Da: M. Rotella, A Federico Fellini, Catalogo della Galleria Fabjsaglia, Rimini, 1998.
“Una mattina incontrai per la strada un giovane mercante d’arte che mi chiese un bozzetto da cui produrre una serie di litografie. A Parigi avevo strappato una pagina di Paris Match, in cui c’era una pubblicità di una piccola ruota munita di due manici con cui, facendo delle flessioni con le ginocchia, si sarebbero rinforzati i muscoli del ventre. In francese era scritto: La piccola ruota vi perfeziona. C’era l’immagine di una donna nell’atto di fare ginnastica. La piccola ruota era dunque una “Rotella”. Per cui mi appropriai della pagina e la diedi come bozzetto…”
M. Rotella, Autorotella
I primi décollages di Mimmo Rotella risalgono al ’53. Scoperti da un personaggio straordinario, il poeta e filologo Emilio Villa, ed esposti dal ’54, sono entrati a far parte, con diverse dizioni (Affichistes, Nouveaux Réalismes, ecc.), dei linguaggi della modernità. Il termine “Décollage” è entrato nei vocabolari della lingua italiana.
P. Restany e T. Trini, tra gli altri hanno prospettato e descritto la pratica delle affiches lacerées di Rotella, insieme a quelle di Raymond Hains, di Wolf Wostell, di François Dufrêne e di Villeglé. A differenza di altre procedure di deformazione continua (compressioni, trazioni, flessioni, torsioni, ecc.), questi artisti operano per sfigurazione discontinua (tagli, strappi, sfregi) e per mutamenti nello spessore della materia (scollature). Con alterne procedure – interventi murali pubblici, lacerazioni-happening, acquisizioni ai depositi di detriti, maruflages, cioè incollature su tela – Rotella ha approfondito la formula di questi collages per sottrazione e l’ha condotta ad un grado estremo di sottigliezza e di immediatezza espressiva. I suoi strappi – lacerare, dice il vocabolario “provoca aperture con orli ineguali e discontinui” – hanno la giustezza di pennellate di sottrazione, sono gesti di estrapolazione incidentale ma controllata, atti di detrazione e di desistenza. (Il contrario del ritocco e del’interpolazione, ma anche del frammento e del dettaglio.) E come le antiche icone, conservano una qualità di sinopie, di affreschi distaccati e riportati.
I décollages implicano non solo l’occhio, ma la mano; sono tracce di impronte. Nel mondo circostante di segni digitalizzati, ci ricordano da un lato la tattilità e la gestualità della “vera” pittura e dall’altro una caratteristica dell’astrattismo di tradizione italiana: la sua passione dilaniante e dionisiaca. (Come scrive Perniola, più della forma gli importa la forza.) Ma gli strappi sono anche piccoli operatori di pensiero visivo: producono blanks, cioè vuoti, sfondi che invitano al nuovo completamento dell’immagine, e sfidano a nuove, attive inferenze.
Il supporto privilegiato dell’attività di lacerazione è l’affiche, il manifesto affisso. Certamente le de-fissioni di Rotella non sono una novità, ma neppure una formula scolastica. Come diceva S. Beckett della pittura di G. van de Velde, solo di ciò che sappiamo ripetere riusciamo a comprendere le sabbie mobili.
Mi piace, ad esempio, pensare tutte le sue lacerazioni che siano varianti espressive d’un mito personale di Rotella, quel quadro irrealizzabile per cui avrebbe fatto posare “mille o duemila donne. Tutte nude”. Una Leda col Cigno “un famoso dipinto mitologico che ho in animo di fare da moltissimo tempo. Ho fatto […] molti disegni, molti studi che distruggo sempre. E un soggetto che mi ha ossessionato tutta la vita e che mi ossessiona tutt’ora”. Con il progetto di film, Il sogno di un poeta, in cui il Cristo flagella una innamorata Maria Maddalena (Maddalena è un anagramma di Leda?), il capolavoro sconosciuto di Rotella è la fonte dell’energia erotica propriamente lacerante che sta dietro la sua attività?
Un (progetto) di film di Rotella
“In quel tempo mi era venuto in mente di fare un film underground dal titolo il Sogno del poeta, la storia di un poeta che nel suo letto sogna di essere Gesù Cristo e incontra una bellissima donna dal nome di Maria Madddalena, che si innamora subito del Cristo. Questi le fa capire che non può assolutamente fare l’amore con lei, data la natura della sua personalità, ma poiché lei aveva peccato, lui avrebbe dovuto punirla: perciò “scena allucinante della flagellazione“. Il tutto si sarebbe dovuto girare a Saint Tropez, Parigi e Londra.”
M. Rotella, Autorotella
Un décollage di Fellini
“Ma del cinema ho in mente sopratutto i manifesti; quelli mi incantavano. Una sera con un amico ritagliai, servendomi di una Gillette, l’immagine di una attrice che mi pareva bellissima, Ellen Meis. Stava in un film di Maurizio d’Ancora, Venere, mi pare, lui metteva la testa sulle rotaie, seguiva un capoccione di Emma Grammatica, che diceva no e lui spostava la testa. Così per telepatia.”
F. Fellini, Fare un film
Rotella predilige la de-fissione del cartellone cinematografico. Sono notissimi l’esposizione di décollage Cinecittà del 1962 a Parigi, alla Galleria J; l’Omaggio a Marylin Monroe del 1963 e la sua partecipazione alla mostra omonima alla galleria Sidney Janis a New York, nel 1967.
L’interesse per il manifesto era molto attuale in quel periodo in cui la nascente pubblicità ricalcava il formato dello schermo cinematografico abitato dai volti immensi delle dive hollywoodiane. Si pensi al Lux di 9 stelle su dieci con il volto affascinante di Ava Gardner. Si ricordi il dialogo di Fellini in Boccaccio ’70: davanti alla grande struttura del cartellone pubblicitario che raffigurerà Anita Ekberg e il suo diabolico bicchiere d latte: “È cinema? No, è pubblicità”.
Rotella viveva quel mondo del cinema, anche se le sue frequentazioni erano nel mondo dell’arte. Nell’autobiografia accenna appena a G. Pontecorvo e a L. Visconti, o a L. Fulci, per un film con Sordi su cui l’artista rivendica un’influenza nei modi e nella moda. Cita pochi film: Il pianeta delle scimmie, visto sull’aereo che lo porta da New York a Parigi nel maggio del ’68 o Le quattro stelle di A. Wahrol (per una certa attrice!)
Ma il “cartellone” cinematografico, quest’immagine condensatrice d’immagini è il suo naturale riferimento. Le lacerazioni di Rotella, poeta fonetico, sono come un doppiaggio, le “colonne” visive di queste icone della modernità, capaci, per M. McLuhan “con le loro immagini compresse, di riassumere produttore e consumatore, venditore e società”. Lo studioso canadese aggiunge “quando arrivò il cinema, l’intero schema della vita […] si trasferì sugli schermi come un’inserzione pubblicitaria ininterrotta […] mentre […] tutte le inserzioni sui giornali finirono per assomigliare a scene di film”.
Questo però non basta a spiegare Felliniana, il presente incontro con il cinema felliniano, mediato dalla comune passione per l’affiche (ma già una defissione sulla Dolce vita era approdata al Vocabolario della Lingua italiana dell’Istituto dell’Enciclopedia Treccani). Il manifesto è solo il luogo di scambio, co-testo e non pretesto, di un’affinità più intrinseca. Lo aveva visto limpidamente uno scittore, J. M. G. Le Clézio, citato dal filosofo del cinema G. Deleuze: “il travelling di Fellini è un mezzo di décollage, prova dell’irrealtà del movimento”. E ancora: “Il suo cinema non è mezzo di riconoscimento ma di conoscenza, scienza delle impressioni visive, che ci obbliga a dimenticare la nostra logica e le abitudini retiniche” (L’image-temps). Di questa conoscenza per strappi e lacerazioni abbiamo molte testimonianze in Fellini, dai ricordi d’infanzia che abbiamo già citato agli appunti di regia di Fare un Film: “Finire con parti via via più monche, lacerate, frammenti…” e, più oltre, “per una magmatica liberazione di immagini”.
Basta pensare agli scollamenti di Satyricon (in cui potrebbe trovar posto la Leda col Cigno di Rotella); al dissolversi degli antichi affreschi in Roma e ai manifesti pubblicitari tagliati dai fasci di luce delle motociclette e dell’auto in Roma e in Ginger e Fred; alla fine di Amarcord, quando la memoria si sfolla e si sfalda…
Non si tratta però di comuni gusti artistici, anche se Fellini diceva di preferire i papiers coupés di Matisse ai surrealismi Magrittiani (e detestava gli inviti alle inaugurazioni delle mostre di pittura!).
C’è invece un metodo comune di rompere (i) con le immagini cliché e con (ii) il trattamento della memoria, che avvicina le immagini mutue di Rotella e di Fellini.
(i) Lacerare il cliché
G. Deleuze ha mostrato, a proposito della pittura di Bacon, la profonda implicazione di questo modo di formare. Davanti alla tela o allo schermo vuoto, il luogo comune – reale o virtuale, immagine realizzata o cosa mentale – è sempre già presente. Si può metterlo a distanza con l’astrazione (è lo sguardo profondo e staccato di Antonioni) o usare la visione Felliniana, ravvicinata, senza profondità di campo, che invita alla partecipazione. L’affiche è una buona metafora del modo “alveolare” della costruzione fellinina: gabbie, nicchie, palchi, finestre compresenti sulla stessa immagine o sequenza fino a formare una Esposizione Universale, un teatro del Varietà o delle meraviglie.
Ma bisogna poi sempre decollare, scollarsi dal vedere comune, renderlo singolare, con un gesto di deformazione. Uno strappo è come un grido: un segno senza referenza. Il décollage-travelling è una flagellazione carica d’erotismo che cambia i connotati dell’immagine, ma non li perde definitivamente – come accade nell’Informale, nell’Action Painting o in certo cinema underground – e che lascia emergere o intravedere un’altra Figura Possibile. La defezione è la promessa di una nuova definizione.
È il caso del grande pannello Felliniana col suo centro illeggibile e la sua Esposizione o Varietà di alveoli – germi e cristalli, direbbe Deleuze. Un vero polittico, che strappa, con una procedura comune a Rotella e a Fellini, i luoghi comuni, i dejà vu che ormai si rapprendono intorno al regista riminese. (Si veda per contro il retorico sipario predisposto dal Festival d Cannes.)
E poiché non si possono distruggere i luoghi comuni, per i rischio di produrre i loro contrari, scorticarli sembra la sola via… Il pompier e il non pompier, diceva Beckett, vanno messi al servizio l’uno dell’altro.
(ii) Defalcare il tempo
L’effetto immediato della mostra Felliniana, dopo la scomparsa del grande regista e nella distanza dalle sue opere è quello di un’emozione nostalgica: il piacere d’essere tristi. “Non recidere, forbice quel volto, solo nella memoria che si sfolla” (Montale).
Ma non è così, né per Rotella né per Fellini. Le loro non sono immagini-memoria. C’è in entrambi una vitalità simultanea, un sovrapporsi delle immagini – segni di segni – che non è in profondità. È una successione orizzontale, una fila di presenti (una internità, dice Deleuze per opporla all’eternità). Il supporto, liberato dalle lacerazioni di Rotella non sta sotto e non viene prima. Così come le immagini di Fellini, pur riferite al passato, sono serie di attimi di cui nessuno è padrone: danno tempo al tempo. Mentre gran parte del cinema è dominato dal galoppo temporale, i film di Fellini hanno un ritmo di ritornello (non è decadenza, ma procadenza, dice ancora Deleuze). Come gli strappi di Rotella e la musica di Rota.
Dedica
La mostra della Galleria Fabjbasaglia è dedicata a Federico Fellini.
Anche la dedica è un presente, cioè un dono in cui dare e ricevere sono reciproci e reversibili. Non ci si priva di quel che si dona, se dare e ricevere sono, da punti di vista diversi, la stessa cosa. Non si può dare se non quel che già appartiene all’altro, non si può dare se non quello che è stato già dato.
Ma la dedica riguarda anche noi, sujet trouvés, inclusi e attualizzati con la nostra memoria, nel polittico Felliniana.
Siamo giunti, con un’accelerazione vertiginosa, alla fine della società dello spettacolo, quella della grande immagine cinematografica e pubblicitaria. La periferia metropolitana e la televisione hanno inghiottito Cinecittà. Resta, si dice, un trash pervasivo, rifiuti e rottami testuali con cui sarebbe scritta la parola “fine” sui grandi schermi e i loro vasti simulacri. È del tutto vero? Ed è definitivo?
La civiltà dell’immagine è quella del dejà vu. Dall’attualità del cinema Felliniano, dal presente della mostra di Rotella, un invito a pensare e a guardare altrimenti. Con quali metafore, con che modi, di formazione e di deformazione schiveremo il luogo comune e i buoni sentimenti del vedere?
Bibliografia
Abruzzese, A. e Colombo, F. (a cura di), Dizionario della pubblicità, Zanichelli, Bologna, 1994.
Beckett, S., Le monde et le pantalon, Minuit, Paris, 1989.
Deleuze, G., F. Bacon: logique de la sensation, La difference, Paris, 1981.
Deleuze, G., Image – temps, Minuit, Paris, 1985.
Fellini, F., Fare un Film, Einaudi, 1980.
Fellini, F., Intervista sul cinema, Laterza, Bari, 1983.
Istituto dell’Enciclopedia Treccani, Vocabolario della Lingua italiana, Roma, 1989.
Perniola, M., Enigmi, Costa e Nolan, Genova, 1990.
Rotella, M., Autorotella. Autobiografia di un artista, Milano, SugarCo, 1972.