colorata e colorante. Come attesta l’origine, la pratica della pittura: tracciare col carboncino l’ombra di un corpo assente. Della liquidità della fiamma, del suo “risveglio” resta una memoria fuligginosa. Il nerofumo, sostanza additiva, smalta le assi e le tavole con la sua pellicola; nello stesso tempo si integra al colore e ne scopre la testura, come la ruggine di un metallo. Il “brunitoio” è anche un attizzatoio: nel suo percorso ardente, la bruciatura esteriore manifesta le singolarità della struttura interna.
Saturnino e/o mercuriale: il filtro e la grata.
Mustafà: “Di veder e non veder
Di sentir e non sentir”
G. Rossini, L’italiana in Algeri (atto 2, scena 12)
3. Oscurità di Piombo e Legno brunito: opere al nero nella temperie contemporanea, che è quella della sovraesposizione di tutto il visibile: epoca oscena, direbbe Baudrillard. Nunzio vive allora all’ombra di Saturno? Vediamo. L’ombra, che appare nel titolo della mostra e di un’altra opera significativa (Ombre, 1995) è una creatura della luce, un esito della sua affezione. L’effetto dell’interposizione di un corpo opaco alle forze della luminosità: là dove “feriscono i razzi del lume“.(Leonardo). La skiagrafia era una pittura d’ombra: lux a non lucendo, una luce che proviene, per contrasto, dall’assenza di luce. L’opera al nero lascia quindi filtrare il lume come la grata di un confessionale barocco: opera una intra-visione che dirada l’oscurità uniforme del non colore. E ci espone al controluce. Così Nunzio descrive una delle sue opere: “Una lastra nera al centro di un’area […] attraverso i fori si intravede il paesaggio circostante, che appare e scompare con il nostro movimento” (Obrist). Anche nella mostra, il piombo delle tavole esposte, traluce (al)chimicamente dalle sue fenditure. Sappiamo infatti che, esposta al fuoco e prossima alla fusione la “materia prima” alchemica perde la caratteristica opacità per assume un colore lucido: la “fioritura del piombo” che lo avvicina al metallo col quale ha il maggior numero di differenze che si somigliano: l’oro.
Col gioco delle ombre e delle luci – onde o corpuscoli – Nunzio ci offre di curare l’occhio pigro e monoculare in cui ristagna la nostra visione: quella che gli oculisti chiamano ambliopia. Propone al visitatore critico una specie di (chiaro-nero)veggenza: la nostra vista recupera l’indipendenza degli occhi, l’inquietante strabismo divergente di chi guarda ad un tempo l’ombra e la luce. Intra-vedere è cambiare incessantemente di punto di vista: vederci doppio. Con questo vaglio del vedere, la veduta può andare in visibilio.
Allora Nunzio sta sotto il segno di Mercurio, non di Saturno? O – per dirla con un autore caro a entrambi, Calvino- è un Saturnino che si prende per un Mercuriale? O viceversa?!
4. Un dramma semiserio
Taddeo: “E adesso
Con un nome secondo
Vo in un serraglio a far… Lo pensi il mondo.”
G. Rossini, L’italiana in Algeri (atto 1, scena 5)
Sarai d’ombra si propone, nel programma annuale della Galleria Macini, per un riferimento a G. Rossini e suoi drammi seri e giocosi Per scoprirlo ci aiutano il titolo dell’installazione e la disposizione scenografica delle sue parti. I rari titoli di Nunzio sono talora descrittivi – Combusione, Rovescio, Lira o Corona – ma spesso obliqui e con un accenno prevalente al mare e alle acque – Oceano, Mediterranea, Odissea, oppure Quarto Ponte, Diluvio, ecc. Ora, il primo termine di Sarai d’ombra rinvia, con una minima commutazione grafica, al saray, al Serraglio, e forse all’harem dei libretti orientalisti nei drammi rossiniani. Come L’Italiana in Algeri o il Turco in Italia: soprattutto il primo che canta, in perfette simmetrie, il trionfo cicisbeo della protagonista, Isabella, sul Bey, lo scornato pirata Mustafà. Il Serraglio, che l’Europa ha temuto e sognato (v. per tutti il Bajazet di Racine) è il luogo privilegiato dell’intra-visione, dove il potere salta agli occhi. Era uno spazio panottico dominato dall’occhio dispotico del sultano, il quale filtra attraverso la grata – un “guardatolo” per analogia con “parlatoio” – un mondo chiuso di donne d’ogni dove e di eunuchi bianchi e neri: un mondo muto di esecutori capitali. Negli amori del Serraglio si scambiavano solo salam, composizioni di oggetti che erano come testi di poesia concreta, segni dotati di complice significato. Mi sorprendo allora ad immaginare, sul palcoscenico che Nunzio ci propone, ad un modo lirico di usare delle sue installazioni: come attori e come quinte. Il visitatore – perché no? – potrebbe eseguire mentalmente un dramma semiserio alla Rossini, in cui allo sguardo schermato del despota risponderebbe lo scherno delle le voci femminili; voci provenienti dai loro gioielli indiscreti (Diderot). Un titolo? Eccolo: Le Ombre del Serraglio.
Bibliografia
Calvino, I., Lezioni americane, Einaudi, Torino, 1988;
Dorfles, G., Dal significato alle scelte, a cura di M. Carbone, Castelvecchi, Roma, 2010;
Elkins, J., La pittura cos’è. Un linguaggio alchemico, Mimesis, Milano, 2012;
Fabbri, P., “Colpire il segno”, in Gilberto Zorio, Mostra alla Galleria Franca Mancini di Pesaro, Danilo Montanari Editore, Ravenna, 2006;
Levi, P., Il sistema periodico, Einaudi, Torino, 1975;
Obrist, H. U., “Spazio Nunzio”, intervista in Nunzio: ombre, a cura di L. Vergine, Mostra alla Galleria dello Scudo di Verona, 2005;
Shapiro, M. L’arte moderna, Einaudi, Torino,1986.