Cimelio, semioforo, valsente


Da: Catalogo della mostra Il Cinema con il cappello, Triennale di Milano, gennaio-aprile 2011.


Perché non raccontare le straordinarie avventure del cappello al cinema come si proponeva S. M. Eisenstein per il Cappotto di Gogol? Perché è arduo: i cappelli non sono solo copricapi ma accessori di scenografia, figure dell’iconologia filmica, lessico di motivi, segnali di genere, e circolano tra il mondi della finzione cinematografica e della vita quotidiana.

1. Il cimelio

Potremmo comunque cominciare da Federico Fellini che ha fatto del cappello un operatore elementale dell’aria e dell’acqua: dal copricapo da prete di A. Ekberg che vola dalla cupola di S. Pietro (La dolce vita) al tricorno di Casanova che turbina nella corrente del suo maldestro suicidio. A riprova di un biografema felliniano solo apparentemente insignificante: “Nel mio arrivo a Roma dunque il cinema c’entrava in qualche modo: avevo visto tanti film americani in cui i giornalisti erano personaggi affascinanti. (…) decisi di diventare giornalista anch’io. Mi piacevano i loro soprabiti, e il modo come portavano il cappello, buttato all’indietro” (Fare un film, :43).
Fellini ha collocato due cappelli prototipi sul capo di Gelsomina (La strada) e di Mastroianni (Otto e mezzo).
La Masina portava la bombetta asessuata del clown, quella che frequenta i quadri surrealisti di Magritte – ma Fellini gli preferiva Delveaux – e soprattutto i film di quel “gatto felice” che è Charlie Chaplin. Il bowler di Charlot, accoppiato al sempiterno bastoncino di canna, era molto alto di calotta a salvaguardia della dignità del personaggio che smentivano, all’altra estremità del corpo, le scarpe scalcagnate. Un cappello, quello del Vagabondo – messo in mostra come un cimelio ad un pubblico americano incantato, prima di partire per Londra per essere venduto a caro prezzo al pubblico incanto.
Il cappello nero di Fellini, il quale portava anche il “bordatino”, è entrato invece a far parte del testo filmico sul capo di Mastroianni, associato alla frusta del domatore di femmine. Sappiamo che dopo la trionfale proiezione newyorkese di Otto e mezzo (giugno ’63)- mentre le critiche colte scrivevano di “fiasco” e di “disastro strutturale” – un’azienda americana chiese di avviarne la produzione industriale. Si tratta di un borsalino come quello della memorabile fotografia di Man Ray (Hat, 1933) – grande ritrattista di cappelli – e come quello di Indiana Jones. Associato anch’esso ad una frusta. quello di Harrison Ford è un Fedora di cuoio del genere country comprato con Spielberg nel negozio londinese H. J. Hatters. Pizzicottato dalle due parti, incavato per tutta la sua lunghezza sotto la corona, questo mitico Tribly idrorepellente e di colore sablé, risale al 1890 e pare si chiamasse “il poeta”. Quello di Indy o più propriamente di Harry Walton Jones jr., è stato modificato abbassando la tesa anteriore, rialzando la calotta e riducendo la fascia per connotare “esploratore”. Nell’ultimo film Il regno del teschio di cristallo, Indy rischia di perderlo e lo recupera fortunosamente, segnalando tra l’altro agli spettatori e potenziali clienti il valore dell’indumento, la cui versione ufficiale è acquistabile per 100 dollari da Think Gees, emporio per smart masses! il cappello di cuoio di questo strano esploratore che non riesce mai a riportare un solo oggetto intatto in un museo, entra a far parte del lessico dei motivi d’un altro genere cinematografico, quello della cappa e della spada, sostituite appunto dalla frusta e dal cappello.

2. Il semioforo

All’ombra del suo Stetson, J. Ford ebbe a dire: “Un uomo si riconosce dal cappello che porta”. In piena sintonia con Balzac per cui di un uomo “la sola storia geroglifica del suo cappello a condizione di saperlo decifrare, potrà dirci allegoricamente ogni cosa”. Una operazione semiotica che alle funzioni denotative di copertura e protezione assomma quelle del suo significato: il cappello esemplifica i tratti di status di chi lo indossa, connota la sua singolarità nel porto e nell’uso ma è anche parte di un dispositivo espressivo di relazioni interattive. Poiché l’abito fa il monaco – in questo caso sarebbe un cappuccio!- ed entra in tutte le alchimie identitarie dei caratteri individuali e collettivi, il copricapo diventa segno della sua funzione: un rompicapo semantico e sociale.
Come protesi del capo, prolungamento verticale dell’estremità del corpo, il cappello è segno di valore e dignità – onore del capo come la barba è onor del mento e il baffo del labbro. Portatore di senso e quindi di direzione, il cappello è semioforo, chiede rispetto e segnala una volontà e un progetto; a cui si può rinunciare, come recita il detto “attaccare il cappello al chiodo” quando qualcuno di belle speranze si accasa in un rapporto benestante.
È quindi un significante gerarchico – come il cappello borghese contro la coppola contadina o la berretta popolare – che partecipa a tutti i procedimenti di stima e di disistima. Si offrono infatti cappelli onorifici – quello cardinalizio per antonomasia- o si impongono berrette e calotte di disonore – come agli asini, agli eretici o ai falliti.
Per questa pregnanza comunicativa l’uso del cappello è sottoposto a tutte le variazioni retoriche: dall’enfasi della tuba (come i top hat espressionisti del dott. Mabuse) alla preterizione- ci sono tempi luoghi e persone in cui è doveroso toglierselo. “I cappelli crescono con le teste che li portano” (Shakespeare): il cappello può venir lanciato in aria per prolungarne la verticalità o calpestato nella polvere e nella rabbia, rovesciato per chiedere l’elemosina oppure oltraggiato in piccoli auto da fè, come fanno i clown che i cappelli se li scambiano, vi cucinano vi si siedono e via ridendo.
(“Bario: Facevamo l’entrata del dolce nel cappello: molto, molto comica “, Sceneggiatura modificata de I clowns di Fellini).
Per la sua disponibilità all’esagerazione fisiognomica – come accade nelle caricature capolavoro di Daumier – il copricapo si presta all’uso carnevalesco, alle alterazione d’identità in ogni genere di travestismo: come lo scambio tra i sessi dei rispettivi cappelli. Oppure alla definitiva neutralizzazione, come nell’attuale moda del capo scoperto, un segno – come il “tu” generalizzato – di raggiunta parità democratica, fin dagli anni venti del secolo scorso. La testa nuda è il grado zero del cappello, un non luogo che lascia immaginare che il sinsombrerista – com’era Bunuel – sia appesantito da ciò che gli manca. Era il pensiero o il gesto dei futuristi che nel loro “Manifesto del cappello italiano” additavano nella decadenza del cappello un danno “all’estetica maschile, amputando le sagome e sostituendo alla parte avulsa la cretinissima selvaggeria delle zazzere”.
La perdita del cappello ha coinvolto tutta una panoplia di gesti e di posture, ha reso irriconoscibili fogge e modi di assestarlo, portarlo e spostarlo. Il cinema ne sfrutta ancora la potenzialità espressive e interpretative – l’imbarazzo del cappello girato tra le mani, strizzato nell’angoscia e nella rabbia, la destrezza o la goffaggine. Come dimenticare il lancio preciso con cui James Bond irrompe negli uffici ingessati dello spionaggio inglese o il suo scontro col capello ferrato scagliato da un killer orientale?
Nel testo filmico, composto di frames, troviamo il cappello usato soprattutto per la sua valenza di inquadratura interna o delegata del viso: come focalizzatore delle fattezze, creatore di “senso ottuso” (Barthes). Cosa sarebbe altrimenti lo sguardo di Totò “sotto l’ala della bombetta, due occhi allucinati, dolcissimi, da rondone, da ectoplasma, da bambino centenario, da angelo pazzo” (Fare Film, :126)? Eppure il cappello, che mostra e distingue, può con la manipolazione delle falde – visiera o celata – diventare una controfigura o una maschera per i caratteri del viso. Ecco perchè il cinema ha specializzato il borsalino nel Noir, mentre nel Western il messicano veglia sotto il sombrero abbassato: il cappello diventa allora il segno chiave di un format, un indice di genere.

3. Il valsente

La perdita del cappello e della sua retorica espressiva coincide inoltre con quella della maniere cortesi, con lo sgrammaticarsi della interazione distinta, il cui incanto era troppo labile per resistere all’omogeneizzazione della società di massa. Calzare e cavarsi il cappello è stata parte saliente delle arti decorative del savoir faire. La scappellata era un far valere l’interlocutore – amico o antagonista – a discapito di noi stessi. Enfatica fino all’inchino rasoterra o litotica nel lieve tocco della tesa, era un segno reversibile e una domanda di reciprocità: un valsente e un’icona conversazionale.
Se nel cinema comico è ferro del mestiere del clown, utensile di dileggio e riso, il gioco di cappello può diventare nel melodramma uno strumento di precisione per la commozione e le lacrime. Il melo’ infatti è un luogo superlativo del valore di cui il cappello può intensificare o attenuare le posture.
Per questo resiste agli acidi della mia memoria l’episodio conclusivo di Qualcuno verrà, Some came running, (1958) di Vincente Minnelli, commedia drammatica con F. Sinatra e Martha Hyer che narra di uno scrittore deluso, frequentatore di giocatori e prostitute. Una di queste (Shirley MacLane, alias Ginnie Moorehead) innamorata di lui, lo salva dall’arma un geloso, ma a prezzo della propria vita. Durante il funerale, un giocatore incallito (D. Martin, alias Bama Dillert) le offre un estremo omaggio di riconoscenza per l’amico salvato e di riconoscimento del suo sacrificio. Si toglie tacitamente il cappello, un gesto che ha rifiutato nel corso di tutta la narrazione. Anche battendosi a mani nude contro gli altri giocatori che vi hanno colto un’affermazione di superiorità e vogliono obbligalo a scoprirsi. Con l’aiuto di una lunga panoramica colorata e la musica di Bernstein, il gesto di “cavarsi il cappello” incallito mette a nudo sia il capo che il procedimento infallibile del melo’. Noi continuiamo a commuoverci, perché solo sulle regole serenamente accettate dell’ immaginazione versiamo le nostre lacrime.

Remember

Gregory Corso celebrava la scomparsa terrena e la permanenza filmica di Errol Flynn con questo verso: “l’ombra spadaccina che danzava sul muro”. Siamo certi che pensava anche alle tese, larghe come vele, del cappello da pirata di Capitan Blood.


Bibliografia

P. Fabbri, “Sobre plumas y sombreros”, Minerva, Circulo de Bellas artes, Madrid, n. 14, 2010.

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