Bill Viola, Ocean Without a Shore


Da: L’archivio del senso, Quaderni della biennale, Milano, Edizioni et al., n. 1, 2009, pp. 27-47.


per Alexa e Sandrine

Intuisco una verità: ai morti le faccende, le storie, le idee, i sentimenti, tutto ciò che noi vivi facciamo, soffriamo, crediamo appare loro come qualcosa di assurdamente illogico, incomprensibile, astrazione pura, follia di indecifrabili fantasmi. (sogno del 20 gennaio 1966)

F. Fellini, Il libro dei sogni (2008)

Ocean Without a Shore è un’installazione di Bill Viola allestita nella chiesa di San Gallo, vicino San Marco, il cui curatore è David Anfam. A prima vista, è l’opera più facile da descrivere che uno spettatore possa immaginare: un personaggio in bianco e nero appare in fondo a un riquadro, una specie di porta; avanza verso di noi e a un certo punto viene investito da uno scroscio d’acqua; allora passa cromaticamente dal grigio a un colore dalle tinte altamente definite; guarda verso il nostro spazio e poi, dopo una pausa, si gira, riattraversa la cortina fragorosa d’acqua e sparisce di nuovo nel fondo grigio. Questa operazione si ripete parecchie volte, con ventiquattro attori, tra cui lo stesso Bill Viola e sua moglie. Il fondo grigio si materializza lentamente; la cortina d’acqua, fragorosa, bagna e inonda i personaggi, che affiorano in uno spazio nel quale assumono forma e colore nostri. Uno, in particolare, dopo essersi girato per rientrare nel luogo di provenienza, si volta ancora a guardarci. È una delle poche varianti rilevabili.

IL SITO

Bill Viola, Ocean Without a ShoreLa chiesa di San Gallo ha tre altari, uno a sinistra, uno a destra e uno di fronte a noi, e le figure, inquadrate nello spazio dove prima stavano le pale dipinte, danno vita a un trittico (tavola 5). La presenza di questo formato è da sottolineare in Viola. Da sinistra, da destra e dal centro, i personaggi si muovono verso di noi e costituiscono, come a teatro, la scatola aperta in direzione dello spettatore. Torneremo su questa idea, anche perché la relazione pala/tela è cruciale: lo stesso Viola, in più di un’occasione, ha insistito sul fatto che le sue costruzioni sono affreschi mobili, ipotesi legata a una sua prima riflessione sulla problematica del medium espressivo. Trattandosi di una quinta liturgica e insieme scenica non è errato affermare che l’opera ha una sua drammaturgia, un modo di restituire profondità sacramentale e teatrale a tecnologie che sembrano averla definitivamente perduta. Si riscontra una dimensione “traumaturgica” e taumaturgica che va evidenziata e che riguarda, come sostiene Viola (1995), tanto la sfera visiva quanto quella musicale.

PIANO DELL’ESPRESSIONE

Da semiologo, comincerò l’analisi distinguendo, nell’installazione, un piano dell’espressione e un piano del contenuto. In termini di sostanza espressiva, Ocean Without a Shore mostra il ruolo decisivo della componente tecnologica. Ne tralascerò la definizione strumentale – sulla quale Viola ha a lungo lavorato – e mi soffermerò sulla sua tesi secondo cui le tecnologie contemporanee danno tempo al tempo. La pittura e la fotografi a erano arti di un altro ordine: dovevano lottare per riprodurre il tempo. L’arte contemporanea, come il video e il cinema, è invece necessariamente arte del tempo. Mentre il cinema opera per fotogrammi immobili con cui poi deve montare il movimento, nella “(v) ideologia” di Viola si parte dal movimento. E questo spiega la relazione con la musica. Per Viola, il modello di registrazione dell’immagine è la registrazione musicale: entrambe obbediscono allo stesso principio tecnico. Tale affermazione lo aiuta nella rilettura dei media precedenti. Pur considerandosi erede di una grande tradizione artistica, occidentale e orientale, Viola ritiene che pittura, fotografi a e cinema vadano ripensati attraverso il video. La categoria del tempo, inscritta nel medium, non gli sembra sia stata sufficientemente pensata.
Bill Viola, Production stillSempre nell’ambito delle sostanze espressive, un altro problema sollevato da Ocean Without a Shore riguarda l’impiego dell’acqua e della luce, e precisamente il carattere rivelatore della cortina, dello schermo d’acqua. Il suo attraversamento è la condizione per passare dall’incolore alla cromaticità, con una lenta animazione. L’uso congiunto di acqua e luce dà forma all’opposizione tra diafano e perspicuo. Chiameremo diafanità il tono dell’atmosfera in cui le figure vengono lentamente a precisarsi; c’è nell’opera una trasparenza che si dà come trans-apparenza, un’indiscernibilità che si rende progressivamente distinta, un passaggio “catastrofico” dalla diafanità all’epifania (tavola 6). Ci interessa qui approfondirne i dispositivi.
Per farlo, bisognerà rifarsi e riferirsi a un’antica tradizione della nostra cultura: in Sull’anima di Aristotele, a partire dalla potenza che è oscura, l’atto si realizza con l’ingresso nella luce. Inoltre, la differenza tra diafano e perspicuo permette di rendere conto di effetti sensoriali, come il colore e l’incolore, e di pensare al cromatismo non come stato, ma come processo: al colorire, allo scolorire e al trascolorare. Nel Medioevo latino il de-scolorire rispondeva alla questione delle “parvenze”: l’immaginario fantasmatico (cfr. Stoichita e Coderch, 2002) faceva ricorso al trascolorare come modalità non dell’apparenza, ma dell’apparizione. Il concetto di diafanità, cruciale in Aristotele, diventa in Viola uno degli agenti più importanti della visione, un fattore di discontinuità dell’immagine: questa emerge per essere infranta – colorita ma fradicia – e per dare poi adito all’epifania, la quale si configura nel momento “catastrofico” dell’apparire nella presenza. Potremmo adoperare il termine greco parousia, che è il darsi appunto dell’essere nella presenza. Vi domanderete se vale la pena astrarsi tanto dall’opera: risponderò citando Merleau-Ponty, secondo cui ogni opera è anche una filosofi a del proprio medium, un’immagine che pensa e riflette all’immagine.
Bill Viola, Digital grabQuando affermiamo che l’acqua è un operatore di rivelazione, non facciamo riferimento all’acqua in generale, perché ci sono tanti e differenti tipi di acqua, dormienti o violente, superficiali o profonde (Bachelard, 1987). Nel caso di Viola l’attante “acqua” si definisce soltanto in relazione all’attante “fuoco”. In un’opera che ha contribuito a rendere celebre l’artista (The Crossing, 1996), si vedono due pannelli, uno accanto all’altro: nel primo un uomo avanza e l’acqua lo travolge progressivamente con enorme fragore; nel secondo è sempre lo stesso uomo ad avanzare e il fuoco lo lambisce e poi lo divora. È un’opposizione spaziale fondamentale, perché il fuoco brucia dal basso verso l’alto, mentre l’acqua scende dall’alto verso il basso. Qui, come in Ocean Without a Shore, l’acqua non sgorga, ma piove, scroscia: è una figura sintattica di Destinante celeste, implicito, segno zero di cui il personaggio si trova a essere destinatario. Lo scroscio scorre improvviso dal cielo come rivelatore di un venire e di un avvenire. Le figure apparse nella modalità dell’emergenza scompaiono poi nella “sommergenza”, inondate da un fiotto verticale (tavola 7). Troverete conferma di questa ipotesi nel metodo differenziale, caratteristico della semiotica, esaminando cioè un altro modo con cui Viola dà senso all’acqua. In The Reflecting Pool (1977- 1979) un personaggio sta in piedi davanti a una piscina e registra in tempo diretto i riflessi dell’acqua. L’artista qui cita Merleau-Ponty (1989), un classico della storia della filosofi a dell’immagine, il famoso esempio del “dov’è la luce della piscina?”. Per Merleau-Ponty la piscina è dappertutto: nella luce in superficie, negli alberi circostanti. La carne trasparente dell’acqua è lì anche dove manca, dove la trasparenza fa sì che non la scorgiamo. Viola utilizza l’acqua fenomenica della piscina dandole forma e fa affondare le figure in essa, “come per acqua cupa cosa grave” (Dante).
Bill Viola, Disegno preparatorioL’acqua di Viola ha una fortissima valenza acustica, un dis-accordo dominante in tutta quest’opera. Oltre alla sua dichiarazione di registrare immagini come si registra musica, occorre ricordare che Viola ha lavorato con molti musicisti, animato immagini per John Cage e Edgard Varèse, messo in scena Wagner con Peter Sellars. Tuttavia, per la descrizione dei suoni e del rumore di Ocean Without a Shore, la nostra terminologia usuale è forse insufficiente. La vecchia iconologia ci indurrebbe a interrogare il significato dell’acqua in sé. Qui, però, non si è in presenza della sostanza acqua, ma del suo fiotto, del suo scroscio, non diverso dallo scroscio del fuoco. Non si tratta quindi dell’acqua e del fuoco come elementi simbolici o motivi narrativi, ma del loro fragore, che travolge le figure come una sincope. C’è un velo, visibile anche in uno dei disegni preparatori (tavola 8), che separa il mondo grigio del diafano dal mondo epifanico del colore. È un velo d’acqua, sfondato dalle figure nel loro attraversamento e che si offre come scroscio, come fiotto. Non somiglia al liquido dormiente della piscina, ha tutto l’aspetto di un’acqua “ardente“, illuminante, che non risponde a un senso codificato. Il significato si ricava dall’opera, non dalla somma iconologica delle sue componenti; si evita così di assegnarle un valore simbolico predeterminato e di perdere di vista gli aspetti semantici definiti dalla sua posizione narrativa. Analogamente, se torniamo a The Crossing, ci troviamo in presenza non di un universale fuoco, ma della vampa, che è lo scroscio del fuoco, tanto nella forma e nel colore quanto nel suono e nel fragore.
Bill Viola, Ocean Without a ShoreBill Viola, Ocean Without a ShoreSuono con valore di rivelazione: rottura ritmica introdotta dal personaggio che, attraverso la cortina, emerge dal fondo indistinto verso di noi e provoca l’improvviso fragore. La discontinuità temporale segnala questa omologia tra immagine e suono, tecnicamente confermata dalla simultaneità della loro registrazione. Ciò permette di articolare altri fenomeni espressivi, come il fading: in The Crossing c’è un fading del visibile come c’è un fading del rumore; e l’immagine svanisce come svanisce il suono. Da questo punto di vista, anche il va e vieni dei personaggi prende un ritmo particolare, che è quello del ritornello, nel senso forte della parola: ritornano figure che di nuovo se ne vanno (tavole 9a e 9b). In definitiva, tanto a livello dell’apparenza dell’immagine quanto a livello del suono, riscontriamo caratteristiche ritmiche o forse “prosodiche”. Mediante trasformazioni cromatiche, morfologiche e sonore si manifesta una violenta discontinuità, una scansione improvvisa e sincopata concomitante alla fase dell’attraversamento.

IL PIANO DEL CONTENUTO

Passando dal piano del significante a quello del significato, mi servirò della poesia che Viola utilizza come intertesto al suo video. Il componimento dell’autore senegalese Birago Diop è stato letto dall’artista all’inaugurazione della mostra, il cui titolo peraltro rinvia a “The Self is an Ocean without a shore. Gazing upon it has no / beginning or end, in this world and the next” di Ibn Arabi (1165-1240). Mi limiterò qui a segnalare alcuni concetti, nei quali è facile, del resto, riscontrare motivi tipici dell’universo del discorso dell’artista.

Écoute plus souvent
Les Choses que les Êtres
La Voix du Feu s’entend,
Entends la Voix de l’Eau.
Écoute dans le Vent
Le Buisson en sanglots:
C’est le Souffle des Ancêtres.

Ceux qui sont morts ne sont jamais partis:
Ils sont dans l’Ombre qui s’éclaire
Et dans l’Ombre qui s’épaissit.
Les Morts ne sont pas sous la Terre:
Ils sont dans l’Arbre qui frémit,
Ils sont dans le Bois qui gémit,
Ils sont dans l’Eau qui coule,
Ils sont dans l’Eau qui dort,
Ils sont dans la Case, ils sont dans la Foule:
Les Morts ne sont pas morts. […]

Ceux qui sont morts ne sont jamais partis:
Ils sont dans le Sein de la Femme,
Ils sont dans l’Enfant qui vagit
Et dans le Tison qui s’enflamme.
Les Morts ne sont pas sous la Terre:
Ils sont dans le Feu qui s’éteint,
Ils sont dans les Herbes qui pleurent,
Ils sont dans le Rocher qui geint,
Ils sont dans la Forêt, ils sont dans la Demeure,
Les Morts ne sont pas morts. […]1
(da Souffle, 1947)

L’esordio dei primi cinque versi è indicativo: “senti la voce del fuoco / la voce dell’acqua”, e subito dopo “ascolta nel vento il cespuglio in singhiozzi: / è il respiro degli avi”. Nelle strofe che costituiscono la prima parte, alcune ripetizioni consolidano il senso: “i morti non sono mai partiti”, “i morti non sono morti”. Il ritornello prosodico insiste sull’isotopia categoriale della morte e della vita, attraverso la negazione della vita. Nella seconda parte, invece, si tematizza l’acqua e nella terza il contrasto tra acqua e fuoco, operatori dominanti della rivelazione. Ma rivelatori di che cosa? La poesia, infine, lo spiega: della grande opposizione antropologica ed esistenziale tra vivi e morti. Centrale, in Viola, è la non morte dei morti. I morti non sono morti e non stanno in un distante Altrove; ci sono prossimi, ma abitano il diafano. Come figli o genitori prodighi, sono suscettibili, pronti o incerti, di tornare attraverso una liquida iniziazione di acqua e fuoco, intrisi di luce, suono e colore. È questa la struttura semantica elementare dell’opera dell’artista, il quale poi anima l’opposizione in un alternarsi di azioni e passioni.
Per Viola, non c’è un luogo dei morti che non sia fra noi. I morti sono virtualmente vivi – un’idea forte a livello antropologico. Nella nostra cultura lo sono in modo particolare, se pensiamo, per esempio, al Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie (1824) di Giacomo Leopardi, a Museo del romanzo della Eterna (1992) di Macedonio Fernández o a molti altri autori ispirati da Schopenhauer. Ricordo qui che il filosofo tedesco, nel suo straordinario Saggio sulla visione degli spiriti (1851), ci narra della sopravvivenza della volontà al morire: i corpi spariscono, ma possono riapparire perché il volere, che è sopravvissuto, si manifesta come fantasma. Una “fenomenologia degli spiriti” – direbbe Jacques Derrida – che ritroveremo poi in Savinio, in de Chirico e nei surrealisti. Lo spettro non è solo quel visibile invisibile che io posso vedere, ma è qualcuno che mi guarda senza possibile reciprocità. Non posso vedere l’occhio dell’altro come vedente e come visibile (Derrida, 1994).
Bill Viola, Production stillAnche in Viola siamo tra fantasmi: i morti ci riappaiono perché sopravvivono nel diafano con una virtualità potenziale. Ocean Without a Shore è il prendere corpo dei fantasmi. Quando dico fantasma intendo l’emergere e l’immergersi prima descritti in termini di significante e a cui ora attribuiamo un piano di significato. Una trasformazione esistenziale dove la non morte diventa vita virtuale, suscettibile di riprendere una vita attuale; da muta, incorporea, incolore, riprende il soma, il suono e i colori (tavola 10). Il fantasma è il luogo intermedio fra un corpo non ancora epifanico, ma già non più diafanico; i ritorni nello spazio della non morte compiono il percorso inverso allo spazio incolore della diafania.
La struttura attoriale di questi corpi è molto semplice. I personaggi, uomini e donne di età diverse, indossano abiti del quotidiano, si materializzano nel grigio e, con qualche esitazione, avanzano guardandoci. Poi si voltano e se ne vanno. Ricordiamoci che andare e venire sono verbi di movimento che implicano la presenza di un osservatore. “Venire” significa che si è in uno spazio in cui qualcuno arriva; “andarsene” vuol dire che si è in uno spazio in cui l’altro se ne va (Fontanille, 2001). Tutte queste figure abitano in compresenza con il mondo dello spettatore. I personaggi sono mobili e, come nella prospettiva legittima, c’è un punto di vista fisso, che è il nostro, verso cui si muovono. Dalla virtualità, attraversando questo momento fantasmatico, entrano in contatto “reale” con noi e ci fronteggiano nello spazio – religioso e/o teatrale – dove ci collocano e dal quale rispondiamo ai loro sguardi. Poi spariscono.
Una modifica tecnica nella storia della rappresentazione che avrebbe interessato il Gombrich di Arte e Illusione: pale d’altare in cui le figure svaniscono!
Soffermiamoci sul programma narrativo di questi soggetti-fantasma. C’è un momento preliminare, una prova qualificante, che è quella in cui le figure appaiono sullo sfondo; c’è la prova principale, che in semiotica chiamiamo topica, la traversata, corrispondente alla loro emergenza; e la prova definitiva, finale, quando le figure ci fissano.
Bill Viola, Digital grabQui accade qualcosa di singolare, che chiama in causa, per la sua descrizione, una terminologia più sofisticata. Per Schopenhauer – come per Savinio – l’emergenza del fantasma è una chiaroveggenza, una visione che, emergendo dalla prova “topica”, si precisa gradualmente. Definisce una maniera di guardare che è evocazione-invocazione. Per Viola i fantasmi si evocano (tavola 11) e la nostra presenza è un’invocazione. La vita è invocazione di fantasmi, costantemente minacciata dalla loro sparizione.
Affrontiamo adesso il problema fondamentale: che cosa accade nella traversata dell’acqua, nella prova principale? Come mai i personaggi, dopo aver varcato il nostro spazio, si girano e se ne vanno, alcuni più sicuri, altri tornando a voltarsi ancora una volta?
In semiotica si distingue la trasformazione cognitiva – che cosa apprendono e sanno gli attori – dalla trasformazione passionale – che cosa li tocca, muove e commuove.
1) Trasformazione cognitiva: il personaggio si scopre improvvisamente non più nel fuori, mondo dei fantasmi, ma nello spazio fenomenico della nostra presenza; passa dal virtuale all’attuale e coabita in uno spazio del colore, ad alta risoluzione. Ci guarda e ci (ri)conosce, e scopre che noi sappiamo di lui; c’è un conoscerci (dimensione transitiva) e c’è un conoscersi (dimensione riflessiva). Si potrebbe utilmente applicare al video di Viola la concezione di Gilles Deleuze (1984) quando oppone il cinema che introduce la modalità del sogno nella veglia a quello che, viceversa, introduce la veglia nel sogno; da un lato, un trattamento realista del sogno e, dall’altro, un trattamento onirico nel reale. Nell'”oceano senza sponde” i due principi si fondono: le cose sono insieme ad altissima definizione e indefinite, appaiono per scomparire. Nota bene: del sogno trattengo soltanto la nozione di Lotman (1993), il quale lo considerava il padre dei processi semiotici perché, a differenza del linguaggio, che comporta sempre il proprio senso, l’attività onirica è il luogo in cui tentiamo sempre di interpretare, quindi il modello di ogni possibile interpretazione.
2) Veniamo ora alle trasformazioni passionali. È nota la partecipazione di Viola al seminario sulle passioni del Getty Research Institute for the History of Art and the Humanities di Los Angeles (1997- 1998), documentato dal volume Representing the Passions (2003). Molti teorici dell’arte hanno riflettuto su questo tema a partire dalle immagini di Viola, che ha contribuito agli avanzamenti della ricerca.
Nella sua arte i semiologi si trovano a loro agio e trovano negli scritti dell’artista sulle forze rivelatrici (dell’acqua, del fuoco) tratti emblematici della dimensione patemica. Presupposto fondamentale, però, è che le passioni non siano stati d’animo, ma processi dell’articolazione del corpo e della mente. Le figure del video, una volta giunte nel nostro spazio, passano infatti da un interesse estremo, da una grande curiosità, dalla voglia di conoscere, a una definitiva delusione, a un voler non sapere.
Bill Viola, Digital grabQui va approfondito il motivo schopenhaueriano della sopravvivenza di un volere che s’incarna. Da una parte le figure sono altamente motivate: hanno superato una dura prova fisica; investite con molta violenza dall’acqua, hanno gli abiti e i capelli incollati, sono ignude (cfr. tavola 9a). L’acqua, attore Destinante, rivela la loro nudità, non soltanto metaforica. Il corpo non morto torna in questo mondo nella sua nudità. Dunque, una forte motivazione causa la successiva delusione, poi la frustrazione; all’inverso, la negazione della frustrazione porta all’illusione e quindi alla nuova motivazione. L’iconologia di Viola, fisiognomica e passionale, è giocata sull’isotopia patemica della sfiducia, sulla rottura di un contratto di veridizione e di empatia. L’artista ci parla di desolazione; i personaggi sembrano “dispiaciuti”, alcuni letteralmente abbattuti, scorati (tavola 12). Arrivano fiduciosi, carichi di speranza, decisi anche, ma il mondo non è pronto ad accoglierli, non li nota, vuole o merita. Queste fasi di motivazione e di frustrazione sono determinate, implicano un sapere, amaro, intriso di delusione; al contrario, il momento intermedio dell’esitazione, tra illusione (tavola 13) e delusione, rende gli attori di Ocean Without a Shore frastornati e confusi, ignari, tanto da tornare a “ri-volgersi” verso il mondo degli umani che si sta lasciando. Il personaggio già citato si volta anche quando è rientrato nel diafano: sembra continui a credere anche quando non c’è più niente da sperare (cfr. tavola 9b). A dispetto del modernismo, che aveva cancellato i volti e prodotto solo manichini, nella videologia torna la fisiognomica; non gli stati, ma i moti delle passioni, le trasformazioni in cui consistono. Poiché una delle componenti essenziali della passione è il tempo – il futuro per la speranza o la curiosità, il passato per la delusione e la nostalgia – l’entrata del tempo nella videologia porta con sé, nell’azione, le passioni e la loro fisiognomica.
Bill Viola, Digital grabChe cosa significano dunque i volti, il voltarsi e il rivolgersi dei nostri personaggi? Ricordiamo El Desdichado (1854) di Nerval: “J’ai deux fois […] traversé l’Achéron”. Viola ha un’idea classica del luogo dove soggiornano i non più vivi. Come l’Ade greca, cinta dal fiume Acheronte coi suoi rami, Cocito – d’acqua – e Flegetonte – di fuoco – il suo Erebo è un luogo incolore, separato dal nostro mondo da liquide correnti d’acqua e di fiamma. Lo spazio sospeso dei suoi “morti” è incolore, senza orientamento e senza tempo: attraversare quelle acque e quelle fiamme significa perdere ogni memoria del nostro mondo. I personaggi di Viola hanno già varcato il Lete, il fiume dell’Oblio. Sospinti o chiamati, giungono a noi attraversando l’acqua letale per negare l’oblio e ritrovare l’A-leteia, la verità, ricordo del mondo che hanno lasciato o che li ha lasciati. Ma la limpida Verità si rivela subito così grama e insostenibile da guardare che i morti preferiranno riguadare l’acqua amara e densa del Lete.
Singolare universo quello di Viola. C’è, da un lato, l’eteronomia della morte; la morte viene, è sempre data; dall’altro, se si nega la morte, diventa possibile l’autonomia della scelta di tornare in quella virtualità di vita che solo noi vivi chiamiamo morte.
Consideriamo quindi la questione del memento mori. La morte è un appuntamento, ma anche un modo di svelamento. Il semplice impianto di Viola è un tentativo di disoccultare la morte e conferirle un’autonomia di scelta. I suoi personaggi compiono, riattraversando il fiume, un’iniziazione, una purificazione alla rovescia: apparente e spettacolare suicidio collettivo, e un ritorno alla virtualità.
Un ultimo punto, che è un punctum (Barthes, 2003): Viola usa molto la parola tormento. Che cos’è il tormento? Né la semiotica né la psicologia cognitiva hanno affrontato direttamente la questione. Nella passione della gelosia il problema non è capire che l’altro non ci ama più – quella è frustrazione – ma il “tormento” di pensare che forse ciò non è ancora del tutto vero. C’è una componente di speranza nel tormento.
Allora, come mai, quando guardiamo queste figure pronte a raggiungerci, ma anche ad andarsene nella delusione, capiamo che vorrebbero ancora e comunque tornare? Che cosa vuol dire “estremo dolore avvelenato da una veste di speranza?” (Viola, 1995). Nel revival della riflessione dell’arte sulle passioni, con mezzi nuovi, siamo obbligati a comprendere. “Esprimi il tuo sentimento se per caso, tornando nel mondo, dovessi essere deluso” sembra dire Viola ai suoi attori.
Tutto il divenire che segue al momento epifanico sta nella trasformazione passionale, che insegna di nuovo, alla cultura occidentale, qualcosa del linguaggio segreto, ma non del tutto indecifrabile, delle passioni.

INTERVENTI DEL PUBBLICO

VALERIA BURGIO – Un’osservazione di tipo intertestuale: qualche mese fa ho visto esposto, al MAMbo, un video in cui Bill Viola mette in movimento la Resurrezione [Emergence, 2002, N.d.C.]. La Madonna e un astante sono in attesa. Cristo sorge dal sepolcro, travolto dall’acqua, si accascia bagnato e i due si prendono cura di lui. Con un salto temporale all’indietro, la Resurrezione diventa Pietà. Mi chiedo se non esista una connessione tra quell’opera e Ocean Without a Shore, dove forse il posto degli astanti è rivestito dai visitatori stessi. Nella Pietà, le figure che escono dall’acqua sembrano cogliere un vuoto, guardano attraverso, al di là dello spettatore. Anche lì c’è una modulazione passionale precisa, un passaggio dalla curiosità alla delusione, ma in quei momenti arriva anche la paura, come se la curiosità diventasse uno sgranare gli occhi che esprime il timore di ciò che si vede. Non so, forse sto misinterpretando, ma è come se lì si creasse un vuoto…

PAOLO FABBRI – Sono convinto che sia così. In entrambi i casi è cruciale l’idea del “prendersi cura” di chi torna. L’ultima frase della Santa Giovanna (1923) di George Bernard Shaw recita più o meno così: “O Dio creatore di questa stupenda terra, dimmi, quando mai sarà pronta per ricevere i tuoi santi? Quando, mio Signore, quando?”. Dei revenant, invece, bisognerebbe prendersi cura. In questi casi, generalizzando, direi che, quando pensiamo in termini fisiognomici, non pensiamo alla psicologia dei personaggi. La semiotica non riflette sulle psicologie “reali”, ma sull’immaginario. Su questo, dice Puškin, versiamo le nostre sentite lacrime. Un immaginario collettivo, che collega movimenti del viso o del corpo a momenti di esitazione, di frustrazione, di abbattimento, fino alla decisione finale di voltarsi per tornare nel mondo dei morti. Di qui l’idea del rallentamento, che permette di valutare con attenzione le fasi di passaggio nella trasformazione dell’immaginario.

GIORGIO BUSETTO – Disposte nelle pale d’altare, le figure di Viola non potrebbero richiamare la liturgia cattolica? Mi riferisco al rito lustrale, quello per cui l’anima nasce solo quando viene purificata, e poi, al rito funerario, nel quale si ricorre nuovamente all’aspersione.

P.F. – Sì, è possibile. Resta però il fatto che, al momento dell’apparizione, l’acqua si presenta sotto forma di scroscio, di frastuono, e in questo senso funziona come Grande Destinante all’interno di un evento più drammatico che rituale. Inoltre la purificazione si può ottenere in Viola o con l’acqua o con il fuoco.

G.B. – Ma noi non immaginiamo di sopravvivere al fuoco, mentre immaginiamo di sopravvivere all’acqua.

P.F. – Invece il personaggio di The Crossing (1996) attraversa l’acqua, ma, come una salamandra, attraversa anche il fuoco, che poi si spegne. In Viola sono due immaginari liquidi costruiti in maniera equivalente.

LUCA GIOCOLI – Sappiamo che cosa delude i personaggi? A me sembra di scorgere un incitamento alla speranza e un ritorno al sé. Un desiderio, una speranza riposta in questa ricerca, e poi un ritorno.

P.F. – No, in effetti la storia è molto scarna, però c’è più di una figura che, quando sta per rientrare nello spazio grigio, si volta ancora. A uno sguardo introspettivo, l’attraversamento della “tormenta” d’acqua è per loro “tormentoso“. Tutti i personaggi capiscono che non possono abitare la soglia. Ma la delusione non sembra definitiva, resta l’esitazione e forse l’anticipazione di un ritorno…

GIOVANNI BOVE – C’è un climax narrativo, a suo avviso?

P.F. – È appunto quando i personaggi avvertono la delusione. È allora che si girano e tornano indietro. Forse il momento drammatico fondamentale, l’anagnoresis a livello passionale, è quando scorgono e si accorgono che il mondo non li accetta, che è esso stesso inaccettabile: dall’illusione alla delusione. Questo vale sul piano del significato, mentre a livello del significante il climax è quando prendono definizione, forma, suono, colore.


Note

  1. “Ascolta le cose / più che gli esseri / senti la voce del fuoco, / la voce dell’acqua. / Ascolta nel vento il cespuglio in singhiozzi: / è il respiro degli avi. // I morti non sono mai partiti / sono nell’ombra che rischiara / e nell’ombra che s’addensa. / I morti non sono nella terra: / sono nell’albero che freme, / sono nel bosco che geme, / sono nell’acqua che scorre, / sono nell’acqua che dorme, / sono nella capanna, sono nella folla: / i morti non sono morti. […] // I morti non sono mai partiti / sono nel seno della donna, / sono nel bambino che piange / e nel tizzone che si infiamma. / I morti non sono nella terra: / sono nel fuoco che si spegne, / sono nelle erbe che piangono, / sono nella roccia che geme, / sono nella foresta, sono nella dimora, / i morti non sono morti. […]” torna al rimando a questa nota

Riferimenti bibliografici

Bachelard G., 1987, Psicanalisi delle acque (1942), Red, Como.
Barthes R., 2003, La camera chiara: note sulla fotografi a (1980), Einaudi, Torino.
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Fabbri P. e Marrone G., 2001, a cura di, Semiotica in nuce II. Teoria del discorso, Meltemi, Roma.
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Stoichita V.I. e Coderch A.M., 2002, L’ultimo carnevale. Goya, de Sade e il mondo alla rovescia (1999), il Saggiatore, Milano.
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