Da: Luce di Pietra: percorso italo-francese di arte contemporanea a Roma, Catalogo Skira, Milano, 2007.
Dado è tratto
Si apre ad un originale esperimento artistico il Palazzo “superbissimo” (Zeri) dei Farnese, una delle quattro meraviglie di Roma. Con la scala di Caetani, il portone di Carboniani e il cembalo di Borghese, il palazzo Farnese era detto il Dado per quella forma chiusa e regolare che ricordiamo nelle incisioni del noir Piranèse.
Un edificio è composto di pietra e luce come un albero è fatto di foglie e di aria. La mostra “Luce di pietra” si propone quindi un’inedita esperienza: rendere diafano il palazzo aprendolo al pubblico e illuminarlo con installazioni di artisti italiani e francesi rese accessibili nel luogo che ospitava nel Rinascimento “la maggior collezione d’arte di Roma e forse d’Italia” (Zeri).
La Pietra
Per Freud, che giunse con molta difficoltà alla città eterna, l’inconscio era come una pietra romana: la stratificazione nello stesso oggetto di molti tempi e la traccia di differenti percorsi. Anche Palazzo Farnese porta nella sua architettura i segni contradditori di due vocazioni: la chiusura interna, con la creazione di uno spazio privato di illusione, e l’apertura verso il fuori, un impulso pubblico di esternazione. Segni da riconoscere e interpretare perché è con essi che sono alle prese gli artisti impegnati nella mostra.
L’architettura di Sangallo, che ha dato all’edificio la sua destinazione e destino, realizza a pieno l’ideale di un blocco completo e proporzionato che interagisce appena col contesto circostante. È il Palazzo prototipo di un mondo chiuso, centrato sul cortile, spazio focale ma non direzionato e racchiuso entro limiti uniformi. A partire dalla facciata interna, il movimento centripeto è confermato dalla loggia, elemento di transizione tra la corte e le stanze. Solo gli spazi secondari sono distribuiti in funzione delle pratiche connesse allo spazio urbano circostante. Il muro esterno, chiuso e continuo, è differenziato verticalmente per esprimere il cambiamento degli spazi interni – il “contenuto” dell’edificio – con un trattamento ritmato degli ordini e delle cornici delle finestre. All’osservatore attento, artista o visitatore, non sfugge che lo sovrapposizione degli ordini non è quella usuale: la successione delle finestre del piano nobile è incorniciata da piccole colonne composite, mentre l’ultimo piano è ionico. Sulla facciata, costoloni e cornicioni presentano effetti di contrasto e di complessità.
Questa serrata “neogotica”, che rispondeva al progetto neo-feudale dei Farnese (Zeri), trova la sua realizzazione odierna nella rappresentanza diplomatica coi relativi problemi di sicurezza, Ma è stata fin dall’inizio contrastata dall’agitazione formale di da un moto di apertura, cioè un impulso a palesare i contenuti moltiplicando i linguaggi. È il senso, sembra, dell’intervento del giovane Michelangelo a cui il palazzo pareva vasto ed uniforme come “un pascolo per bovi”. A lui sarebbe dovuta l’apertura della grande finestra frontale sopra l’entrata, il forte aggetto del cornicione decorato con motivi ornamentali e soprattutto l’introduzione di due motivi destinati a grande fortuna nei palazzi barocchi d’Italia e di Francia. Il progetto di aprire il muro posteriore del cortile per mezzo di logge trasparenti e la traccia di un asse longitudinale teso attraverso l’edificio, con un collegamento attraverso il Tevere alla Villa Farnesina.
Il progetto della mostra attuale, con la sua apertura al pubblico è la realizzazione coerente di questa linea incoativa di forza iscritta nella struttura stessa del dado Farnese, a cui gli artisti invitati hanno replicato.
La luce
La pietra è al sasso quel che il lume è alla luce: iscrizione di forma e di forza.
All’interno del Palazzo Farnese troviamo realizzato un “sesquipedale” (Zeri) programma artistico – affreschi e collezioni. Gli artisti che partecipano alla mostra odierna hanno trovato “Nei vastissimi saloni […] pronti ad ospitare la più numerosa delle corti, le pareti ricoperte da affreschi che non ne lasciano libero un sol tratto e con la gremita giustapposizione di elementi vari e multiformi in cui gioca acutamente il dato cromatico, annullano la definizione precisa della capacità volumetrica e dei suoi esatti limiti”. In particolare nella Galleria dei Carracci e nel Camerino, il mistico feudale dell’architettura trova il “completamento della sua decorazione in un linguaggio che è poi servito da modello alle Accademie ufficiali, ai “gran re”, agli assolutismi di tutti i tempi posteriori e a quelle società sorrette dalla incrollabile certezza che per esse il sole non debba mai tramontare” (Zeri).
Un linguaggio ufficiale certo, ma intriso di inquietudine, riflessività e di ironia. Come ha osservato Longhi a proposito della galleria Carracci: “Nel cielo aperto di un portico luminosissimo […] certi termini classici van sostentando cammei giganti e antichi affreschi”. È una “aerea galleria d’arte del passato ove trascorre e si proietta la luce liquida e bionda di un autunno romano del primo seicento; e con quel suo diffondersi di sottinsù ridona un senso di presenza inquieta, un che di momentaneo alle membra marmate dei termini che van reggendo, patetici, i frammenti di un mondo per sempre irrestituibile”.
Dal centro della Galleria, in trionfo accanto a Bacco, ci osserva Arianna, specialista in labirinti dall’arguta intelligenza. E ci invita a riconoscere nella sovrabbondaza delle cornici inserite a diversi gradi di ricorsività, nella mescolanza degli effetti scultorei e pittorici, una simulazione incantata, un simulacro ironico che getta una strana luce sulla realtà del potere che ha in programma di celebrare.
Sotto il segno di Arianna operano infatti gli estrosi Carracci, inventori della caricatura e così esperti nel metalinguaggio pittorico da passare per “critici d’arte” (Annibale Carracci: “noialtri dipintori abbiamo da parlare con le mani”). Le loro immagini concettose, sempre virgolettate, ci raccontano il segreto delle apparenze, non quello della verità. “Apparenze pure” – direbbe Baudrillard – “che pervengono all’ironia per […] un sovrappiù di realtà che ne segnala per antifrasi la mancanza”. Non è la seduzione estetica della somiglianza, ma un artificio virtuosistico che oltrepassa l’effetto di realtà e ne mette in dubbio il principio. Un’abolizione della referenza che avviene in via rappresentativa per risoluzione e reversione ironica e spiega l’impressione longhiana del ricordo assillante di qualcosa di perduto.
Questa forza di illusione, frutto dell’incontro tra le tradizioni italiane e francesi, s’irradia in tutto il palazzo a partire dal Camerino, microcosmo dove lo spazio esterno penetra per simulazione. Punto cieco al centro dell’edificio e simulacro che trasfigura lo spazio reale, il Camerino è l’erede della luce radente degli studioli e dei loro trompe l’oeil. Qui, dove il principe modellava gesti e cerimonie sulle immagini, si manifesta la sembianza del potere come messa in prospettiva e il segreto della ragione di stato come padronanza di uno spazio simulato.
Ma il Camerino è anche lo spazio dove si collocano insieme la vetustà e la venusta: la bellezza delle opere d’arte del passato e del presente. Il luogo da cui tracima nelle logge, poi nei cortili e infine in tutto il palazzo, il tracciato mentale della collezione artistica. “Fabbrica di stanze o ‘terrazze’ nobili, fatte per tenervi ogni sorta di cose dilettevoli all’occhio e particolarmente statue e pitture” (Baldinucci).
Collocata accanto al Camerino, la Galleria – loggia, portico o peristilio – è un diaframma tra il privato e il pubblico, tra la dimensione intima e l’esteriorità, tra visibile e non visibile. Una proiezione verso il fuori sempre più indifferente alla funzione architettonica – i pezzi della collezione possono trovarsi dappertutto – condotta da un sentimento di meraviglia che sta tra l’ignorare e il sapere.
Allo spirito di collezione, con le sue wunderkammer si è sostituita oggi la conservazione e il bell’ordine di illuminati indirizzi culturali.
Ma la mostra “Luce di pietra”, che colloca in tutto il palazzo nuove installazioni d’arte, ritorna invece a questo moto centrifugo e lo prolunga nell’oggi con coerenza felice.
Luce di Pietra
Il progetto della mostra ritrova e riprende il doppio gesto di apertura verso l’esterno che è iscritto nella forma plastica e figurativa e del Palazzo Farnese. Quella architettonica, che comincia con Michelangelo e la proiezione artistica a partire dal trompe l’oeil del Camerino.
Gli artisti invitati, installati in questo spazio complesso, non si sono trovati davanti alle pagine bianche del museo o della galleria. Hanno risposto alla salienza della luce e replicato alla pregnanza della pietra; alla mutevole destinazione, vocazione e destino, di un edificio sfarzoso e fastoso che ben conosce il girotondo delle muse: la retorica solenne della celebrazione e la forza incantata delle apparenze.
Questo progetto singolare torce la freccia del tempo che vede sempre nani a cavalcioni di giganti. Per evitare varianti filologiche e restauri conservativi, si accede al passato attraverso il senso che un’opera chiede al futuro, prossimo o remoto che sia. Dal futuro, previsto o intravisto, si torna poi alle “sterminate antichità” per scegliere i tratti rilevanti con cui tornare alla complessità del presente.
Gli artisti invitati hanno rilevato diversamente il cartello di sfida portato dal Palazzo di pietra e di luce. Per la doppia caratteristica, centripeta e centrifuga, del luogo e per il suo doppio processo di apertura di chiusura. Ma anche per i caratteri propri all’arte contemporanea, che mirano a travalicare i confini dell’opera – le cornici e i piedestalli; i confini del luogo – galleria o museo; i confini del metalinguaggio – il confronto concettuale con il discorso teorico e critico. Un dialogo articolato ed acentrico che ha preso valenze disuguali, secondo le varie interpretazioni delle forze iscritte nel Palazzo: come ispirazione o suggestione, provocazione o tentazione, sfida o seduzione, intimidazione o curiosità.
Ogni artista ha trovato la sua via nel tono e nel luogo. Tra l’indifferenza e il distacco ma anche l’ironia e la parodia, le installazioni si sono disperse nei “vani”, secondo le forze di attrazione del luogo e la percezione dei vettori e dei valori. Mentre alcuni hanno valutato la cintura fortificata delle mura con metafore belliche (bottini di guerra), altri hanno occupato i bordi più esterni, fino a de-territorializzarsi alle soglie del palazzo: la grande finestra, le porte principali, le antiche cisterne o i cippi-limite della costruzione. (Come se sotto l’ordine misurato dell’architettura, l’artista cercasse il rizoma delle catacombe). Mentre alcuni accentuavano con la luce diafana delle finestre l’opacità della presenza interna, altri hanno introdotto nella cinta muraria gli elementi del fuori, come i fari della città. (E perché non investire le due fontane prospicienti alla piazza, con la loro luce mobile e verticale?)
Alcune istallazioni hanno e-seguito il movimento centripeto dei luoghi – il cortile, il condotto delle scale – altri hanno preferito il dialogo con i sotterranei con le loro memorie archeologiche, comprese nella forma-palazzo. Pochi hanno provato ad opporre alla proliferazione iconologica dei Carracci, le icone (corvi e frecce) di un mondo degli schermi che chiamiamo società dello spettacolo per quanto priva della profondità teatrale classica. C’è chi si è lasciato dominare dalle immagini, fino a piegarsi e spiegarsi davanti a loro e chi ha le ha messe in movimento col colore, la luce calda delle lampadine o quella fredda dei neon e le ombre.
Ogni dialogo è il confronto scontro tra differenze che si somigliano: è il senso del prefisso “dia-“. Quello tra le arti del Palazzo e le installazioni in mostra risponde bene alla proposizione di Gombrich per cui ciò che apprendiamo dal parallelismo o dal prestito è il rispetto della autonomia delle lingue, le quali restano distinte per struttura e vocabolario.
Come ogni traduzione tra linguaggi di spazi e di tempi diversi nulla è più generativo dello scambio impossibile. Abbiamo detto che le installazioni della mostra non sono situazioni di stallo ma le risultanti di forze attrattive e repulsive. Nella loro costellazione acentrica, – prefissi, infissi, suffissi del grande edificio romano – nella loro regolata miopia, troviamo l’emergenza di molte incognite critiche. E una domanda inevasa di senso che l’arte del presente, quella che ha un futuro, rivolge al proprio passato. Fra le tante: comprendiamo meglio a partire dall’eclettismo concettuale di oggi la tensione e la forza segreta che abita il (già) calunniato Eclettismo di ieri?
La ragion diplomatica
La mostra “Luce di pietra”, ha come sottotitolo: “percorso italo-francese di arte contemporanea”. Un’operazione diplomatica originale che prosegue il dialogo ininterrotto tra due grandi tradizioni artistiche. Dialogo sfavillante – lo sfavillio è luce di molte immagini speculari – tra interlocutori non intercambiabili. L’interscambio presuppone un prendere il posto dell’altro, il superamento scontato delle differenze. Ma, come sanno bene gli organizzatori e i responsabili della mostra, i linguaggi espressivi delle due tradizioni, pur se immersi nella corrente della cultura europea e della globalizzazione artistica, non sono affatto equivalenti. E non c’è arbitrato critico che possa ridurli ad un criterio estetico comune e trascenda le loro divergenze.
Occorre molta diplomazia. La valutazione delle opere esposte, classiche e contemporanee, manieriste o postmoderne è l’esercizio di una vera “ragione diplomatica”. Mestiere rischioso che non si limita a rappresentare e che lavora nell’immanenza della politica, della cultura e della scienza. Mestiere che deve costruirsi di volta in volta i criteri di valutazione, di traduzione (e di tradimento) tra una pluralità disparata e conflittuale di forme e di forze. I mandati e le reputazioni variano nel raffronto secondo le occasioni e gli incontri felici, le simbiosi possibili che non sono necessità, ma eventi con carattere di emergenza.
Sono queste emergenze che auguriamo ad una mostra la quale ha il valore e il vigore turbolento di un esperimento perché la critica d’arte si ponga all’altezza dei problemi posti dalla libera attività degli artisti.