Umberto da Bologna, professore angelico


Da: Segni del tempo. Lessico e dialoghi politicamente scorretti, Vol. 1.: “Lessico”, Guaraldi, Rimini, 2003.
(Ora in AA.VV., Umberto Eco. L’uomo che sapeva troppo, ETS Ed., Pisa, 2009)


Eco sa d’essere vittima del sistema decimale. Se avessimo continuato a contare per dodici -come si fa ancora per le ore, le rose, i mesi, le lenzuola e le uova – di anni non ne avrebbe neanche 60. Capita spesso con numero Settanta: i francesi per arrivare a settanta devono aggiungere dieci al sessanta (soixante-dix) e i primi traduttori greci dell’Antico Testamento – detta la versione dei Settanta – erano 72. Sarà per questo che Eco continua, ad un’età patriarcale, a sembrarci più che settuagenario, un settimino?
Vediamo, premettendo che per tale ricorrenza, i testimoni o astanti dell’Eco bononiense sono tenuti a dir la verità, ma non tutta.
Per aver voce in capitolo – Eco a Bologna – devo ricordare che ci conosciamo da tempo e che le abitudini somigliano all’amicizia. Agli estremi della nostra vita bolognese, dopo aver insegnato insieme a Firenze, ci trovammo a Bologna nel ’77, io da Urbino e lui da Milano. Ricordo che siamo coautori d’un articolo sui linguaggi delle assemblee “desideranti” e che Eco, mi ha tacciato di Spartaco in uno scritto recente. Come dimostra un libro recente di saggi su di lui, ho molto profittato del suo scibile, del suo inarrivabile talento. Non gli serbo rancore per avermi forse, fatto assassinare da briganti ne Il nome della rosa, sotto lo mentite spoglie di Paolo da Rimini, doctor agraphicus. Ho sempre riso di cuore a molte sue barzellette, anche a quelle già sentite, costantemente stupito per la sua numerosa memoria dei dettagli della storia, ma non delle persone a cui le raccontava. E non ho ragioni mie per dire, come in una poesia favorita di E. A. Poe, “Nevermore”.
Ho conosciuto negli anni ’60 Eco a Parigi, come avanguardista della opera aperta e della semiologia mentre, della sua ininterrotta carriera bolognese sono stato testimone discontinuo. Ero a Urbino, al Centro di Semiotica, mentre Eco imponeva il DAMS alla generale diffidenza, poi a Palermo, nel periodo ’86-’89, mentre Eco costruiva l’immagine della Secularia Nona -i novecento anni dell’Università di Bologna. Ero a Parigi, all’Istituto Italiano di Cultura negli anni ’92-’96, quando Eco sperimentava il corso di laurea in Comunicazione a numero chiuso. Ed intanto, in Francia riceveva il primo grado della Legion d’Onore, insegnava al Collège de France e diventava accademico della Cultura. Ho colto invece i momenti travolgenti di Eco romanziere – con un’opera chiusa, chiusissima- e quelli più blandi dell’ufficialissima Scuola di scienze umanistiche. Oggi so che continua a non piacere a Citati e questo me lo rende amico, ma che ha finito per apprezzare Bassani – che l’avanguardia del Gruppo ’63 chiamava Liala – e che gli ha scritto addirittura per farglielo sapere!
Aiutato dalle rotture temporali – le abitudini rendono il tempo omogeneo – ho visto Eco identificarsi sempre di più all’Università e alla città di Bologna. Città a cui ormai somiglia: se gli prelevassero un campione di ematico lo troverebbero rosso bolognese! Nato ad Alessandria, l’ha rapito Bologna, che con la sua bonomia sorniona era l’attrattore naturale di molti suoi affetti ed affezioni.
Non senza quiproquo. L’idillio é poesia di segreti contrasti. Ricordate quando Eco suggerì di non votare Guazzaloca ? “Non si cambia un ristorante in cui si mangia bene”, ebbe a dire. Ma Bologna è fatta così: può bruciare il “Cantuzein” o decidere come oggi, per la glaciazione culturale. È la qualità del vivere – ma per quanto? – che ha attratto da sempre il professore angelico. Per quanto occupatissimo – ma lui ha un’agenda di titanio! – Eco vi ha sempre trovato delle ore perse da occupare per divertirsi, e per confermare il sospetto che la gente che si diverte troppo in fondo s’annoia. Ma non ha mai perso tempo ad impedire agli altri di perderlo.
Quanto all’Università non saprei dire se Eco si è adattato ad essa o l’ha adattata a se stesso. Al mio ritorno da Palermo, dopo l’esperienza del Novecentenario, ho trovato un Eco cambiato. C’era di che! Sotto l’impulso di Roversi Monaco, era riuscita una memorabile impresa d’immagine. Ho udito con le mie orecchie, la rettrice della Sorbona, la comune amica Gendreau Massaloux, affermare che la Sorbona era la sorella cadetta di Bologna. Vittoria!
Ma i cerimoniali e le toghe sono tossici, come il camice di Nesso. Anche a chi ha il mito delle università nordamericane. Ed ecco Eco accademico, anche se il suo peccato originale, il Dams – già corso di laurea delle avanguardie – sembra inespiabile. Infatti, e curiosamente, questo individualista, scettico sul comprendonio degli uomini e dalle disparate esperienze professionali, crede al valore intrinseco delle istituzioni consolidate. Sa che un professore è un bene oppure un male di cui il mondo può fare a meno. E che qualunque istituzione, specie quelle pubbliche, è il luogo in cui sciocchi e geni, fanno le stesse cose, anche se in modo diverso. Eppure l’intellettuale italiano vivente più conosciuto del pianeta – l’intellettuale planetario più noto in Italia – non ha mai esitato ad affrontarne le delusioni. Il Dams non è cresciuto nella qualità (anzi!) e nella stima dell’accademia, come avrebbe magari voluto, il nuovo corso di Comunicazione non ha mantenuto il numero chiuso, come avrebbe certo sperato. Eccetera. Che Eco sia una vittima dell’Università? Non credo, anche se lo spero. Direi che ne ha saputo trarre, a livello individuale, i lati migliori. Nessun universitario ha usato con maggior riluttanza dei poteri o almeno del prestigio che gli sono stati attribuiti da coloro che hanno continuato a detenerli. Ha esibito i segni del potere mandarinale, ma in modo disattento e intermittente – e talora manipolato – non riuscendo ad impedire cose che sarebbe riprovevole non sapere, ma conservando il merito di non aver fatto tutto il male che avrebbe potuto. Gode così nel mondo dell’accademia d’una stima sorprendente in tali luoghi. Per es., conosco professori che disprezzano i semiotici, ma adorano Eco, che è un semiologo. E gli esempi in questo senso potrebbero moltiplicarsi. Eco è la prova vivente o la pubblica copertura, che all’Università avere del merito può non ostacolare la riuscita.
È questa forse una ragionevole replica alla domanda che Eco si pone a proposito dei suoi allievi: “perché qualcun non m’ha fatto fuori?”, come lui avrebbe fatto con i suoi padri? Forse perché lui i padri non li ha veramente scalzati e rinnegati, dato che nutre la strana idea che il passato risponda dell’avvenire, nel bene e nel male. O perché la sua grande capacità didattica e la sua apertura mentale non invitano al divoramento reciproco. Sotto la maschera gioviale, l’Eco Saturno, se c’è, è anoressico; non divora i figli. Forse non gli riescono meglio di quanto lui riesca se stesso. Questo gli ha però risparmiato la vista incresciosa degli epigoni e gli ha consentito, da parte dei suoi allievi l’affetto costante e l’amabile pressione ad aggiornarsi anche quando sembrava non averne voglia.
La fama semplifica e a volte la fisiognomica della celebrità diventa caricatura. Ma Eco ha sempre mostrato, nella moltitudine dei suoi doni e interessi, d’essere più differente da se stesso di quanto non lo sia da certi altri. È riuscito sempre a rinfrescare il proprio logo e a prevenire ogni possibile “no-logo”.
Che fare però nella temperie attuale? È difficile fare ironia da quando sono diventate ironiche le cose – ricordate l’articolo di Eco su Berlusconi comunista?. E che fare se i maitres à penser sono diventati dei pret à penser? E godono della sospetta impunità per cui le loro opinioni vengono consumate al ritmo del giornale ma non seguite nei tempi della politica? Molto è cambiato nel mondo intellettuale. Persino il pompier – già pretenzioso e ridicolo – è stato rivalutato dopo l’eroico comportamento dell’11 settembre!
Che sia il tempo di abbandonare la pratica di un pensiero di generosi confronti, ma senza antitesi, dove i nani si installano senza contrasti sulle spalle di giganti – è una delle metafore favorite dell’ultimo Eco? Sappiamo che i grandi nomi abbassano quelli che non sanno sostenerli. (Forse il buonrapporto con la tradizione non sono i cavalcioni!)
Che sia il tempo di abbandonare il lieve disprezzo di chi non teme e non spera più nulla? Io direi a Eco di puntare sul 70. Per il Nobel. E perché un settimino deve conservare la febbre della ragione, anche se non sarà terzana ma settuagenaria.


Note

  1. Omaggio semiserio per il suo settantesimo compleanno. Pubblicato in Segni del tempo sotto la voce “Eco”. torna al rimando a questa nota
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