Da: Alfapiù | Alfabeta2, 15 luglio 2015.
Si, è il caso di farne un caso. Scrivo dello (s)proposito di Umberto Eco sugli imbecilli che affollano a legioni i social media, propalando messaggi viscerali e virali, indistinguibili dalle affermazioni dei Nobel. Una sarabanda di inesattezze e solecismi, verificabili e contenibili se pronunciate in ideali osterie, ma incontrollabili quando fioccano in reti virtuali. Il tutto a maggior danno della compagine sociale.
Facciamo salvi gli insulti triviali (“Alzheimer, neo-aristocrazia”, ecc.) e le offensive reverenze (“scherzava, Eco è buontempone”, ecc). Poiché gli insulti si possono meritare e si può scherzare seriamente, la discussione ha fatto presa nella comunicazione digitale e stampata. Su Alfapiù, 11 luglio 2015, Abruzzese, Bifo e Demichelis hanno manifestato opinioni e atteggiamenti diversi su alcuni temi cruciali: la tecnica – la rete; la medialità – l’infosfera e la grafosfera; le forme di vita – davanti e dietro lo schermo; i compiti degli intellettuali e persino all’insegnamento – il ruolo del liceo classico. Tutti d’accordo nel riconoscere al neoEco i suoi buoni precedenti, dalla valutazione dei fumetti all’opera aperta, dall’apprezzamento delle radio libere al riconoscimento della neo-televisione e che “la logica di pensiero di questo suo frammento è la stessa della sua opera omnia”. C’è dissenso invece sul suo “ostinato limite”: “la tracotante contrapposizione tra libro e linguaggi digitali o meglio tra libro e vita quotidiana. Tra il soggetto moderno e le forme di vita che ora ne costituiscono una mutazione senza precedenti” (Abruzzese). E sul tentativo di giudicare la relazione immersiva ai social media alla stregua di “libro della verità”. Essi “sono modificatori dell’ambiente perché trasformano prima di tutto la nostra capacità di elaborazione e le modalità della comunicazione (…) Essi spostano i corpi, mettono in contatto soggetti” ecc. (Bifo). A questi tecno-entusiasti – “sacerdoti/inquisitori globali della evangelizzazione tecno-capitalista occidentale che riescono a conquistare l’egemonia culturale”, Demichelis oppone che l’effetto-rete, è conformismo. “Le forme tecniche hanno, espropriato le forme sociali e umane che non controlliamo ma alle quali dobbiamo integrarci”. In questo quadro cripto-luddita – che il veteroEco avrebbe chiamato apocalittico – il senso dello (s)proposito del neoEco è che i socialmedia farebbero “il gioco del capitale”, con la complicità di cattivi maestri rinnegati a danno del collettivo.
La tentazione è grande: applicare al neoEco la sua analisi sul carattere implosivo del nostro tempo revisionista. Stiamo dando indietro “a passo di gambero”, come spiega un suo saggio dedicato al “crepuscolo d’inizio millennio” (2008). Torniamo all’antico e sarà del nuovo? Davanti a legioni di imbecilli renitenti al leggere, inquadriamo il fenomeno proliferante e rizomatico della rete dal punto di vista della stampa; restringiamo l’obbiettivo agli effetti filosofici di verità; confermiamo la missione degli intellettuali – maestri di verità della grafosfera belle époque. Homo homini lector. Un gesto peraltro giustificabile: di giornalisti scrupolosi – e attenti a mantenere il segreto sulle loro fonti! – ce ne vogliono: ai milioni di informazioni top secret, pubblicati da Wikileaks l’utente della rete accede attraverso la selezione orientata del periodista gatekeeper. Senza essere peraltro un imbecille (in)correggibile poiché la domanda di verità è a carico del richiedente e non all’offerta di chi terrebbe le redini del senso.
La cultura non è solo un’enciclopedia e non si vive di solo vero. Il veteroEco – che era semiologo ed ha pubblicato R. Jakobson – ci fece sapere che le funzioni del linguaggio non si limitano a quella referenziale, ma includono quella fàtica – che, tra voci e rumori – crea, mantiene e rinnova il contatto nei collettivi umani e non umani. (È stato persino ipotizzato che il linguaggio trovi la sua origine nel gossip.) Della moda è improbabile decidere se sia falsa e della politica è arduo affermare che sia vera. Il modo indicativo, il solo su cui si possa pronunciare un giudizio di verità è solo uno dei tanti modi della lingua: l’interrogativo, l’imperativo, l’ottativo, ecc. che possono essere corretti o inappropriati ma non veri o falsi. Attraverso il medium della rete si manifestano e si costituiscono nuove forme di vita e giochi estetici e pragmatici di linguaggi e di segni – musica e immagini. Una diversa semiosfera, immersiva e partecipativa, per la formazione e comunicazione di collettivi impreveduti dotati di strategie, estesie e valori che vanno ben oltre ai patti feudali tra emittenti e riceventi, produttori, creatori e spettatori. Ne fanno parte anche i premi Nobel che, fuori dalla funzione referenziale delle loro competenze, possono tenere propositi da bar, come il chimico americano K. Mullis, che si pretendeva rapito dagli estraterrestri!
Un’osservazione etimologica infine sull’imbecille “socialmediatico”, fratello scemo di quel razionale ladro di Prometeo. Deriverebbe, pare, da sine baculo: l’imbecille sarebbe sprovvisto della protesi multiuso del bastone. I frequentatori dei social, nel loro turbolento moto browniano, una protesi tecnicologica ce l’hanno. Accanto ai corpi densi della mediazione libresca, che mantenevano un contatto con antiche sacralità, usano i corpi effimeri delle nuove mediazioni. Non concordo con chi fa della rete il modello del nostro funzionamento mentale, ma è certo che si tratta di una protesi collettiva di grande plasticità di cui non conosciamo l’estensione – quindi i danni e vantaggi – e di cui l’esplorazione è in corso. Salti nel buio e nella luce. Le tecniche – pace agli Apocalittici e agli Integrati – sono determinanti, ma anche evolutive perché costantemente ridefinite dalla loro costitutiva componente etnica con i suoi miti e le sue affettività (v. Gaia).
Davanti al costituirsi di forme inedite di vita, alla frammentazione dello spazio pubblico, al ridursi di quello privato è comprensibile trincerarsi non nella platonica caverna, ma nell’osteria del buon senso; tenendo presente che quest’ultimo è “la cosa meglio distribuita nel mondo poiché ciascuno pensa d’esserne così ben provvisto che anche coloro che più difficilmente si accontentano di ogni altra cosa non sogliono desiderarne più di quel che ne hanno” (Cartesio).
Ma è lecito il dubbio che questo neoEco sia più vetero di quel veteroEco.
Nota bene: un’osservazione sui tre anni del Liceo Classico al cui apporto formativo tengono il neoEco e altri buoni maestri. I programmi ministeriali prevedono 21 ore settimanali di Latino-Greco, contro le 12 di Italiano. Nessuna di Geografia o di altra umana scienza. Le 9 ore previste per l’insegnamento di storia della filosofia hanno sapore gentiliano: l’ultimo anno, che si conclude con Croce, prevede tra le indicazioni la lettura di Rosmini, Gioberti, Fiorentino, Ausonio Franchi, Galluppi, Varisco. Tra gli stranieri Blondel e tanto Boutroux, ma non Husserl, Cassirer o Wittgenstein.