Da: Doppiozero, 19 febbraio 2018.
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In occasione del secondo anniversario della scomparsa di Umberto Eco, pubblichiamo l’introduzione di Paolo Fabbri al libro Cosi parlò Umberto Eco, una raccolta di articoli e interviste rilasciate in francese, inediti assoluti nel mondo arabo, a cura di Ghazi Berro, di prossima pubblicazione dalla casa editrice Dar El Farabi.
In uno scritto del 1992, l’anno precedente alla prima intervista di questo libro, Umberto Eco suggeriva di non fidarsi delle interviste. Sapeva bene che sono spesso legate ad avvenimenti politici o a ricorrenze culturali, oppure a scadenze editoriali, come l’uscita di nuovi libri da implementare e promuovere. Sapeva soprattutto che la reputazione di un autore globalmente affermato – dopo il romanzo Il nome della rosa e il film che ne fu tratto – semplifica e talora distorce i caratteri di un autore che è stato insieme scrittore e teorico, filosofo, semiologo, editore e giornalista.
Ricordo soltanto la sua formazione in estetica all’Università di Torino (con G. Vattimo) che lo ha condotto alla formulazione dell’Opera aperta (1962), poi alla teoria dei segni e alla scrittura romanzesca. Con una tensione coerente, la dialettica tra tradizione e innovazione, l’apertura e la chiusura testuale indicata dai titoli contrapposti di molte opere speculative: oltre Opera aperta, la Struttura assente (1968), Le forme del contenuto (1971), Kant e l’ornitorinco (1997), Dire quasi la stessa cosa (2003), Dall’albero al labirinto (2007) e così via.
Il formato del volume che raccoglie il lungo periodo delle interviste in lingua francese suggerisce accostamenti inediti, aggiunge complessità e complicazioni a questo autore polivalente. Per il loro carattere occasionale e improvvisato le interviste si espongono a ripetizioni, rischiano contraddizioni e lapsus, ma colgono spesso il segno. Il tono di conversazione colta e ironica, condotta con curiosità e cura, permette l’improvvisazione, in cui Eco eccelleva, e la sorpresa – l’attesa dell’inatteso. La parola reversibile del dialogo, in cui le risposte rendono intelligenti le domande e viceversa, mette a distanza i dogmi, invita a una riflessione più articolata e distribuita.
Propongo quindi di leggere il libro come un’unica Grande Intervista in cui Eco risponde a un coro simultaneo di voci sui contenuti che gli sono cari. Con l’agilità delle repliche e l’attualizzazione sempre sorprendente del sapere enciclopedico.
In primo luogo sul rapporto – tutt’altro che postmoderno – tra l’attività speculativa e quella di romanziere. L’autore di due libri spesso riscritti, Il nome della rosa (1980) e il Trattato di semiotica generale (1975), chiede alla narrazione di dare le risposte che la sua teoria non riesce a dare (per es. l’affettività). Ma Eco nelle trattazioni filosofiche come I limiti dell’interpretazione (1990), si serve anche di esperimenti narrativi di pensiero. Un romanzo cavalleresco e picaresco come Baudolino (2000) si pone la questione della menzogna e della finzione letteraria, mentre il suo libro prediletto, Il Pendolo di Foucault (1988), si interroga, con gusto joyciano, sulla natura del falso e l’efficacia della falsificazione. Il racconto pone domande sull’orlo della risposta e la teoria avanza risposte sull’orlo di nuove domande. La passione di Eco per Gérard de Nerval, di cui ha tradotto il racconto, Sylvie (1999) è dovuto appunto a questo “dissertare che non toglie la magia”.
Eco voleva morire Filosofo, nel segno e sulle spalle di giganti come Aristotele e Tommaso d’Aquino, J. Locke e Ch. S. Peirce. Alla conclusione della sua carriera intellettuale e accademica era tornato a porsi i problemi della verità e della realtà che risolveva con una metafora – “lo zoccolo duro”. E all’interrogazione estetica, in libri come Storia della bruttezza (2007), concludeva che, dopo le critiche novecentesche, era ormai impraticabile distinguere il Bello dal Brutto – “oggi il brutto è positivo e la celebrazione della perversità esibita”. La Storia della bellezza (2004) si concludeva infatti auspicando una democrazia estetica di diversi modelli di vita.
La reputazione di Eco, il tratto pertinente della sua figura intellettuale, resta tuttavia quello di Semiologo, analista di linguaggi e decifratore di segni. A dispetto d’una certa crisi disciplinare, era la semiotica, l’ardua disciplina – come recitavano i suoi elogi funebri – di cui era il semioforo e di cui credeva ottimo lo spread, cioè la differenza di rendimento con altre discipline umanistiche. Per Eco, è quasi superfluo ricordarlo, il segno è vettore e attrattore di comunicazione – per Agostino di Ippona era “qualcosa che fa venire nella testa degli altri quello che c’era nella mia”. Il tratto più rilevante però e il più produttivo nel pensiero dell’autore di Semiotica e filosofia del linguaggio (1984) e del Numero zero (2015) – è che il “segno è fatto per mentire”. La semiotica echiana è una disciplina illuminista, che guarda al Vero dal punto di vista del Falso e del Segreto, della Menzogna e del Complotto. Il Segreto, tanto più potente quanto è più vuoto, e soprattutto il Falso – epistemico, politico, religioso ecc. – che sarebbe un motore della storia, teatro di illusioni. Per questo Eco sostiene che nella sua immensa biblioteca non c’erano autori come Freud e Darwin, ma tanti inventori di pseudo semiotiche, testi occultisti e alchimisti in attesa di nuova lettura, di cui era un noto ed erudito collezionista. La sua semiotica è disciplina del sospetto continuo e dell’indagine poliziesca acutamente argomentata.
Una procedura conflittuale, una guerra in cui i segni falsi simulano quelli veri e quelli veri fingono di essere falsi; le prove sono sempre riprovevoli e inquinate, le affermazioni smentite da smentire; anche i silenzi la dicono lunga. I ferri del mestiere di chi investiga i nessi narrativi della causalità sono la paranoia privata e i Complotti collettivi. Seguendo K. Popper, Eco ha mostrato e illustrato che la pretesa spiegazione di un fenomeno sociale consiste nella scoperta di uomini o gruppi interessati al verificarsi di un dato fenomeno (un interesse nascosto che va prima rivelato) e che hanno progettato e congiurato per promuoverlo. Le pretese cospirazioni delle società segrete e le loro fantasiose gerarchie hanno ispirato a Eco gli intrecci di romanzi come Il cimitero di Praga (2010), che illustra gli infami “Protocolli di Sion”, redatti dalla polizia segreta russa agli inizi del Novecento. Seppur smascherato fin dagli anni ’20, questo falso rapporto di un progetto ebraico per il controllo planetario è ancora creduto e diffuso. Eco ne trae l’ovvia conclusione che la causa, se non la ragione, non è l’accidia cognitiva o la stupidità dei riceventi, ma la tattica di interessi riconoscibili e tuttora in gioco.
Nel corso delle conversazioni con intervistatori di diverse curiosità e competenze, ritorna, tenace come il pedale in musica, una nota dominante: la Tolleranza. Nello sviluppo della sua riflessione semiotica, Eco ha gradualmente abbandonato la rappresentazione della cultura come gerarchia di codici, albero genealogico ramificato, per approdare all’immagine di una enciclopedia di saperi, i quali crescono labirinticamente l’uno sull’altro, come cespuglio o rizoma. Per Eco, e lo testimoniano i dibattiti teologici di Il nome della rosa, l’intolleranza era la negazione dell’altro a nome di principi universalistici e d’una intransigente idea del vero. Capita a tutti, una volta o l’altra, di essere “sinceri parlanti di menzogna”, ma non per questo everything goes. Essere tolleranti richiede uno spazio comune, dove le differenze e i diverbi siano riconoscibili e elaborabili semioticamente, tra soggetti dotati di opinioni preferibili e capaci di riconosce la buona fede altrui. Quel che è menzogna per noi può darsi talvolta come verità per altri. Ma il principio di tolleranza, per non risolversi nel cinismo, richiede di fissare i limiti dell’intollerabile: per esempio, il revisionismo è accettabile ma non il negazionismo, come vorrebbe N. Chomsky.
Nonostante o forse a causa di questa proposta di tolleranza “circoscrivibile”, Eco è stato accusato di relativismo dalle gerarchie cattoliche italiane. Questo lo ha condotto ad affermare non già una relatività del vero, ma una verità del relativo. A distinguere, quindi, tra lo spirito universalista che conduce ai terrori delle guerre di religione, e quello cosmopolitico, che accetta l’onere delle differenze, della loro polifonica molteplicità. Di cultura cattolica, Eco è stato sempre interessato al mondo delle Religioni istituzionalizzate – alla letteratura fantastica delle loro teologie – e alla Religiosità individuale. Agnostico – ha voluto funerali laici – corrispondeva con un cardinale e intendeva studiare il linguaggio contemporaneo del papato. Distinguerebbe, ci sembra, una religione dell’aut-aut, dell’intransigente “per contro” da una del vel-vel, del vicendevole “oppure”. Una distinzione che, a suo avviso, non è un apporto occidentale alla mondializzazione, ma che si troverebbe virtualmente implicata nelle singole credenze.
La rappresentazione di ogni cultura come multiforme nelle sue manifestazioni e nei suoi contenuti dovrebbe, per Eco, ovviare a quella intraducibilità che zittisce il dialogo tra le fedi.
E fonderebbe il principio semiotico di traducibilità tra ogni lingua, sistema di segni e appartenenze territoriali, locali e nazionali. Per l’autore di Dire quasi la stessa cosa (1990), tradurre è restaurare o (re-)inventare le lingue di partenza e quelle di arrivo. Dalla grammatica fino ai discorsi, tradurre non è la resa di un equivalente semantico, ma l’emergenza di un trasporto di senso, un tradimento felice. Scoprire attraverso la cultura degli altri, l’impensato della propria è il maggior apporto della tolleranza e la precondizione d’un assetto collettivo, civile senza essere uniforme. La formula, coniata da Eco, è che la lingua d’Europa non sarà l’inglese, ma la traduzione!
La posizione di Eco verso la politica è quella di un militante riluttante. Anche nei tempi in cui praticava sulla stampa quotidiana e settimanale la “guerriglia semiotica” – critica del potere comunicativo dei media cattolici di stato – o denunciava l’anticultura di leader come Berlusconi, Eco non aveva nulla dell’estremista e del polemista. In primo luogo perché il ruolo dell’intellettuale è molto diverso in Italia rispetto alla Francia, dove si chiede allo scrittore affermato il compito oracolare di pronunciarsi sull’attualità culturale e politica. Eco riteneva che l’intellettuale fosse un honnête homme, guardiano e filtro dell’enciclopedia dei saperi e dei valori. Inutile, quindi, chiedergli di cambiare il mondo e soprattutto di annunciare la fine dei tempi. La scrittura, secondo lui, cambia il futuro, non il presente; il futuro è la seconda patria di chi scrive e pensa, anche quando, come accade ora, il progresso si converte in regresso alterando il rapporto al tempo. Il grande semiologo non era, per sua definizione, Integrato ai valori costituiti, ma neppure un Apocalittico. Non credeva alle rivoluzioni, neppure a quelle letterarie, nonostante l’adesione iniziale alle avanguardie artistiche militanti, alle “concatenazioni collettive di enunciazione” del Gruppo 63. Leggeva l’Apocalisse non come catastrofe, ma come una rivelazione; offriva l’opportunità o il destino d’interrogarsi da moralista, sul significato della destabilizzazione permanente dei linguaggi e degli eventi. Lamentava il ritorno revisionista – A passo di gambero (2006) – di modalità socio-culturali che riteneva superate, ma rimpiangeva la guerra fredda che impediva, con l’equilibrio atomico del terrore, il moltiplicarsi delle sanguinose guerre calde. Mentre il discrimine tra destra e sinistra gli sembrava sempre più tenue, nutriva nei suoi scritti occasionali, la fiducia semio-etica d’un “ottimismo dei piccoli passi”.
Eco è stato un protagonista internazionale della grafosfera. Direttore di una grande casa editrice (Bompiani, Milano) e giornalista ha difeso il dispositivo storico del libro e il suo ruolo critico della società (post-)industriale. Assiduo collaboratore della stampa quotidiana e settimanale ha partecipato al dibattito sul ruolo della televisione (suo è il neologismo “neo-televisione”) e dei media di massa. Se l’avvento di una società dell’immagine non ha alterato la sua semiotica culturale, la rivoluzione informatica si è rivelata ben più problematica all’ultimo Eco. Intellettuale del Collettivo, nella tradizione dreyfusiana di E. Zola, ha dato segni di disagio nel Connettivo digitale, nello sciame dei social media, dove naufragano i rapporti asimmetrici dei conduttori e decisori, insegnanti e politici. Uno dei suoi ultimi scritti descriveva “gli imbecilli e la stampa responsabile” (2015) e l'”eccesso di sciocchezze che intasa le linee” della rete, invitando i giornalisti all’analisi critica dei siti internet. Eco lamentava la fine dell’Opinione Pubblica, interpretata in precedenza dai messaggi della stampa e ora massaggiata dai big data e dai sondaggi; l’interruzione dei grandi dibattiti sul senso della società, sui significati da attribuire e le direzioni da prendere; la velocità evenemenziale dei contatti, che non consente una riflessione congiunturale; la trasparenza che mette i nostri interessi e desideri alla disposizione di organismi di influenza e di controllo psichici o politici; la crisi di memoria e i conseguenti rischi di incomunicabilità, mentre si generalizza l’accesso al media; la vertigine di dati insignificanti o incongrui; l’individualismo narcisista che chiede privacy e pretende visibilità. Eco non si rassegnava all’idea che l’immagine dell’avvenire venisse a modellarsi sull'”idiota del villaggio”!
Per il grande studioso del Medioevo stiamo vivendo un’epoca neobarocca di transizione, comparabile alla caduta dell’Impero Romano e ai grandi fenomeni migratori della tarda Antichità. Nel rizoma culturale di una società liquida (Bauman), Eco trova difficile trasformare la mera coesistenza di vite più lunghe e più ansiose in forme innovative di convivenza. Critico della società informatica, della capillare e istantanea viralità dei social media, orientava la sue ricerche verso possibili antivirus. Un progetto che la morte ha interrotto e la cui prosecuzione potrebbe prolungare la vitalità del semiologo.
La Grande Intervista di Umberto Eco mostra come questo celebre contemporaneo abbia saputo imparare dal passato, vivere intensamente il presente e credere, nonostante tutto, nel futuro.
Le sue risposte e repliche, ricche di aforismi, portatori di verità accettabili e di paradossi, veicoli di verità oltraggiose, sono improntate a un solido buon senso, temperato dallo humour. Anche l’origine del suo nome – Eco sarebbe un trovatello dall’acronimo latino, Ex Coelis Olblatus, offerto dal cielo – è probabilmente una sua trovata. Come il soprannome di “Faro di Alessandria”, che ne ricorda i lumi, la sterminata biblioteca e la città di nascita.
Gli intervistatori più percettivi hanno intravisto un “mistero Eco”, il piacere sensuale dell’enorme erudizione, l’intreccio di “volubilità italiana e spirito europeo“, il carattere insieme “freddo e caloroso, distante e appassionato”. Al lettore il proprio giudizio. A me piace ricordare questo indefesso teorico e scrittore, professore, giornalista ed editore, con le parole di Victor Hugo: un’instancabile “force qui va”. Un vigore necessario alla prosecuzione dei suoi molteplici progetti.
Quando un lascito è così saliente, persino il rifiuto dell’eredità è un’eredità.