Da: AA.VV., Sequenze per Luciano Berio, a cura di Enzo Restagno, Ed. Ricordi, Milano, 2000.
La semiotica avrà il suo bel da fare se non altro per vedere come delimitare il proprio campo
(Saussure)*
1.1.
Per fragilità o per fascinazione, la musica – diceva R. Barthes – riceve subito un epiteto o un vocativo. La sua critica quindi è ineffabilista o aggettivale; parte da vincoli testuali di pertinenza ma imbocca, appena può, la via piana del “complemento di vocazione”.
Oppure, ed è il caso della semiotica, pretende coerenza e interdefinizione, estende i metodi applicati ad altre sostanze sonore, come la lingua naturale, ma al prezzo di mancare il proprio oggetto. È questa, mi sembra, la posizione variamente espressa da Luciano Berio e del suo scetticismo, talora sarcastico, verso la semiologia musicale.
Ogni disciplina (di)-spiega il suo paradigma grazie alla elaborazione interna delle proprie categorie e di esempi intelligibili e fecondi, ma anche grazie all’apporto “scettico”. Non lo scetticismo disoccupato che ricusa la predicazione (la musica è!) ma quello attivo di cui Berio è l’esempio. Basterebbe ascoltare alcuni nomi propri delle sue opere (Abulafia e Sapir, il cabalista e il linguista) o lasciar risuonare l’ultima parola della Cronaca del Luogo – “shibboleth” – per rendersi conto di quanto lo interroghi la relazione semiotica tra la musica e la lingua. Per Derrida, “nella lingua, […] c’è solo shibboleth“. “Shibboleth”, con la sua particolare ambiguità (“segno di appartenza e minaccia di discriminazione”) con il suo il doppio regime (“non solo parola d’ordine e di distinzione dall’altro, ma anche marca di appartenenza e segno di alleanza”) è in certo modo simile al concetto di simbolo1.
La lista dei riferimenti alla linguistica (Jakobson), all’antropologia (Lévi Strauss), alla teoria letteraria (Bachtin) sarebbe lunga e dettagliata.
Le differenze però, se non i dissidi, sono sensibili. “La musica non si descrive” afferma Berio, se non con altra musica. E va inteso. La sua prospettiva è speculativa e non analitica; non è semiotica ma esegetica – nella parola “esegesi” sta egemonia. Il compositore guarda al senso come direzione e non come rappresentazione.
Per ascoltare il canto d’abisso delle Sirene, senza perdersi – come capita invece al capitano Achab -, Berio, come Ulisse-Outis, accetta i vincoli necessari a mantenere la distanza. Ma sa che il canto è rivolto a lui e ad altri navigatori che con lui vanno ad altre volte e per altri versi. Nella chiaria un uccello di mare se ne va / né sosta mai, perché tutte le immagini portano scritto / più in là (Montale).
1.2.1.
Insomma Berio pratica quel che il semiologo chiama una “semiotica connotativa”.
Che fare? Bisogna porsi in ascolto e imparare dal musicista a disimplicare quel che va poi rifigurato nel nostro linguaggio teorico e descrittivo, nella misura in cui questo può accettarne l’insegnamento. Spetta al semiologo valersi dell’impegno (dia-)critico di Berio per redigere un biglietto d’invito scritto nel proprio gergo teorico; un biglietto d’invito capace di accogliere le affermazioni e le riserve trasformandone le proposte nelle proprie pro-posizioni. Non si tratta di distribuire salvacondotti (shibboleth) o discriminazioni (“la musica non ha linguaggio”, “c’è una semantica della musica”, e così via) ma di cambiare la stessa inflessione della voce Semiotica alla luce delle indicazioni di Berio. Quando l’incompetenza altrimenti allenata della semiotica si ritrova nei paraggi della musica, essa si rende conto dei vuoti o delle incrinature che l’abitano, dei modi di porre i problemi che sono una maniera di eluderli, degli equilibrismi necessari per mantenersi alla superficie del problema musicale. Tocca quindi al semiologo ridefinirsi in funzione di alcune opzioni filosofiche fondamentali.
Ora c’è una semiotica che condivide con Berio e con altri (da Boulez a Deleuze) il presupposto filosofico che il pensiero musicale, la sua Ragione sensibile, si coglie non solo come forma e procedimento ma come movimento e processo. “[La musica] non ci dà né il tempo né l’eterno, ma riproduce il movimento; non afferma il vissuto né il concetto, ma costituisce l’atto della Ragione sensibile”2. Partendo da Verdi, un autore caro a Berio, Deleuze traccia così il quadro filosofico d’una teoria semiotica della musica. I due aspetti dell’arte musicale sarebbero: (i) “la danza delle molecole sonore che rivela la materialità dei movimenti che solitamente attribuiamo all’anima, e che invece agiscono sul corpo dispiegandolo come una scena propria” e (ii) “l’instaurarsi di rapporti umani in questa materia sonora, che produce direttamente gli affetti”, senza bisogno di psicologia. E in questo che la “musica è una politica”. “Senz’anima e senza trascendenza la musica è l’attività piu ragionante dell’uomo”, se per ragione non s’intende la rappresentazione di concetti, ma l’attualizzazione di una forza, per instaurare rapporti umani nella (inumana) materia sonora.
Penso che Berio, per cui la musica è processo che presuppone una virtualità paradigmatica di scelte risultanti da una somma di storia ed esperienze3, potrebbe sottoscrivere questa postura da cui discende una semiotica con singolarità teoriche proprie4. A questa semiotica ci rivolgiamo, senza prendere in prestito altre voci (psicanalitiche, antropologiche, filosofiche, ecc.).
Scriviamo in calce al biglietto d’invito: senza metodi di conoscenza vana o ermetica è l’ermenutica. E la semiotica è prima di tutto una metodologia.
1.2.2.
Le discipline sono conoscenze rettificate.
La semiotica post-saussuriana si definisce per il ruolo essenziale della dimensione semantica e testuale; per la centralità del narrativo inteso come trasformazione; per l’istanza dell’enunciazione, generativa di singolarità discorsive; per l’interdefinizione dell’azione e di passione, cioè dell’affetto e delle sue componenti (tempo, aspetto, estesia e valore).
Così com’è, questa disciplina emerge dal confronto e dalla scelta tra le tradizioni antitetiche dei suoi grandi padri fondatori, Saussure e Peirce, e dai successivi sviluppi. La conoscenza di questi ultimi è molto disparata: ogni disciplina ha un proprio giudizio di estraneità sulle altre, misurabile -come capita con le lingue straniere – col tempo richiesto dal loro apprendimento. La semiotica ha fissato la propria vulgata negli anni ’70 con le note caratteristiche e fraintendimenti: la centralità del paradigma linguistico, con le sue metafore non euristiche: la sintassi, il modello lessicale del segno inteso come unità di rinvio ad un referente esterno; l’economia della componente soggettiva e intersoggettiva a profitto di codici normativi; il carattere non sistematico delle connotazioni. E ancora: la tipologia di rinvii testuali storicamente accertati (citazioni, riprese, remakes, ecc.) ricostruiti in termini logico-inferenziali. Nel successo di questo modello ha avuto un ruolo importante la traduzione epistemologica dell’Opera aperta di U. Eco – libro che trovava la sua origine nella modernità musicale -, nei termini peirciani della semiosi illimitata5.
Sono note l’iniziale fecondità di un paradigma alleviato dallo storicismo e dal filologismo6 e le fondate obbiezioni alla sua estensione indiscriminata ai vari campi artistici e alla musica in particolare. Sono invece riservate, se non esoteriche, le risposte che nell’ultimo quarto di secolo hanno dato una nuova caratterizzazione teorica e metodologica del paradigma semiotico. È questa caratterizzazione che ci permette di recapitare un altro biglietto d’invito alla musica di L. Berio.
Ricorderò soltanto gli aspetti pertinenti per un possibile accordo.
È noto che sulla materia sonora della voce si possono effettuare diverse istanze di sostanza: quella fonetica e quella musicale. Per quanto riguarda l’istanza linguistica, la fonologia aveva insistito sulla discontinuità dei tratti e le relazioni logiche dei fonemi. Sulla scorta di Jakobson e di ricerche più recenti stanno entrando in gioco nuovi parametri (esempio: la tensione e la lassità) e soprattutto l’intonazione con le sue caratteristiche qualitative e continue che esprimono contenuti d’azione (performativi) e di passione (affettivi). Si tratta di una dimensione intensiva ed energetica per cui molte indicazioni possono venire dalla conoscenza musicale. Una semiotica tensiva deve imparare ad andare a tempo7. La sintassi linguistica è vista allora non come logica delle concatenazioni delle rappresentazioni, ma come il modo di dare ritmo ai segni. E la “narratività” musicale si presenta come una cadenza di trasformazioni. Per Berio “tutto in fondo si può trasformare, […] anche l’idea stessa di trasformazione”8. Contro il consumismo di intrighi riconoscibili, la musica di Berio mantiene infatti il principio, astratto e profondo, di una serie di trasformazioni condotte da attanti che prendono diversi ruoli “figurativi” (voci umane, strumenti singoli o collettivi, ecc.) che definiscono una sonologia, come direbbe Lévi-Strauss nei suoi studi su Cabanon9. Anche la dinamica delle componenti affettive, come l’aspettualità temporale – il punto di vista su un processo – consentono imprevedibili incontri con la musica la quale “traccia il suo sentiero emotivo attraverso il tempo”. La duratività e la puntualità, l’iterazione e la perfettività sono tratti distintivi delle arti del tempo e delle passioni (vendetta e sorpresa, ostinazione e spavento, curiosità e collera). Trasformare le durate musicali significa trasformare a un tempo le componenti dell’affetto10.
1.2.3
Il non-luogo semiotico va sgombrato in primo luogo da alcune distinzioni canoniche frutto d’una estensione pregiudiziale dei concetti linguistici, come (i) sintagma e paradigma. Ma sopratutto va interrogato lo statuto dei segni in quanto (ii) unità dei sistemi linguistici e musicali e il loro diverso regime semantico.
(i) Per quanto riguarda l’opposizione sintagma / paradigma, esattamente interdefinito in linguistica, l’estensione alla musica, in quanto opera sui due assi della simultanità e della sequenza, è revocabile in dubbio. Benveniste fa notare che l’analogia apparente nasconde una differenza profonda11. “L’asse delle simultaneità in musica contraddice il principio stesso del paradigmatico nella lingua, che è principio di selezione ed esclude ogni simultaneità intrasegmentale […]; neppure l’asse delle sequenze in musica coincide con l’asse sintagmatico della lingua, in quanto la sequenza musicale è compatibile con la simultaneità dei suoni, non sottoposta ad alcun vincolo di collegamento o di esclusione rispetto ad un qualunque suono o sistema di suoni”. Armonia e contrappunto insomma non hanno equivalenti nella combinatoria linguistica, in cui paradigma e sintagma sono sottoposti a disposizioni specifiche, come compatibilità, selezione, ricorrenze, ecc.
(ii) Ma il problema più arduo è posto dalla natura stessa del segno-unità nei due sistemi, linguistico e musicale. È ancora Benveniste a dar voce alla formulazione generica del segno e dell’illimitato rinvio della semiotica di Peirce.
Non c’é nessun segno tran-sistematico; vanno invece definite le diverse caratteristiche dei sistemi di segni e ne vanno cercati i rapporti, anch’essi semiotici. Il segno linguistico, ad esempio, non ha validità intersemiotica se lo si osserva a partire dalla sua semantica, cioè dai suoi modi di significazione. Come non c’è ridondanza tra diversi tipi di segni, così diversi sistemi semiotici possono avere unità segniche e unità non segniche. “Il segno è necessariamente un’unità, ma ci sono unità che possono non essere segni”.
Spieghiamoci. In linguistica le unità, i lessemi, sono dotati di un piano articolato di senso, cioè sono veri e propri segni: fanno parte di un repertorio finito con regole fisse di combinazione che ne governano le figure, indipendentemente dal tipo e dal numero dei discorsi che il sistema permette poi di generare.
Nella musica le cose vanno altrimenti. La nota musicale, nei sistemi per cui essa vale, è l’unità distintiva e oppositiva del suono, ma prende valore solo nella gamma che fissa il paradigma delle note. Determina delle opposizioni, ma al solo livello della forma espressiva e non è convertibile con le unità della lingua, proprio per la mancanza del piano del significato, specifico del segno linguistico. L’unità della musica, meglio di certa musica, è il suono, eventualmente identificabile nella struttura scalare da cui dipende, ma in ogni caso sprovvisto di significanza. A differenza della lingua naturale, il linguaggio musicale è un sistema ad unità non significanti. E non è il solo, perché altri sistemi artistici, come la pittura, condividono questa fondamentale proprietà: il loro sistema semantico si manifesta a livello del discorso, cioè nella complessità compositiva del testo. La semantica musicale esiste davvero, ma al livello dell’effetto di senso globale. La nozione di segno musicale non precede quindi il discorso; va cercata, scoperta/costruita all’interno del testo colto come totalità di significazione.
Ripetiamolo: le relazioni significanti del “linguaggio” artistico vanno cercate all’interno di una composizione, non è inerente ai segni stessi e alla successiva emergenza del livello discorsivo. Mentre la significanza della particelle elementari della lingua fonda la comunicazione a venire, in musica dobbiamo cominciare dal “discorso” musicale per passare ad analizzarlo in “frasi” separati da “pause” e “silenzi” segnati da “motivi riconoscibili”. (E ricordiamo che si tratta di metafore valide solo nei limiti del loro potere euristico.)
In ogni caso la nozione di segno linguistico è un ostacolo epistemologico alla comprensione e alla produzione di senso musicale.
E alla sua analisi: non si può cominciare dai “segni” – che tali non sono – per giungere a una ricomposizione di senso. È a partire, come dice Hjelmslev, dalla totalità del testo che potremo giungere, per analisi e catalisi (decomposizione e integrazione) ai livelli interni di spiegazione (e di comprensione) giustificati dai nostri intenti esegetici.
In maniera omologa ci sembra che operi L. Berio. Costruendo totalità di senso e procedendo poi per sottrazione; salvo tornare poi sui propri passi, una volta isolati i livelli e le unità “risultanti”12. Questo mi sembra vero sui diversi piani di immanenza musicale. Per esempio, in Cronaca del luogo, il piano “narrativo”, dove la vastità del paesaggio biblico si specifica in personaggi ed in episodi; a livello propriamente musicale il muro è una “parete armonica sempre presente e sempre mutevole dalla quale vengono dedotti tutti gli eventi sonori e vocali” (P. Griffith). Berio è ancora più esplicito: “ho costruito un muro armonico sul quale vengono iscritte (un po’ come graffiti, forse) figure diverse”. Prima il muro, poi le figure; prima il senso discorsivo, poi la riarticolazione degli attanti collettivi: gli strumenti o le voci del coro, scompaginati e ricompaginati in unità risultanti.
Il saggio di Osmond Smith sul rapporto tra Berio, Schubert e Mahler in Rendering dà un senso inedito alla citazione nell’opera di Berio13. Non si deve partire dalla citazione come unità, col gusto del filologo collezionista, per poi verificarne il trattamento, ma cogliere il complesso discorsivo per discendere agli “effetti – citazione”. Nel nostro gergo, la citazione è un emergere figurativo dalla struttura profonda del senso; altrimenti è pastiche14.
Lo stesso, e più utilmente, ci sembra si possa dire per gli artifici negativi. Per la vasta cultura di Berio, quello che si vede e si sente è condizionato da quel che non si vede e non si sente. Contro l’empirismo che ascolta solo l’esplicitato, la totalità di significazione musicale permette di riconoscere l’inespresso: le allusioni e gli impliciti, la cui ricostruzione tocca alla nostra cultura e alla frequenza con l’opera del compositore. Si può intendere così l’inaudito e scherzare il pathos dell’ineffabilità.
2.1.
Il confronto e il rapporto semiotico che si stabilisce tra i diversi sistemi e processi di significazione presenta un altro vantaggio, quello di pensare con pertinenza la traduzione tra sistemi semiotici: musica, lingua naturale, immagini fisse e in movimento. Non basta constatare ad esempio l’omologia tra Debussy, Verlaine e gli impressionisti15, bisogna riflettere le condizioni di una semiotica non separata nei canali o nelle sostanze. La “transduzione” (direbbe Jakobson) che richiede un piano semanticamente comparabile è impossibile al livello delle unità – parole, immagini, note, ecc. – ma praticabile al livello discorsivo. Per Boulez, ad esempio, “Le deduzioni sul campo visivo possono essere tradotte in un mondo di suoni, a condizione di situare la corrispondenza tra i due piani ad un livello strutturale molto elaborato”16.
Su questo spazio di senso si possono disporre le intuizioni di Berio – pensare la linea nella melodia e nel disegno; individuare le forme disegnate dai gesti del direttore d’orchestra, ecc. O le acute osservazioni di Boulez sulle equivalenze di registri. Costruiti per riduzione piani corretti di comparabilità, il musicologo e il critico d’arte possono scavare dall’altra parte del tunnel: trovare ritmi nel figurativo e paesaggi sonori. Non sono confronti isolati, come il concetto di variazione in letteratura e in musica, l’abbellimento musicale e i movimenti della linea in Klee (“lo spazio delle altezze per un musicista è quasi visivo”, :110). È una lettura testuale che approfondisce il senso e permette di disimplicare inedite unità transistematiche: la prospettiva mobile nelle Onde di Debussy, o il ritmo del Lampo fisignomico di P. Klee.
La semiotica non si limita in questo caso all’analisi dei testi, ma prova ad esplorare la produzione traduttiva di nuovi discorsi e nuove significazioni.
2.2.
Per I. Lotman, il grande semiologo russo, il sogno è il padre dei processi semiotici.
Sognare, frequente nelle azioni musicali di L. Berio, è un operatore di traduzione tra il vedere e l’ascoltare. Qui hanno luogo, fuori da ogni preclusione teorica, i sincretismi tra sistemi semiotici (penso al ruolo decisivo della luce nella ritmica della Cronaca di un luogo). L’attenzione di Berio è particolarmente rivolta al testo letterario come componente del suo sistema polifonico e polisemico. Ed i migliori risultati degli studi linguistitici e semiologici della scuola di Ruwet vengono proprio dalla relazione tra musica e testo poetico17.
Vogliamo proporre qui un esempio singolare di transduzione semiotica: la collaborazione, contrastata e feconda di L. Berio con I. Calvino per Il Re in ascolto18. Il segreto dell’incontro Geheimnis der Begegnung (Celan), il suo doppio filo – duale e duello è d’ispirazione semiotica barthesiana, per il comune interesse al testo di Barthes e di Havas R. sull’Ascolto19.
Riletto con la necessaria ed incresciosa retrospezione, il testo di Barthes ci restituisce una certa ideologia modernista “disgregare la rete dei ruoli di parola” e molto psicanalese. Resta intatta però l’intensità “fenomenologica” nel cogliere la Voce, con la sua “grana” che “non è un soffio, ma la materialità di un corpo che sgorga dalla gola” (:988), la sua corporeità che sta, come ogni passione, all’articolazione del somatico e del discorsivo. Ma resta cruciale soprattutto la caratterizzazione dell’ascolto come atto d’enunciazione: iscrizione del sé e instaurazione del rapporto con l’altro. Voce – passione, comune dispositivo d’inter-azione e di una inter-affettività in cui anche il silenzio è attivo. In questo senso, che non è asserzione soggettivista né scipita fusione di orizzonti, va inteso il motto di Berio: “è musica tutto ciò che ascoltiamo con questo intento”.
Dei vari testi di Calvino, poco è rimasto nel libretto d’opera di Berio. Con l’eccezione di due poesie che mi piace citare, a riprova che lo scrittore cercava il ritmo ed il metro nella poesia come nella prosa (alla fine della sua vita ha tradotto i versi di R. Queneau, Il Canto dello Styrene).
La prima poesia fa parte dell’opera di Berio La vera storia ed è dedicata al tempo, un tema che Calvino aveva “transdotto” da un disegno di S. Steinberg. Potrebbe servire da esergo alle Cosmicomiche.
Leonora
Il Tempo in pezzi, frantumato, logoro:
catena d’ansie che stride e s’impiglia:
ecco svanisce. S’apre una vertigine,
vola dalle mie ciglia alle tue ciglia,
il tempo che conoscono le palpebre
al battito d’uno sguardo che brilla,
tra le tue mani e la tua pelle un brivido,
le labbra, i denti, l’unghia che ti artiglia:
ecco abitiamo il tempo delle origini,
degli oceani, con la conchiglia,
il vulcano, le foglie, le meteore,
mentre il tempo di fuori è una poltiglia
nel groviglio dei secoli.
L’altra, da Un re in ascolto, è l’aria di Prospero. Una variazione sul testo barthesiano che ne approfondisce la significazione. L’orecchio, – teatro, conchiglia, palazzo – si pone in ascolto, nella tensione e nell’affetto, e gioca tutte le posizioni dell’enunciazione fino pre-sentire la fine:
Il mio orecchio teso accoglie
quei suoni all’arrivo: diversi
da com’erano partiti. Sono i suoni con in più
l’ascolto dei suoni. Cerco qualcosa che risuona
nello spazio, qualcosa che viene detto
tra i suoni e che io non so se devo
ascoltare con desiderio o con paura (20-26)
C’è una voce che parla di me, seppellita
tra le voci, dentro di me, dentro l’ascolto,
io ascolto e già nel mio ascolto c’è la voce
che dice muori, dice, io ho paura (68-71)
Ma qualcosa sopravvive nella protensione al futuro, qualcosa che Berio pienamente condivide ed è la conclusione di tutta l’azione musicale:
la memoria custodisce il silenzio
ricordo del futuro la promessa
quale promessa? questa che ora arrivi
a sfiorare col lembo della voce
e sfugge come il vento accarezza
il buio nella voce il ricordo
in penombra un ricordo al futuro (50-56)
Si tratta solo di elementi dell’azione musicale complessiva che L. Berio rivendica come propria. Per lui la relazione tra testo letterario e musicale è di dominanza20, ma non di padronanza o possessione “la funzione del libretto […] è di dare definizione verbale e scenica a momenti che sorgono nel corso del dispiegarsi della musica”. “Questo significa che la musica genera tutto ed è responsabile di tutto. Il percorso musicale è condizionato dal testo scritto, che si è adeguato al percorso musicale; instaurando con esso un dialogo molto intenso, ma anche discontinuo ed imprevedibile, ed anche una reciproca indifferenza”.
Le voci della musica e del testo, tra autonomia ed eteronomia, sono “compiutamente definite da una polifonia virtuale (contraddizioni, lontananze, situazioni elusive e virtuali)”. La funzione assimilatrice spetta alla musica e consente nel testo quanto nella drammaturgia. Il testo di Calvino si trova mescidato nell’opera di Berio con un libretto di F. W. Gaster del 1721!
Anche Calvino ha ragionato così, nello spazio letterario. Nel racconto Un re in ascolto ha tratto dalla musica di Berio e dalla prosa di Barthes un testo connettivo che è caratteristico e singolare.
Nella figura del re chiuso nel palazzo, orecchio e conchiglia architettonica, la parabola dell’ascolto, si ritrovano motivi kafkiani e la figura d’Ulisse e le Sirene (ispirata al Blanchot del Libro a venire), ma soprattutto un perfetto dispositivo calviniano. Col suo personaggio rinchiuso, passivo e riflessivo (S. Gerolamo, Kubilai Kahn, E. Dantes, ecc.) e l’altro attante impegnato nel mondo dell’azione: viaggio, guerra o amore (S. Giorgio, Marco Polo, Abate Faria, ecc.). Ritroviamo la perfetta reversibilità delle posizioni, l’impossibile scambio della voce e dell’ascolto, il fallimento d’ogni evasione o invasione, di ogni amicizia o amore, di ogni congiura o rivoluzione.
Ma qualcosa è mutato: è il ritmo del racconto che ha una forma fugata e che termina con una grande dissonanza. Non lo sento lontano, nella forma, dalle “tempeste linguistiche con cui Berio”, dice P. Griffith, “elabora sillabe e vocaboli in diverse lingue e poi si spegne nell’oscurità, sulla parola chiave ebraica Shibboleth”. Anche alla fine di Outis il protagonista fa per cantare, poi tace.
Tanto li separa, ma qualcosa tiene insieme la prosa misurata di Calvino e l’afflato di Berio. Un condiviso sentire la poeticità come memoria futura. Juri Lotman, erede del formalisti russi e del polifonismo bachtiniano, ha formulato e svolto la tesi che la forma poetica – in quanto consente la correlazione, possibile ed esorbitante, tra tutte le componenti testuali – iscrive nella propria memoria quello che verrà inteso e/o frainteso nel tempo a venire. Il futuro aprirà il libro, come dice Berio, della musica e lo scorrerà in diverse direzioni. E scoprirà quanto già c’era e che nessuno vi aveva iscritto.
Ricordare il futuro: l’esecuzione e l’ascolto sono gli operatori musicali e poetici di questa metamorfosi.
Coda
Cosa resta a noi semiotici? Non potremo restare seduti sul fragile supporto delle nostre categorie. Questa è ben altra musica! Dovremo alzarci sulla punta dei piedi. Una posizione scomoda, ma è il primo gesto della danza.
Poi, va a sapere!
Note
- Derrida J., Schibboleth, Galilée, Paris, 1986.
- Deleuze G., Périclès et Verdi, Minuit, Paris, 1988.
- Berio L., Intervista sulla musica, a cura di R. Dalmonte, Laterza, Bari, pag. 72.
- Fabbri P., “Come Deleuze ci fa segno”, in AA.VV., Il secolo Deleuziano, a cura di S. Vaccaro, Mimesi ed., Milano, 1998.
- Fabbri. P., “L’idioma estetico”, in AA.VV., Semiotica: Storia, Teoria, Intepretazione (saggi intorno a U. Eco), a cura di P. Violi e G. Manetti, Milano, Bompiani, 1992.
- Ruwet N., Langage, musique, poésie, Seuil, Paris, 1972.
- Fontanille J., Zilverberg C., Tension et signification, Bruxelles, 1999.
- Intervista, op. cit., pag. 116.
- Lévi-Strauss C., Regarder, ecouter, lire, Plon, Paris, 1993.
- Fabbri P., Elogio di Babele, Meltemi, Roma, 2000.
- Benveniste E., “Sémiologie de la langue”, Problèmes de linguistique générale, 2, Gallimard, Paris, 1974 (cit. da Harweg R., “Language and music, an immanent and sign theoretical approch”, Foundations of Language, n. 4, 1968).
- Intervista, op. cit., pag. 96.
- Osmond S., “La mesure de la distance: Rendering de Berio”, In/harmoniques, n. 7, IRCAM, Paris, 1991.
- Genette G., L’oeuvre d’art: immanence et transcendence, vol. 1, Seuil, Paris, 1994.
- In-rRyeong Choi- Diel, “Parole et musique dans l’ombre des arbres: Verlaine et Debussy”, Langue francaise, n. 110, mars, 1996 (sta in Linguistique et poétique: après Jakobson, a cura di N. Ruwet et al.).
- Boulez P., Le pays fertile, Gallimard, Paris, 1989, pag. 111.
- Bibliografia in In-rRyeong Choi- Diel, op. cit.
- V. note in Calvino I., Romanzi e racconti, vol. 3, a cura di C. Milanini, Mondadori, Milano, 1994.
- Barthes R., (con Roland Havas), “Ascolto”, in Enciclopedia Einaudi, Torino, vol. 1, 1976, pagg. 982-991.
- Berio L., “Testo dei Testi”, in L’Eloquio del senso, a cura di P. L. Basso e L. Corrain, Costa e Nolan, Milano, 1999.