Da: AA.VV, L’asino e la zebra. Origini e tendenze del tatuaggio contemporaneo. Mostra a cura dello Studio I e di Don Ed Hardy, catalogo a cura di Simona Carlucci e Giorgio Ursini Ursic, De Luca, Roma, 1985.
L’argomento del quale voglio parlare è il tatuaggio moderno, ma sarà comunque necessario qualche riferimento al passato, in particolare all’800, giacché il punto da cui muovere è che un’identica manifestazione, ad esempio un tatuaggio o un gergo che sono la stessa cosa – uno è la descrizione sul corpo, l’altro sulla lingua – sono in qualche modo oggetto di interpretazioni divergenti in momenti differenti. Tutti i sistemi semiotici possono essere letti in maniere diverse, la lingua, ad esempio, può essere considerata luogo della spontaneità, trasparenza del mondo o invece luogo della costruzione o del dominio.
D’altronde è evidente che qualunque oggetto viene meglio definito attraverso il parallelismo, la metafora, l’ opposizione o l’antifrasi che ne evidenziano la differenza, rispetto ad altri oggetti o momenti. Nel caso del tatuaggio, poi, ciò è ancora più evidente quando viene pensato in termini semiotici, o guardato in termini strutturalisti. Qualche tempo fa in un’università nordamericana, abbiamo. dedicato un incontro al “corpo istoriato”. La scelta del termine istoriato deriva dal fatto che al discorso di iscrizione sul corpo si aggiunge un discorso di storia, anche se non nel senso banale. La questione, allora come adesso, era vedere come nasce questa follia per il tatuaggio, per la lingua, per il segno scritto sul corpo, che ha attraversato la nostra cultura fino all’affermazione della moderna psicanalisi. In quell’occasione avevo fatto una serie di ipotesi che vorrei riproporre qui, per poi rovesciarle. Innanzitutto il tatuaggio va inserito nella problematica più vasta della scrittura ideografica.
Un’altra questione di grande interesse, poi, è quella dell’estetizzazione dell’atto, vale a dire che si può estetizzare l’oggetto tatuaggio o la pratica. Nella nostra cultura è avvenuta questa modificazione essenziale, si è passati dal “che bel tatuaggio” a “com’è bella la pratica del tatuare”, il che vuol dire estetizzazione fissata non solo nell’oggetto ma nel gesto. Altra cosa importante è il problema dello stoicismo, della sofferenza. Il tatuaggio oggi deve dimostrare che ci si iscrive la legge sul corpo senza soffrire, essa addirittura può essere vista come una pratica ludica che tenta di minimizzare una sofferenza, mentre in passato, al contrario, essa doveva assolutamente testimoniare una sofferenza sofferta. Quindi, pur essendo la pratica del tatuaggio essenzialmente identica al passato, i valori che esso esprime si sono radicalmente modificati.
Quasi tutti i sistemi semiotici e l’interesse per i sistemi segnici, come i sistemi linguistici, sono dell’800. È l’800 che tematizza, in maniera generale, la problematica scientifica dello studio del linguaggio. Secondo me è essenziale rilevare che Lombroso che studiava a fondo il tatuaggio, studiava contemporaneamente il gergo. Alla base vi era una stessa ideologia primitivista, nel senso che si trattava di trovare dentro al linguaggio moderno gli arcaismi linguistici che denotavano che quell’uomo non era che una povera creatura, cioè che il criminale era un ritardato nella scala dell’evoluzione. D’altra parte Freud pensava lo stessa dell’inconscio, che l’inconscio parlava con parole primitive doppie, cioè con doppio significato. Siamo in presenza di un paradigma scientifico che prende in carica il sistema dei segni. All’inizio del1’800 emerge un altro elemento importante che, peraltro, aveva già giocato un ruolo notevole ai primi del ‘600: i geroglifici, il fatto che vi siano due diverse rappresentazioni di segni: la scrittura e l’ideogramma. Quest’ultimo si afferma come una specie di scrittura segreta e si ricollega al trionfa ottocentesco delle società segrete. Il tatuaggio era il segreto non tanto dell’individuo, quanto il segreto sociale, di popolazione, di classe. Per la classe operaia, ad esempio, il tatuaggio diventa parte di una fisionomia (e non è un caso che cominci lo studio della fisiognomica) che la manifesta come la classe antagonista temibile (la classe pericolosa di Chevalier).
A questo dato si contrappone la volontà di dimostrare che quella classe non può collocarsi ad uno stesso livello, dal momento che essa è antropologicamente diversa. Questo antagonista, che si vuole costringere su un piano di inferiorità, porta tra l’altro scritto su di sé il tatuaggio.
All’inizio si tratta, dunque, di un fenomeno di gruppo, di società segreta, poi ben presto nelle mani degli antropologi degenera o si trasforma (come preferite) nella problematica dell’interiorità, della storia individuale. Al criminale muto che rifiuta di parlare, si legge il corpo – ci sono bellissime descrizioni di Ferrara o di Lombroso -, la sua vita, la sua storia, i suoi propositi, come si leggerebbero le armi parlanti dei blasoni. In qualche modo è un corpo blasone, un corpo che reca la propria impresa. Si cerca di scoprire quali siano le regole soggiacenti a questa scrittura figurata, esattamente come si fa con le scritture parzialmente scritte e parzialmente figurate delle società segrete. Quindi da una parte c’è la problematica della società segreta, dall’altra l’effrazione del silenzio per la ricostruzione della storia dell’individuo. Curiosamente sono gli stessi identici procedimenti che la psicanalisi mette in luce nella lettura dell’inconscio. In qualche modo l’inconscio è una tavola gergale, una tavola tatuata, l’inconscio parla tatuato, per metafore, per simboli che vanno decifrati per ricostruire il significato generale. Soltanto che mentre lo psicanalista chiede al paziente di usare la parola, il tatuaggio consente di leggere la storia sulla superficie della pelle, di leggere il corpo istoriato, ciò che l’altro ha voluto dire e ciò che ha cercato di nascondere. Entrambe le volontà sono presenti – esprimere e celare – giacché fanno entrambe parte della struttura della società segreta (possibilità di comunicare tra adepti ad esclusione degli altri), e ad esse si aggiunge la dimensione della sfida. Quando lo psichiatra spoglia per la prima volta l’uomo tatuato si trova di fronte ad un fenomeno sconvolgente: non soltanto un corpo che può essere letto, ma un corpo che gli parla, che l’interpella.
Nel libro di Shalamov si resta colpiti dal racconto che nei campi di concentramento sovietici, alcuni reclusi si scrivevano sulla fronte “schiavi di Krusciov”, scritta che ovviamente voleva essere letta, tant’è vero che quando gliela strappavano via, essi la ritatuavano, finché alla fine la pelle era tutta consumata e rimaneva talmente tesa che gli occhi restavano sbarrati per sempre.
Quest’idea del tatuaggio che va strappato perché è una specie di corpo-manifesto è una delle cose che mi ha maggiormente colpito nelle osservazioni degli antropologi. Da ciò deriva chiaramente che il tatuaggio non è solo un supporto di lettura esterno concluso ma è un luogo in cui qualcuno parla ed interroga.
Questo è il fenomeno, diciamo così, “ottocentesco”: è allora che si è costituito questo sapere marginale, questa parola che dice non volendo dire. Diverso è invece il problema del recupero attuale del tatuaggio. Alla base di questo fatto c’è a mio giudizio uno stupefacente fenomeno di cui anche Baudrillard ha parlato che è la perdita dei limiti del corpo, analoga, in un certo senso, alla perdita di forma della città. Perciò si possono analizzare i tatuaggi usando gli stessi parametri validi per analizzare i graffiti di New York. L’informe della città è il luogo dove l’iscrizione con la bombola ristabilisce un minimo di superficie d’iscrizione che divide, stabilisce delle differenze. L’idea di fondo comune che la scrittura lotta contro l’informe stabilendo delle zone di differenza e delle specificazioni mi sembra molto valida.
Il corpo prima era definito non tanto da un’economia – mangiare più o meno – quanto da un ritmo rituale. Il corpo non si sformava, salvo nella malattia, perché era tenuto dal ritmo del giorno, del lavoro, ecc. Lo stesso corpo informe e abnorme del pascià era in realtà un corpo simbolico che dimostrava l’enorme possibilità di consumo. Ora, in una società di consumo di massa, la trasformazione dei limiti del corpo è tale – com’è stato del resto espresso con molta lucidità – che il corpo non ha alcuna ragione di essere un corpo regolato. Al limite si potrebbe dire che tutti noi siamo persone potenzialmente grassissime, giacché dovremmo espanderci per il consumo di tutti i beni che ci vengono offerti. Noi siamo dunque costretti a cercare di ritrovare la norma che abbiamo perso, giacché abbiamo perso la norma oggettiva e ognuno sta tentando di trovare la norma soggettiva, mentre i mass media non fanno altro che consigliare massime sostitutive delle vecchie regole. Credo che accada la stessa cosa con la scrittura del corpo, con il tatuaggio moderno. Il tatuaggio moderno esce dalla logica della società segreta gerarchizzata, che espone i suoi limiti, esce dalla lotta del marginale che urta frontalmente contro il potere, per entrare a fare parte di un circuito di comunicazione in cui i segni si accumulano in una specie di vertigine assoluta e di assoluta reversibilità. Per cui il tatuaggio riapparirà circolarmente e scomparirà con lo stesso ritmo con cui accorceranno o si allungheranno le gonne.
Vi è però il problema della durata che è un’enorme interferenza in una società di accelerazione. Il suo carattere permanente sembrerebbe significare che c’è qualcosa che sfugge alla vertigine della moda, un residuo, un resto, un sogno, il sogno massimo di tornare alla regola. Il tatuaggio sarebbe, allora, la massima di moda che tende di più ad identificarsi con una regola, un gesto di simulazione estrema.
Vorrei a questo punto sottolineare che vi sono due tipi di segni: c’è il segno che affiora da dentro, come un eczema, e c’è invece il segno che viene applicato al corpo dall’esterno, qualcosa di superficiale, proprio nel senso che interessa soltanto la superficie, privo di significato, di alcun senso se non l’espressione di questa voglia normativa che mantiene però una differenza fondamentale rispetto al passato: anche allora si trattava di frasi fatte, ricorrenti e fissate in un codice, ma esse nella loro combinazione tentavano di raccontare una storia completa. Oggi queste frasi fatte non vengono più iscritte secondo una logica diciamo narrativa, ma si riducono, nella maggior parte dei casi, a puro oggetto di consumo. L’altra differenza importante è che in passato si trattava quasi sempre di casi di autotatuaggio o di casi in cui tatuato e tatuatore appartenevano a uno stesso gruppo. Oggi ci si fa tatuare dal professionista nello spazio della boutique, spazio aperto, consumabile, mentre prima il tatuaggio veniva praticato in una zona segreta, di solito nell’istituzione totale – nave, prigione, manicomio. E proprio questo faceva sì che esso si prestasse ad un sistema di svelamento. Nel tatuaggio moderno non c’è nessuno svelamento, tutto è già in qualche modo dato. Quindi il discorso istoriato diviene discorso stereotipato, dal punto di vista del contenuto interno del tatuaggio.
In questo senso è possibile stabilire un’analogia con quello che è accaduto nel campo dell’indagine della psiche. Il discorso psicanalitico, dopo aver tatuato l’inconscio, dopo averlo riconosciuto, svelato, si trova oggi di fronte al fenomeno per cui la stessa lettura operata e la costruzione del proprio edificio hanno contribuito alla sua cancellazione. In maniera un po’ estrema si potrebbe dire che oggi è necessario trapiantare l’inconscio, l’inconscio va ritatuato di nuovo sul soggetto con il suo linguaggio, le sue metafore, i suoi simboli. Forse l’inconscio non parla più, e ci vuole qualcuno che faccia di nuovo parola del brusio che percepiamo appena e sul quale tentiamo di tatuare di nuovo la faccia di Edipo.