Le colonne di Babele


Da: Alfapiù | Alfabeta2, giugno 2016.


1.

“Vedo le mura, gli archi e le colonne”
(G. Leopardi)

Il Colonnato fiorentino, poeticamente istoriato dal Nanni Balestrini, suscita piacere estetico e ricordi culturali.
Proprio a Firenze, Umberto Eco, amico di lungo corso di Balestrini, ha inziato la sua carriera accademica come professore di Decorazione nella Facoltà di Architettura, con un corso sulla Città come gioco di segni ed una ricerca di Semiotica della Colonna. A metà degli anni Sessanta, sotto l’influenza strutturalista di Roland Barthes, Eco si interrogava sul significato di quella comunicazione di massa che è l’architettura. Nel lessico degli elementi primi, costitutivi degli ordini classici, la Colonna gli era parsa la più esemplificativa del linguaggio architettonico, per la sua funzione denotativa -costruttiva, tettonica e quella connotativa – come segno sociale della sua funzione. Due caratteri non sempre in completa sintonia, due dinamiche non sempre in sinergia: la Colonna può diventare il significante di altri significati: essere un operatore di sostegno della trabeazione e/o un monumento isolato, gravato di simboli e conduttore di narrazioni,(v. le Colonne d’onore).
Nella ricerca sui sensi secondi della Colonna, Eco esitava ad attribuirle la distinzione tra codici sintattici e semantici: sapeva che per l’ordine classico l’altezza della colonna doveva essere multipla del suo diametro, che tra le colonna deve correre una distanza certa in relazione alla loro altezza, che tra la lesena e la colonna è d’obbligo un preciso rapporto e così via. Un codice culturale, ma era una proprio una sintassi? Ad Eco, come ad altri, sembrava impropria l’estensione strutturalista del modello linguistico ad altri sistemi di segni; negli scritti successivi il riferimento alla Colonna, all’architettura e allo strutturalismo è venuto prograssivamente meno. Per il versatile semiologo era tempo di passare ad altri giochi linguistici e giocattoli narrativi.

2.

“Le forme dell’architettura vengono determinate anzitutto dalla funzione costruttiva immediata di ogni parte”
(A. Schopenauer)

La metafora costruttiva – l’architettura ha una sintassi – potrebbe essere appropriata per il linguaggio – la Sintassi ha un’architettura . La Reggenza, sinonimo di costruzione, è una categoria alla base del pensiero linguistico: un controllo al confine tra morfologia e sintassi che verifica la disposizione e le connessioni degli elementi nei loro reciproci rapporti, liberi o necessari; non solo le concordanze, ma la gerarchia grammaticale tra i pieni e i vuoti. Reggenza e legamento: una categoria ne attiva obbligatoriamente un’altra: la subordinazione e la coordinazione fondano la costruzione proposizionale.
Poi tocca alla Retorica, in presa sulla sintassi, a costruire il discorso e il suo significato con le inferenze logiche e i tropi figurali.
C’è un isomorfismo profondo quindi tra i due linguaggi ,verbale e architetturale: la Colonna, fusto e capitello, senza obliterare la sua funzione costruttiva, può manifestarsi retoricamente con un fisionomia propria di materiali, forme, figure, citazioni e invenzioni. Fin dal periodo classico le colonne, come altre parti dei templi – muri o gradini – erano istoriate, coperte di scritture, incise o applicate. (Talvolta è possibile trovarvi rappresentata la pianta dell’intero edificio). E colorate: “Le lettere delle iscrizioni sarebbero state in pratica illeggibili, se non fossero state evidenziate con un colore. E il colore più adatto all’uopo era il rosso”(Rykwert).

3.

“La torre è una colonna abitata”
(P. Fabbri)

L’installazione grafica e cromatica di Nanni Balestrini si iscrive in questa tradizione molteplice, il cui esito inedito si rivolge ai nostri sensi e ai nostri pensieri. Una sequenza di Colonne di Babele che, a differenza della pittura, permette una visione d’insieme a distanza sia un percorso prossimo e avvolgente.
Le Nove Colonne di Balestrini sono un dispositivo singolare, tra l’affresco mobile e l’arazzo, in cui il linguaggio grafico e visivo ha come supporto quello dell’architettura e vi introduce un proprio “relativismo costruttivo”.
Le lettere che istoriano i pilastri di Balestrini contraddicono infatti i parametri canonici della scrittura, la quale sembra perdere la sua dipendenza dalla oralità per risolversi in una carneficina di occhielli e bastoncini, di corpi, caratteri e grazie. Nella forma regolare, dimensione uniforme, ordine, continuità della scrittura si introducono discontinuità, disordine,deformazione nell’altezza, ampiezza, taglia e spessore del carattere. Si sovvertono i rapporti tra vuoti e pieni, l’orientamento spaziale (alto-basso, destra-sinistra) dei corsivi, l’andamento della linea, la spaziatura tra le righe, la centralizzazione e la perifericità, la densità e la rarefazione del spazio, i contrasti tra staccato e legato, tra continuo e discontinuo.
Eppure a questo psicogramma alfabetico noi spettatori-lettori rispondiamo con un psicodramma semantico. Chi scrive tace invano. Leggiamo nonostante tutto: frughiamo i rivestimenti testuali della colonne per riconoscere parole occasionali: proviamo a ricostruire prefissiodi, conglomerati, parole-frase, parole macedonia, parole tamponate (ammaccate nella parte inziale o finale, come dicono certi linguisti). Cerchiamo di decodificare un balbettio di nomi propri o di firme.
Un’operazione di fissione semantica, l’anticipazione di inedite famiglie linguistiche che entrano nel nostro come un idioma straniero. Operazione poetica che è quella di Nanni Balestrini, se la poesia è la parola che dice quel che dice dicendolo e/ o che vede quel che vede vedendolo. Quello che vediamo infatti è un brusio ottico che rompe la metrica uniforme della scrittura e del colonnato: modifica il gruppo ritmico ricorsivo; suggerisce nuovi accenti di insistenza affettiva, intona un ritmo di improvvisazione e di jazz. (L’arte più vicina alla architettura è la musica!)
Con una variazione “nuovissima” e sempre più rilevante nell’attività artistica di Nanni Balestrini: la dimensione cromatica. L’uso alternato e pointilliste di tinte saturate incluse per lo più negli occhielli delle lettere, suggeriscono interpunzioni e interiezioni. Trasformano gli arazzi in tappeti verticali e invitano, con le loro simmetrie sfalsate, a trattarli come gli spartiti di una musica sperimentale.
Un’ultima considerazione: davanti alle sgargianti architetture contemporanee, generate da occhiuti affarismi e insediate da insensato esibizionismo, sia lode all’affresco di Firenze, effimero e mobile, ma durevole nello spazio della memoria.


Bibliografia

Umberto Eco, Le forme del contenuto, Bompiani, Milano, 1971.

— “Function and sign, the semiotics of architecture. A componential analysis of the architectural sign /column/”, in Geoffrey Broadbent, Richard Bunt, Charles Jencks (a cura di), Signs, symbols and architecture, Chichester-New York, Wiley, 1980.

Paolo Fabbri, “Eterografie di Nanni Balestrini”, Catalogo della mostra Parole da vedere, Galleria Di Maggio, Milano, 2006.

Joseph Rykwert, La colonna danzante, Libri Scheiwiller, Milano, 2010.

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