Dal Segno al Simbolo: andata e ritorno


Da: “Introduzione” a Umberto Eco, Simbolo, Bologna, Luca Sossella Editore, 2018.


1.

Lasciare i relitti e nuotare vigorosamente
(P. Valéry)

A Umberto Eco, come a Borges, piacevano le Enciclopedie: l’insieme multimediale delle conoscenze condivise in una cultura; un archivio del già detto di cui andava ricostruita la registrazione. Dopo il tentativo “forte” di articolare le interpretazioni collettive con il modello lineare e binario di coordinazione /subordinazione in generi e specie (l’albero di Porfirio), il semiologo neo-tomista aveva finito per aderire alla topologia rizomatica della rete, al suo algoritmo “debole” (una terra di mezzo che conta però parecchi arboscelli!).
Nel 1981 l’affermato semiologo aveva collaborato al più tradizionale formato alfabetico dell’Enciclopedia Einaudi per il cui thesaurus aveva redatto le voci interconnesse “Segno” (628-668), “Significato” (831-877) e “Simbolo” (877-915). Sulla nozione di “Simbolo” era poi tornato in Semiotica e filosofia del linguaggio, 1984, per variazioni libere, come un’analisi sottile di Sylvie di G. de Nerval e un fugace accenno al ruolo dell’enunciazione. E una variante connessa: l’autocritica del concetto “battesimale” di Codice al quale sostituisce quello di Enciclopedia – peraltro incluso nell’uso estensivo di Codice! Il varo dell’Enciclopedia non toglie valore alla ridefinizione del simbolo – anche se Eco non tornerà più sulla sua nozione e negli scritti giornalistici userà la classica l’accezione di “segno dotato d’un senso prestabilito”.
Nella redazione del 1981, la voce “Simbolo” è un attrattore teorico per la sua collocazione nella semiotica, nelle discipline filosofiche e scientifiche e nella cultura generale. Una “grandezza” di cui si anticipa la natura semiotica rispetto all’analisi che ne riconoscerà il carattere discreto e si postula la comparabilità con altre grandezze dello stesso ordine come Segno e Linguaggio.
Un’osservazione preliminare, ex post: la ridefinizione e inter- definizione di simbolo proposta da Eco non ha avuto esito nella prassi culturale corrente: ad es. G. Zagrebelski, affronta il linguaggio simbolico della politica senza “preoccuparsi troppo della ortodossia semiologica” di Eco, mentre E. Franzini – che pratica la liponimia semiotica, cioè la damnatio memoriae – non lo include nel suo bilancio delle “figure e forme del pensiero simbolico”. Anche gli allievi – e altri ospiti nella casa famiglia Eco – hanno glissato (silenzio d’ossequio?) su una delle sue operazioni più originali e arrischiate, suscettibile di ridefinire, come vedremo, la sua stessa nozione, illuminista ed enciclopedista, di segno1.
Per Eco il Simbolo è vittima d’un interdetto di determinazione, “è troppe cose e nessuna. Insomma, non si sa cosa sia”. Come dargli torto se il termine simbolo è usato in sensi così lontani come (i) un sistema formale di calcolo composto d’elementi scomponibili in un elenco finito di costituenti elementari e da regole di connessione per generare espressioni ben formate; oppure (ii) le bandiere accuratamente composte dalla rivoluzione francese (“il rosso dev’essere all’esterno perché fluttui nell’aria”) o dal nazismo, dove lo sfondo rosso rappresenterebbe la componente Socialista2.
Il ricorso alle etimologie classiche, consuetudini dei filosofi, sono inconcludenti: per i latini erano symbola gli scontrini per la partecipazione ad un banchetto e chi parlava per symbola – o per ambages – usava vie traverse e sotterfugi.

2.

Mosso dall’esigenza strutturale d’interdefinizione delle grandezze, Eco procede a sciogliere la sinonimia del Simbolo con il Segno, il quale è un termine comune, identificabile attraverso un nucleo generale e costante di proprietà e commisurato al proprio referente. Il simbolo per contro attiene ad una semiotica del Testo “è simbolica ogni pratica testuale e a maggior ragione lo sarà la pratica testuale retorica” (Eco, ivi). Attraverso il confronto con filosofi (Cassirer, Derrida, Goethe), con antropologi (Douglas, Firth, Lévi Strauss), letterati (Frye) e psicanalisti (Freud, Lacan, Jung), semiotici (Todorov e Kristeva), Eco isola progressivamente i tratti distintivi (il “nucleo duro”!) di un peculiare Modo Simbolico di trattare i testi semiotici. In senso stretto, una modalità di produzione o interpretazione testuale che presuppone un processo di invenzione applicato a un preventivo riconoscimento. Un Elemento espressivo dotato di funzione segnica è visto come proiezione e realizzazione per ratio difficilis, di una porzione imprecisa di contenuto. Un esercizio incessante, epifanico, di semiosi illimitata, che è la modalità cognitiva dell’estetica dell’Opera Aperta. In tempi diversi e in mutate temperie culturali, l’ermeneutica e la poesia, la religione e la politica intendono i linguaggi in questa chiave simbolica. Presunzione di analogia tra simbolizzante e simbolizzato attraverso la correlazione fra tratti dell’espressione e una nebulosa di possibili proprietà semantiche; nonché l’assenza di “vere modalità di retta interpretazione” dei testi, avallata dal decostruzionismo.
Questa ipotesi, che fa parte di una riflessione di lungo corso sui meccanismi della significazione, può sollevare riserve ma non si limita ed arrampicarsi sulle spalle dei giganti della semiotica. Il dispositivo simbolico prende le distanze e l’agio dalle triplette di Peirce – Indice, Icona, Simbolo- dove il Simbolo è aristotelicamente fisso – o di Lacan – Reale, Immaginario, Simbolico (legati come anelli borromaici!). Gli si può obbiettare il regime unilaterale di esempi esplicitamente assunto: “per definire il modo simbolico si sarà costretti a procedere elaborando una tipologia generale che non può nutrirsi di tutti gli esempi a disposizione dato che il termine simbolo viene usato da quasi tutti i pensatori negli ultimi duemila anni. Gli esempi saranno pertanto scelti per la loro capacità di rappresentare infiniti altri contesti più o meno simili, per ragioni variamente ‘economiche'” (Eco, ivi). Altri esemplari testuali sarebbero quindi suscettibili di orientare altrimenti la sua tipologia. Va comunque riconosciuto che l’ acribia della sua disanima ha condotto Eco – forse di spalle, per l’eterogenesi degli esiti teorici – ad una qualificazione attuale della nozione stessa di segno.

3.1.

Variamo dunque l’esemplificazione. Tra i filosofi che latitano nel repertorio esemplare di Eco, c’è il filosofo N. Goodman il quale confermerebbe l’assunto che segno e simbolo sono sinonimi. Ispirato a Cassirer, – che usa alternativamente Zeichen e Symbol – il filosofo dei linguaggi artistici sviluppa una delle teorie simboliche più versatili ed avanzate. “Una ricerca sistematica sulle varietà e le funzioni dei simboli raramente intrapresa” da affiancare a quelle che “si sono moltiplicate nel campo della linguistica strutturale”. Goodman tiene a precisare in via stipulativa che “la parola ‘simbolo’ è qui usata come termine del tutto generale e neutro. Essa comprende lettere, parole, testi, dipinti, diagrammi,mappe, modelli e così via”. Si tratta dunque di Segni e non sono persuasive le riserve di chi ha attribuito a Goodman una disciplina simbolica concorrente alla scienza della significazione (S. Briosi, 1993, 1998)3.
È alle scienze dell’uomo che Eco avrebbe potuto rapportarsi. Con la storia dell’arte dove Panofsky ha trattato la prospettiva legittima come forma simbolica (v. Cassirer) e la sociologia, da Mead a Schutz fino a Berger e Luckman. E soprattutto in Antropologia, in cui la corrente Simbolista – da Geerz a Goody, a Turner – per incallito empirismo si riferisce al lemma “simbolo” del (loro) vocabolario. Per gli antropologi anglosassoni, allergici all’articolo determinativo, i simbolismi appartengono alla conoscenza culturale tacita e sono irrilevanti le differenze tra il modo simbolico-figurato e quello referenziale-letterale, finché non vengono messi alla prova sul campo, nell’analisi comparativa della mitologia e della ritualità4 Sono però pregnanti le indagini interculturali sulle legittimazioni assiologiche che sostengono il modo simbolico (“Un modo produttivo di guardare semioticamente ad ogni apparizione del modo simbolico è: da quale teologia è legittimato?”, v. Eco, ivi) e gli investimenti passionali che ne conseguono – dal riconoscimento del valore (Simbolo-latria), al suo misconoscimento (Simbolo-clastia).
Tra i protocolli di malinteso occasionati dall’indistinzione tra simbolo e segno, si staglia la riflessione di C. Lévi-Strauss che negli stessi anni, riprendeva ne La vasaia gelosa,1985, l’opposizione tra letterale (proprio) e figurato-simbolico già affrontato nel Crudo e il Cotto, 1964. Il grande strutturalista rifiutava “una definizione del simbolismo ridotto alla semplice comparazione” e ammetteva la validità dell’opposizione tra letterale e figurativo nel contesto culturale specificato. “La funzione propria o figurata di ciascuna classe, inizialmente indeterminata, secondo il ruolo che verrà chiamata a svolgere in una struttura globale di significazione, indurrà nell’altra classe la funzione opposta”. Per accedere alla simbolicità, le proprietà “naturali” – per es. i caratteri fisiognomici di certi animali (zoemi) – sono esemplificate come tratti salienti (significanti) da correlare a categorie semantiche (binarie o ternarie) relative alla cultura in esame. Un bricolage che qualifica la peculiarità e la non universalità dei simboli, a cui pretende la psicanalisi – che per Lévi-Strauss era una branca della etnologia comparata applicata alla psiche individuale. I simboli però non formano “una massa indistinta; non sono contenuti in una fossa comune da cui esumare a volontà un termine qualsiasi per associarlo od opporlo ad un altro. Il transfert di senso non ha luogo da termine a termine, ma da codice a codice”. Lévi-Strauss riaffermava quindi, a differenza di Eco, la nozione di Codice, allargata alla dimensione sintagmatica e qualificava la mitologia come disciplina testuale grammaticalizzata che indaga omologazioni e trasformazioni in seno alle culture.
Anche un semiotico della cultura come J. Lotman ha avvertito, come Eco, l’esigenza di uscire dalla sinonimia tra segno e simbolo per assegnare a quest’ultimo uno speciale statuto di senso e di valore nello semiofera. Per il semiologo russo infatti si tratta di un’apocope epistemica: “qualsiasi sistema linguistico semiotico […] avverte la propria incompletezza quando non fornisce la propria definizione di simbolo”. Ne riconosce la natura testuale e la scaturigine dalla profondità della memoria culturale. A differenza di elementi segnici convenzionali, il simbolo possiede per Lotman un carattere iconico, una somiglianza allusiva, non codificata, tra i piani reciprocamente presupposti dell’espressione e del contenuto. Può quindi diventare “una sorta di condensatore semiotico di tutti i principi di segnicità e nel contempo oltrepassarne i limiti”. Un mediatore tra le varie sfere della semiosi, tra sincronia testuale e memoria della cultura. La struttura dei simboli culturali – non un’enciclopedia rizomatica per quanto complessa – sarebbe isomorfa, ipotizza Lotman, alla memoria genetica individuale.

3.2.

La carenza co-testuale più notevole, quasi un segno zero del contributo echiano, è il corpus teorico della semio-linguistica saussuriana che ha ampiamente vagliato il senso proprio e il valore differenziale del simbolo (Arrivé, 2007). A partire dal suo fondatore il quale, nello svolgersi della sua rottura de-ontologica, ha usato alternativamente i termini segno e simbolo. Come per es. “la lingua come sistema di simboli o di segni; “simbolo convenzionale”/ indipendente oppure “segno arbitrario”; la leggenda composta da simboli che fanno parte della semiologia, ecc. Saussure ha poi optato definitivamente per il segno e i suoi sistemi. Anche se ha mantenuto che il simbolo comporterebbe un rudimento di legame naturale tra le due facce del segno, tra significante e significato.
Una sinonimia che ha un termine nelle teorie semiotiche successive che attengono al paradigma della scienza del linguaggio: L. Hjelmslev in primo luogo, poi A.J. Greimas.
Il linguista danese impianta il sistema dei simboli nel suo dispositivo semiolinguistico il quale prevede diversi piani dell’espressione e del contenuto. I simboli sarebbero non-linguaggi, in quanto privi della doppia articolazione; non biplani dunque, per quanto sia sempre possibile aggregarvi una porzione di contenuto, ma articolabili in sistema e processo a partire dai vari piani della manifestazione segnica (gesti, immagini, musica, ecc.). Una ipotesi ab quo, cioè a partire dalla struttura del segno equiparabile quella ad quem, cioè dal modo di formare, a cui perviene Eco, alla condizione non trascurabile di ometterne i riferimenti referenziali – la conformità dei piani in Hjelmslev non implica rapporti col referente – e le “vere modalità di retta interpretazione” (Eco).
Anche Greimas, come Eco, prende le distanza dalla definizione peirciana di simbolo fondato su una convenzione collettiva; aggiunge poi che un inventario culturalmente delimitato di simboli molari – cioè suscettibili d’una interpretazione fissa e non analizzabili in figure di contenuto – non è un sistema simbolico. D’altra parte anche la qualificazione contraria – ambiguità, plurivalenza, analogia, sincretismo, ecc. – si trova a disagio nella nicchia d’una semiotica a vocazione scientifica. Il semiotico lituano in un primo momento sembra intenzionato a restringere il senso dei simboli – terminali, operativi, ecc. – al loro impiego nella metasemiotica scientifica: “Un grafismo convenzionale che serve a denominare in modo univoco una classe di grandezze, un tipo di relazione e/o operazione”. In parziale coincidenza con la definizione glossematica di grandezza d’una semiotica monoplanare, sarebbero simbolici gli utensili con cui si procede alla notazione visiva delle unità e delle relazioni metalinguistiche.
In un secondo tempo (1979), accanto agli idiomi formalizzati, a Greimas e Courtès si è progressivamente imposta la classe dei linguaggi semi-simbolici (o molari) caratterizzata non dalla conformità tra elementi isolati, ma tra categorie dell’espressione e del contenuto. Non si tratta soltanto di semiotiche monoplanari interpretabili – i simboli di Hjelmslev – ma di procedimenti strutturati de significazione. I piani del segno infatti sono conformi, ma anche correlati attraverso categorie del Significante come i contrasti plastici della visione e le differenze di Significato che sono categorie della semantica testuale5. Questa motivazione categoriale quasi biplanare o semi-simbolica, è riscontrabile e operativa nei linguaggi visivi, musicali, sincretici e più in generale nella funzione poetica.

4.

Il tratto minimale, primario che caratterizza queste semiotiche molari non poteva soddisfare la varietà e complessità del modo simbolico previsto da Eco, il quale ha spesso auspicato una convergenza che chiamava antifrasticamente “cerchiobottista”. Ci sembra però che l’ipotesi ardimentosa di Eco sul modo simbolico, pur ostruita e ostracizzata, non meriti solo una ricodifica retrospettiva, ma valga la pena d’ essere inserita in un campo discorsivo di trasformazioni – generalizzazioni e applicazioni.
Ritengo che il modo simbolico, esito della riflessione estetica sull’opera aperta, ridefinisca in maniera innovativa il paradigma neo-tomista con cui Eco ha circoscritto la sua semiotica. Si tratta di una teoria logica della conoscenza fondata su un’ontologia della quale la linguistica abiterebbe una provincia. Una prospettiva rappresentazionale – la dualità significante/ significato non è di presupposizione reciproca, ma di esteriorità del significato rispetto al significante, quindi di separazione tra linguaggio e pensiero. Il segno, illustrato dal broccardo scolastico Aliquis stat pro aliquo, (i) estende la denotazione all’insieme delle relazioni semiotiche, le quali risultano fondate in ultima istanza sullo zoccolo duro dell’Essere, (ii) stabilizza il senso (stat) dei due realia, aliquis e aliquo, per poi dinamizzarlo in via inferenziale (per es. abduttiva)6.
Le difficoltà sono opportunità per un ottimista. Ritengo che la scelta testuale con cui Eco basa un modo simbolico non dato ma costruito nell’interpretazione, lo situi sorprendentemente nella ricerca orientata verso una de-ontologia propriamente saussuriana. La quale lascia al semiotico il compito e l’agio metodologico di allestire procedure autonome di soggettivazione e di oggettivazione. Proprio come accade nel modo simbolico. Segni e testi possono diventare allora “un’empiria generale formata da veri oggetti scientifici e non da rappresentazioni di cose o di stati di cose” (Rastier, 2018). Il segno nel suo modo simbolico, avrebbe allora una semantica non veridizionale né cognitiva, la quale potrebbe operare come un organon generale per le scienze della cultura (Fabbri, 2008).
Innovare è tradirsi. Cercando di caratterizzare il simbolo e di sottrarlo al dizionario delle parole fraintese, Eco ha trovato un suo modo indiretto, figurato, difficile, retorico, estetico di ripensare la costituzione stessa del Segno.

Conclusione, con una ouverture !

Plus un homme est intelligent moins il est de son parti
(P. Valéry)


Note

  1. Nell’ottimo Il contagio e i suoi simboli a cura di G. Manetti, ETS, Pisa 2004, atti di un convegno organizzato dall’Associazione “Simbolo, conoscenza, società “, non c’è definizione di simbolo o discriminazione dal segno. Il testo di Eco non è mai citato.
    Eppure fin dall’apertura del paradigma semiotico, A. Rossi pubblicava, “Semiologia del simbolo”, come relazione al Colloquio mondiale di Semiologia, Kazimierz, (Polonia), 12-18 settembre 1966, in preparazione della International Semiotic Association.
    Tra le eccezioni, U. Volli, 2004, riprendendo esplicitamente Eco, estende al simbolo l’affermazione che il segno è fatto per mentire: “il simbolo è il tipico artefatto comunicativo ideologico, dispositivo di inganni persuasioni, identificazioni, mobilitazioni. La sua condizione di esistenza è l’occultamento del proprio modo di funzionare e della propria origine”. Non a causa della sua proprietà sostitutiva del referente, ma per un “eccesso postumo”: “un più di senso applicato dopo, ma che si pretende già lì, proprio quando glielo si attribuisce”.
    Per Volli dunque il simbolo sarebbe – hjelmslevianamente – un segno connotativo. E sempre provveduto d’efficacia ideologica; un’estensione “complottista” oltre l’intento di Eco. torna al rimando a questa nota
  2. Per gli svolgimenti successivi del “paradigma simbolico”, v. la sintesi di F. Rastier (2018).
    A differenza del segno, il simbolo della logica formale (Symbols, per Ogden, Richards, sign-vehicels per Morris) è primitivo, fisso, invariabile, finito di numero, componibile e privo della dimensione semantica. Opera sul solo piano della sintassi e un eventuale senso viene aggiunto dall’esterno. Una semplificazione radicale della complessità linguistica e semiotica a cui è dovuto il successo nell’A.I. e nella doxa naturalistica delle discipline cognitive, v. il Web Semantics. E la ragione dell’inefficacia del simbolo logico alle prese con testi “naturali”.
    Nonostante l’attenzione alla cultura, il percorso di Eco si sarebbe poi orientato a lungo verso questo orizzonte “simbolico”.
    Rastier riconosce invece il ruolo d’una Mediazione Simbolica (cd. comunicativa) accanto a quella semiotica (cd. rappresentativa). Confronta poi criticamente le nozioni peirciane a partire non dalla referenza (v. Greimas) ma dalla presentazione: l’ Indice richiede la presenza mentre il Simbolo implica una assenza paradigmatica e sintagmatica. torna al rimando a questa nota
  3. Si tralascia qui la popolare quanto maldestra sintesi di Ogden Richards tra il segno saussuriano e la definizione tradizionale di Simbolo. “Nel loro modello triangolare il simbolo corrisponde a significante saussuriano, il pensiero o il riferimento al significato, mentre il referente denota la ‘realtà'” (Greimas, 2007). Il cd. Triangolo del Senso sta ad incolmabile distanza da una semiotica dei sistemi e processi di significazione non orientata ontologicamente. torna al rimando a questa nota
  4. È del luglio 1973 il primo numero di Journal of Symbolic Anthropology, Mouton, La Haye, ma già nel lessico antropologico del linguaggio (Duranti, 2001) manca la voce Simbolo.
    Per Geerz la religione è un “sistema di simboli incorporati” e per M. Godelier (2015), dopo gli attentati parigini a Charlie Hebdo, la frase je suis Charlie diventò un simbolo. Ma per entrambi è superfluo spiegare perché non fossero segni. Per contro è in un’accezione simile a quella di Eco che M. De Certeau definisce il Maggio del Sessantotto francese e la sua presa della parola una “rivoluzione simbolica”, dove, appunto, la nozione di “simbolo” a una rilevanza centrale. Le “barricate” erette in quell’occasione erano invece citazioni dal codice semiotico della rivoluzione parigina. torna al rimando a questa nota
  5. Nell’analisi della novella di Maupassant, “Les deux amis”, Greimas aveva già messo in evidenza che al momento della “figurativizzazione del discorso”, la struttura assiologica astratta […] risultava omologata con la struttura figurativa elementare: ne risulta una valorizzazione (= una “assiologizzazione”) dei termini figurativi che accedono quindi alla dignità di “simboli”, in quanto i due modelli sovrapposti costituiscono allora una struttura assiologica figurativa (pag. 140). torna al rimando a questa nota
  6. Per queste e le seguenti osservazioni, v. gli esiti della riflessione costante di Rastier, 2018, sull’epistemologia (neo)saussuriana della semiotica. torna al rimando a questa nota

Bibliografia

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