Da: AA.VV., Biblioetica, dizionario per l’uso, a cura di G. Corbellini, P. Donghi e A. Massarenti, Einaudi, Torino, 2006.
Clonazione
Il significato delle parole è sottoposto a un doppio movimento di precisazione ed estensione. Le parole comuni vengono ridefinite e precisate scientificamente, quelle scientifiche prendono, nel quotidiano, accezioni meno tecniche, più analogiche e immaginarie.
È il caso dei cloni e della clonazione. In biologa e in genetica, i cloni sono popolazioni cellulari ottenute per lo più a partire da una sola cellula; discendenti con genotipo uguale d’un individuo monozigote. Oggi il termine si è esteso a prodotti informatici (hardware) a basso costo che riproducono illecitamente prodotti di marca (clone di assemblaggio).
La clonazione era naturale riproduzione agamica di individui, cellule o geni col medesimo corredo cromosomico. Oggi è definita tecnicamente come manipolazione genetica: trapianto, in uova fecondate, private di nucleo e patrimonio genetico, delle cellule somatiche d’un donatore; ingenerando così soggetti con corredo genetico identico al donatore. Ma per estensione, la clonazione é diventata riproduzione, specie abusiva, di prodotti informatici oppure del codice d’un cellulare non protetto per utilizzare abusivamente della linea telefonica.
C’è, nell’uso comune, la traccia profonda di un illecito legato alla replicazione dei soggetti e degli oggetti, come un feticismo dell’originale. Anche nella “società della riproduzione tecnica”, la duplicazione conserva un’ aura pericolosa e negativa. In particolare la clonazione umana. È la figura dei gemelli, così viva in tutte le mitologie pubbliche e private (ci sono culture in cui il labbro leporino è l’inizio di una divisione gemellare!). Sappiamo che l’evoluzione del cervello e i casi della vita differenziano quello che all’inizio era identico. Ma quando due ricercatori inglesi hanno realizzato il biasimato trapianto di due nuclei, maschile e femminile nella stessa cellula, nella comunità scientifica aleggiava lo spettro dell’ermafrodito.
Questa fobia del clone è anche il retaggio del doppio che abita nell’immaginario dell’ombra e degli specchi, i quali sono, nella nostra cultura iconofila, gli archetipi narrativi della nascita delle immagini. Come doppi e come convertitori d’identità specchi e ombre sono in stato di duplicità, operatori di mutazione o di metamorfosi. Operare sul corpo e le sue protesi è manipolare l’immaginario; clonare il soma, dicono i semiologi, è agire sul sema.
Dizionario
Le parole, si sa, sono arbitrarie rispetto alle entità a cui si riferiscono. Il dizionario, testo costruito secondo il principio alfabetico per dar ordine alla ricchezza dei vocaboli, è quindi doppiamente arbitrario. L’alfabeto infatti è variabile secondo le lingue.
Sono possibili però altre forme di dizionario, non costruite secondo il significante grafico ma sulla base del significato tematico (il thesaurus, l’enciclopedia). Il vasto e rigoglioso campo delle parole può essere ordinato come un erbario o un giardino, per somiglianze di famiglia (sinonimi) o per opposizioni (antonimi). La significazione è fatta di differenze che si somigliano.
Comunque sia, le parole che compongono un dizionario, sono elastiche e reversibili. Organizzate, come nel gioco delle parole incrociate, in due grandi classi: le denominazioni, condensate e le definizioni, allargate. Ogni vocabolo infatti è accompagnato da un numero variabile di definizioni, nominali e verbali. Piccoli testi descrittivi che si definiscono entrate e termini: rendono conto di tutte le accezioni registrate nell’uso nella lingua (le “entrate” del dizionario) e di prevedere e anticipare i possibili usi a venire (i “termini” del dizionario). D’una parola (tavola, ad esempio) si possono dare descrizioni morfologiche (il ripiano, le gambe, il materiale), compositive (a quattro o a più o meno gambe), funzionale (per l’uso: tavolo da notte o per modalità di costruzione, fatto a mano, per incastro o con chiodi, assemblato a macchina, ecc.).
L’articolo di dizionario quindi è una costruzione virtuale che cerca di esaurire tutte le possibili accezioni che è suscettibile di realizzare. In questo senso è un dispositivo mnemonico con un doppio congegno: descrive nel presente gli usi trascorsi e anticipa quelli a venire. Quelli che si sono fissati nella ripetizione (parole – in sosta) e quelli che si propongono nell’innovazione (i neologismi).
Per questo i vocaboli sono il deposito d’una cultura e un’incessante suggerimento e suggestione di significato e di forme per il suo cambiamento. Anche e forse soprattutto attraverso la traduzione in e da altre lingue. Oltre ad un nucleo stabile composto dai termini più ricorrenti nell’uso, poche centinaia, il dizionario registra in parte i diversi lessici specializzati a partire dai quali entrano continuamente termini nuovi o ne possono uscire di desueti. Per contro, a partire dalle forme e dai significati, è possibile creare relazioni e combinazioni illimitate. In ogni ricerca nel vocabolario il rinvio per sinonimia e antonimia è interminabile, come un rizoma labirintico continuamente ripiegato su di sé. Anche se i termini sono articolati su vari piani di significato: parole come “parola” o “grammatica” sono nello stesso tempo termini e metatermini. Le ricostruzioni di archeologia virtuale del lessico primitivo fanno pensare che la prima locuzione dell’uomo sia stata appunto: “parola’
D’altra parte le parole, oltre alle varie accezioni di senso hanno una morfologia particolare: sono articolate cioè in parti (prefissi, infissi, suffissi, declinazioni, ecc.) che si prestano a combinazioni regolate ma anche imprevedibili. Il procedimento della rima o dell’assonanza ad es. mette in parallelismo o in opposizione il senso di parole foneticante prossime e semanticamente lontane. È quindi trivialmente esatto dire che la poesia remunera le mancanze delle lingue. Ma queste sedicenti mancanze sono incluse e come previste da un gioco combinatorio delle loro forme che consente una doppia creatività: secondo e contro le regole. Il dizionario è un deposito e un meccanismo di memoria trascorsa (l’etimologia, presente in ogni voce, è una figura retorica) e soprattutto futura.
Embrione
I miti si fanno così, per accumulo di varianti. Un museo scozzese espone, per curiosi di biologia, una variante del Vello d’Oro: un maglione fatto con la lana della rimpianta pecora Dolly. Il primo mammifero clonato che ha introdotto nel nostro apparato simbolico il disordine classificatorio attribuito ad Edipo. Niente di pecoreccio quindi. Come il tragico eroe tebano, marito della madre e fratello dei propri figli, Dolly, nata del 1996, era un clone di Belinda, madre-gemella di sei anni più vecchia di lei. Congiunta al montone Davide, Dolly ha poi generato quattro esemplari, che sono nipoti in tutti i sensi del termine: Belinda, che ha ceduto una cellula della ghiandola mammaria, è la loro nonna ma anche la zia. Uno psicanalista avrebbe voluto conoscere i sogni di Dolly, che per anni ha rubato la prima pagina ad un altro mito scozzese, il mostro di Loch Ness. E ci sarebbe di che. A parte la passione scozzese per la lana, che ha giocato un ruolo nella scelta, la pecora è il più antico degli animali domestici; il cane è arrivato dopo, per custodirla. E il denaro, cioè il pecuniario, deriva proprio da pecus. La ricchezza si misura in greggi, in Velli d’Oro.
Con la sua morte precoce, Dolly inquieta però i nostri incubi: è neonata vecchia? Ammesso e non concesso che si possa clonare l’uomo, ci capiterà lo stesso? E in queste dinastie femminili, il ruolo del montone non sarà ormai pecorile? Davide è un intermediario facoltativo tra Dolly e Belinda, come sa il movimento lesbico americano di cui Dolly è il totem.
Ma c’è qualcosa di più perturbante. Dopo molti errori, la cellula di Belinda, ricordiamolo, è stata messa in contatto con l’ovocito prelevato su un’altra pecora. Una stimolazione elettrica ha poi portato il programma genetico del primo esemplare all’interno dell’ovulo del secondo. Di qui è stato trasferito in una terza pecora portatrice e dopo cinque mesi, hello Dolly! La manipolazione degli ovuli ha portato all’ovino! Ammesso che sia ancora l’oggetto della biologia, la vita quando comincia? Quando si forma l’Embrione, parola greca che significava “crescere dentro”? Dal traferimento del programma genetico o dallo sviluppo iniziale nell’utero portatore? Per la Chiesa cattolica, per cui c’è Embrione dotato d’anima immortale dal momento della fecondazione, il problema è spinoso. Ma non fidiamoci troppo delle etimologie: in scienza le definizioni non sono essenzialiste ma evolutive: atomo significava “insecabile” e lo si è frantumato in un’infinità di modi. Domandiamoci invece se c’è stata fecondazione. Direi di no! Solo un artefatto cellulare: nessuno, prima della nascita di Dolly averebbe chiamato Embrione un ovulo con un nucleo sostituito. Ma, direte, è già il potenziale di un Embrione, il quale è un potenziale dell’organismo definitivo. Una virtualità al quadrato pone già problemi etici o metafisici?
Umano viene da humus, terra. Grazie alla tecnoscienza, eccoci sulla Terra, a comunicare con parole sempre più instabili, mentre Dolly è ascesa alla costellazione dell’Ariete, traccia celeste del mitico Vello doro. By Dolly!
Natura e artificio
Le relazioni tra la natura e la cultura non sono d’ordine ontologico. Sono gli estremi di una categoria semantica, termini che non sono fissi ma costantemente ridefiniti dall’attività umana, dalla sua potenza d’artificio.
La natura è stata considerata a lungo un regno oggettivo di leggi immutabili, mentre la cultura era la repubblica di arbitrarie diversità simboliche, politiche e sociali, da affrontare con metodi “naturalistici”. Solo l’arcadia boscheccia dei Verdi crede forse a questa natura totemica, da difendere nella sua fragilità (la versione protezionista), senza ostacolarne l’innata fecondità (la versione ‘laissez faire’).
Nel mondo contemporaneo per contro, prevale una visione più ibrida e complessa, le cui definizioni sono evolutive. Le società, via le scienze e le tecnologie, sono sempre più mescolate ad un cosmo definito – nel bene e nel male – dall’attività umana. La storia della natura è sempre stata quella delle sue perturbazioni. Ma oggi, attraverso esperienze sociali – di cui la conoscenza è solo una delle componenti – la modernità riflessiva produce senza sosta degli ibridi, umani e non umani, interconnessi in modo imprevedibile, Anche e soprattutto come effetto dalle pratiche di precauzione che vorrebbero minimizzarne i rischi! Il selvatico non ci salva più. Il significato dell’ordine naturale si manifesta nei momenti d’instabilità, di mutamento di senso; ci obbliga a pensarne le trappole semantiche partendo non dagli estremi, ma dal mezzo.
Come gli OGM e virus, gli Embrioni e i robot sono attori artificiosi da socializzare attraverso la connessione costante tra collettivi umani e non umani. Per esempio, attraverso le biotecnologie, proiettiamo la nostra memoria scientifica e tecnica sulla nascita umana: facciamo nascere noi stessi, nasciamo per il fatto di farci nascere. Ma l’artefatto cellulare da cui è nato il clone Dolly, l’ovulo a cui è stato sostituito un nucleo, in attesa della fecondazione è solo un potenzialità al quadrato, un composto di laboratorio in biblico tra vita e non vita. E ci pone problemi inediti d’ordine naturale, – androgenesi e/o partenogenesi? – giuridico, religioso e morale.
Anche i robot antropomorfi e le esperienze di trapianto che vanno sotto l’etichetta cyborg, procedono nello stesso senso. Che siano o no l’anello mancante tra natura e artificio, essi ci interrogano sulla vita e la natura dei suoi meccanismi. Gli esseri viventi sono delle macchine le cui componenti sono molecole? Sarà quindi possibile sostituire quest’ultime con le nanotecnlogie? E se stessimo antroporfizzando troppo le macchine, a cui tentiamo trapiantare l’estesia, di delegare il linguaggio e la stessa capacità d’apprendere?
Insomma, i problemi che ci allarmano ed assillano non sono quelli della natura unica da difendere, del pluralismo delle lingue e delle culture da salvaguardare. Sono quelli posti dalla molteplicità delle nature che ingeneriamo e di un nuovo cosmopolitismo: un contratto tra umani e non umani che va a ancora pensato.