Da: Gianfranco Baruchello. Flussi, pieghe, pensieri in bocca, Skira, Milano, 2007.
1. A parole
Gianfranco Baruchello: “Non sono mai stimolato da immagini, sono stimolato da parole e da idee”. Umberto Eco: “Questo è assolutamente falso”.
Invece è proprio così. Le opere di Baruchello raffigurano entità (piccole figure) e grandezze (vaste tele) non mimetiche, più pensate e immaginate che non viste. “Cervellità” non retiniche, direbbe Marcel Duchamp; in-ottiche e dispettive, aggiungerebbe Jean-François Lyotard per il quale danno poco da guardare e molto da pensare: “come tutti i postmoderni”.
La sua non sarebbe un’iconologia ma un’icastica: “le immagini plastiche della parola” (Duchamp). Non dipinge in trompe-l’oeil, ma per “tromper l’esprit”.
Questi “quadri a parole”, su tela o su alluminio, figurano quindi un pensiero che si forma in bocca: ciò che viene in mente si articola all’espressione sonora per prendere senso e trasformarsi in significato. Il concetto diventa contenuto cioè semantica e da allora la mente può dire la verità o mentire. I termini del linguaggio – dalle parole agli insiemi significanti più complessi – diventano shifter del pensiero: i loro giochi regolati creano le condizioni sperimentali della emergenza singolare del pensare.
Il lavoro tenace – io preferisco dire: la libera attività – di Baruchello è l’occasione di precisare, contro il rumore di fondo del naturalismo cognitivo, che l’arte, come la filosofia e la scienza, non consiste nei prodotti mentali di un cervello oggettivato. Per pensare, il cervello deve prima diventare un soggetto; un soggetto enunciante che “appena dice” io “è a un altro che lo dice” (Gilles Deleuze). Parlando, sentiamo dire e vediamo ascoltare: con l’eccezione del rituale, la parola è improvvisazione e improvvisati sono i dialoghi.
È dunque in bocca, una parte del capo, che si formano e trasformano i pensieri-significati; si prendono e mutano i modi e le forze – indicativi, imperativi, condizionali ecc. Qui si compongono e dispongono le immagine dense – come bocca – o astratte – come pensiero -, iscritte nel nostro dire. Il vocabolario è anche un immaginario, un dizionario di immagini.
Quando parliamo proiettiamo figure e la prima è quella del nostro corpo. Per un grande specialista della voce e dell’orecchio, Alfred Tomatis: “il suono fluisce dalla bocca come il fiotto che straborda da un bacino troppo pieno. Inonda tutto il corpo su cui si estende. Ogni onda sillabica si versa e ricade su di noi (…). Il corpo ne sa notare la progressione su tutta la superficie grazie alla sensibilità cutanea, il cui controllo funziona come una tastiera sensibile alle pressioni acustiche”. E conclude: l’immagine del nostro corpo riflesso del nostro verbo viene proiettata nello spazio proprio perché l’immagine del nostro verbo sgorga dall’immagine del nostro corpo”. La parola è autoritratto.
Ci sono molte forme per mettere a verbale quel che “viene in mente”. Non con i fonemi della linguistica i quali non sono suoni, ma incroci di categorie di pensiero, ricostruite a partire da un modo di istanziare la sostanza sonora. L’orecchio è il vero giudice del suono, della sua natura ondulatoria o corpuscolare – grave, sibilante, liquida, sorda ecc. La cavità orale è sentita-pensata come uno spazio di azioni e di gesti della lingua, delle labbra, della glottide e dei luoghi delle loro applicazioni – bilabiali, dentali, fricative ecc. Nel dire, come nel disegno, è in gioco il corpo e la carne. Non è un caso se per gli analisti la bocca riproduce in miniatura la schema somatico: ci sarebbero suoni orali come le consonanti anteriori e altri anali come le gutturali…
Ecco perché “le parole dipingono e cantano, al limite del cammino che tracciano, dividendosi e componendosi”, dice Deleuze di Antonin Artaud. E aggiungerei, pensando a Baruchello, sovrapponendosi e cancellandosi. Infatti, ci sono modi anche per far balbettare la lingua e la pittura, per aprirle a nuovi esperimenti in cui le figure di parola intrecciano rime e ritmi con le figure di pensiero. Duchamp diceva di trattare i suoi titoli come un colore invisibile delle sue opere.
Anche Baruchello sa come. In primo luogo sa che il moderno, nei suoi presupposti e principi, si comprende a partire dal postmoderno. L’interrogazione permanente e propriamente filosofica che Baruchello rivolge alla radicale mutazione dell’arte contemporanea prende oggi la sua attualità. Per seguirne le fila, al prefisso “post-“, frainteso come datazione preferiamo “Ana-“: quello di anamnesi e analisi, anamorfosi e anagogia. Con la persuasione o la semplice speranza che “l’equivoco interpretativo, voluto o no, diventa, in positivo, un piccolo accumulatore di “energia errore” (Baruchello).
2. Formule e monogrammi (Paradigmatica)
2.1. Baruglifici
“La semiotica è in primo luogo una topologia” (Michel Serres)
Gli ampi spazi di Baruchello sono disseminati di Formule. Piccole forme, le figure minime e semiminime d’una ideo-grammatologia. Pittogrammi (quasi) concreti e narrativi, ideogrammi astratti e (quasi) codificati che sembrano pedine di giochi da inventare; giochi d’azzardo che cambiano le loro regole nel corso delle partite. Il figurinista non ci nasconde nulla del senso possibile di queste note, iscrizioni, spunti, minute, appunti, diagrammi, schizzi, enunciati. Li hanno chiamati metonimie e micro-modelli, macro-semi o micro-racconti (Lyotard), figure libere o obbligatorie di referenza o di inferenza, operatori di costruzione, di aggiunta o detrazione, logotipi o figuranti (comparse) di una impresa esistenziale, pezze onorevoli di una araldica personale, miti in miniatura (il mito è una figurina dilatata).
Sono tentato di chiamarli “Baruglifici”, come Raymond Queneau chiamava “Miroglifici” i segni di Miró, in attesa di uno Champollion dall’acribia maggiore della mia nello scoprire le differenze che li fanno somigliare: la dissimilazione e la solidarietà che ne farebbero l’equivalente di una scrittura. Vorrei il tempo di cercare le relazioni di interdipendenza tra le costanti, di determinazione tra costanti e variabili, prima di rassegnarmi a considerale pure costellazioni di variabili. E mi piacerebbe trattarle come variazioni legate tra loro prima di rassegnarmi alla mera varietà stocastica; al caso, puro di ogni programmazione, manipolazione, aggiustamento.
Il loro senso sembra quello dei rebus, celato nella loro evidenza, nella deliberata casualità di ricorrenza e collocazione e nella ripetizione fino al nonsense.
Lyotard, l’analisi più attenta di Duchamp e Baruchello, ha offerto una scorciatoia che è anche una traversia. Suggerisce di trattare le Formule come un repertorio di monogrammi, un popolo minuto di segni intensivi. Né schemi né simboli, questi dispositivi “kantiani” o ideali della sensibilità, non sarebbero frasi di lingua ma di sentimento; “piccole madri di affabulazione”, depositi di energia narrativa, istruzioni a concatenare. “Segni di articolazione formata-vuoto tra più storie”.
Lyotard propone insomma di trattare i Baruglifici come sprovvisti di significato: nomi propri di persone, luoghi, tempi e cose, attanti e circostanti di piccole storie. Giusto, ma non abbastanza. Le formule di Baruchello sono “ambigrammi”, per l’ingegnosità grafica con cui stanno al limite dei codici linguistico e visivo. Firme visive, segnature apposte sulla superficie d’iscrizione per rimotivare l’arbitrario dei nomi propri, dar loro una fisiognomica e trasformarli in ritratti.
Come la spirale con cui Brancusi raffigurava Joyce, come i pitto-poemi che Victor Brauner chiamava, anche lui come Duchamp, “il linguaggio geroglifico moderno”.
2.2. Totem
Il semiologo vorrebbe leggere questi monogrammi verbovisivi come minuscole figure di retorica, sineddochi o metonimie. Per Baruchello però non si tratta di spostamenti rispetto a un referente, ma di elementi che esercitano una vera “possessione ontologica”, piccoli totem individuali – umani, non umani, ibridi – che hanno lasciato su di lui le tracce singolari di certi luoghi e tempi. Com’è nel caso delle inezie infra-ordinarie di Georges Perec (“fatevi le tasche”) o di Andy Wharol, anche Baruchello ricusa la separazione naturalistica tra il vivente e il non vivo. Per il vero totemista qualsiasi Altro è un Io. Baruchello può quindi sperimentare ed esperirsi come animale, favo d’api, albero, torre, statua, giardino e tappeto. Ma anche come parte di un oggetto – una guarnizione – un libro – una citazione – la copia di un giornale o il frammento di un corpo. Come gli antichi talismani, i Baruglifici sono sepolti sulle tele o nella terra per proteggere l’io e le sue dimore.
Eppure l’immaginario di Baruchello non è un arcipelago di analogie, un mondo magico di segnature, animato da attrazioni e di repulsioni. Ogni sua Formula, costruita per montaggio e bricolage, resta isolata e sporadica, senza traduzione o metamorfosi. Come il dizionario che Duchamp voleva comporre per il suo Grand Verre: “una sorta di scrittura” fatta di nomi propri o di termini astratti rappresentati da “segni schematici”. Un alfabeto destinato a scrivere un solo quadro e intraducibile in qualunque altro linguaggio o metalinguaggio. Anche quello di Baruchello non è un alfabeto ma una batteria di giochi in cui ogni carta è un jocker. Non troverò la pietra di Rosetta dei Baruglifici!
3. Pensieri alla bocca del fiume (Sintagmatiche)
“Ces flux, ces flots, ces fleuves ne cessent jamais de courir ces terres lacunaires” (Michel Serres)
Quello della tela, scrive Baruchello, è uno “spazio esemplare”, un campione tangibile, commensurabile dello spazio-tempo (…) la mano prende nozione della superficie, la percorre e la esplora. Penso: si dice pensare con le mani”. I suoi pensieri e le loro tracce sulla tela rendono però lo spazio incommensurabile ed eterogeneo. Ci sono Baruglifici bidimensionali, come scritti sulla superficie della pagina; altri creano invece una profondità locale e si portano lo spazio con sé. La topica pittorica di Baruchello sospende la diacronia; è un patchwork per ritardare lo sguardo e far smarrire il privilegio dell’occhio. Il tempo di far venire in mente.
Con un’eccezione, quella del lungo segno di Fiume che attraversa quindici metri dei suoi telari e orienta, dalla fonte alla foce, la nostra lettura. Prima facie, è un vettore di senso – direzione, significato, valore – che si fa largo nell’arcipelago compossibile delle Formule, nella loro costellazione acentrata. Proviamo a seguirne il flusso e le pieghe, le declinazioni e le implicazioni.
Henri Bergson sosteneva che i nostri concetti sono modellati sui solidi e suggeriva di aprire la mente ai fluidi, come le acque e le fiamme, che hanno la vitalità di bordi indecisi e vibranti: pieghe in movimento.
“Tutto è fiume e flusso” (Lucrezio). È il fiume che crea, per frizioni, erosioni e sedimentazioni, le rive che lo contengono e ne scolpiscono la massa d’acqua. Non ci possiamo sedere due volte, piaccia a Eraclito, sulla stessa riva. Il solido può essere meno stabile del flusso quando la turbolenza crea il gorgo, reversibile locale nell’irreversibile globale. I flussi, “metabole”, percorsi e trascorsi, sono però abitati da perturbazioni omeostatiche, gorghi in stato di equilibrio stabile-instabile e temporaneamente quasi fissi. Ci si può bagnare due volte nella corrente dello stesso fiume, se implicati nelle sue turbolenze.
Questo regime immobile – che l’idraulica chiama omeorresi e la mitologia Acque del Lete – sospende l’entropia del fiume che va dall’energia lineare della sorgente al rallentamento e alle pieghe degli estuari. Crea equilibri locali e località singolari, isole in forma di tappeti mobili o di giardini variabili. (Per Lucrezio come per Baruchello, lo spazio è una distribuzione di giardini!)
Il percorso del segno Fiume ricostruisce e redistribuisce le Formule e i Baruglifici, con la loro intensità locale e non prolungabile. E ripropone il misterioso passaggio dal locale al globale. Nella cosmogonia di Baruchello, il mondo del fiume, ci sono ponti e le rive leggibili come scambi, percorsi e traduzioni: sapere è flusso e trasformazione perchè stabile è solo la nostra ignoranza.
Anche l’origine, per Walter Benjamin, è un gorgo nella corrente.
Proviamo però a seguire il corso del fiume che come le Formule di Baruchello è un monogramma-ritratto e un ambigramma, leggibile nelle due direzioni.
Verso la fine del flusso aumenta l’entropia, si moltiplicano i meandri, l’alveo sinuoso si piega per sperdersi nelle sabbie o nel mare. Nell’estuario le opposizioni si neutralizzano e il corso delle acque prende tutti i sensi, valori e direzione. Si fiacca la portata delle forze e si esaurisce l’informazione: una fine che non la smette di finire nel delta dell’abbandono e dell’oblio.
Ma la natura conosce i fiumi carsici e l’arte ha immaginato il fiume Alfeo, che, contro la canonica della fluenza, esce dal mare in cui era sommerso (Roger Caillois). Un fiume sfuggito al naufragio che diventa inverso e simmetrico per tornare al suo clinamen iniziale – inclinazione, scarto differenziale, fluttuazione e flussione- da cui inizia la pendenza, il fiotto, la cataratta e l’irreversibile entropia. Baruchello non la smette di risalire il suo fiume Alfeo, per abitare il paradosso di quell’impresentabile scarto a cui la sua opera non cessa di fare allusione.
“Riviere, rifiorire”, diceva Eugenio Montale.
4. Modalità: il possibile
G.Baruchello: “Non più soltanto figurine e spazi, ma tentativo di avvicinarsi come risultato finale (non di questi quadri e soli, ma della vita intera, di chi – vedi caso – li fa) a un’operazione che ha – almeno spero – più dell’etica che dell’estetica”. U. Eco: “E perché queste cose invece di scriverle così come le dici le vieni a raccontare al filosofo?”.
Una buona ragione e una passione c’è. Il deperimento se non la sparizione dell’estetica filosofica e le ambigue risorse dell’etica contemporanea. Mentre Lyotard poteva affermare negli anni ottanta: “Se avessi conosciuto GB dieci anni fa avrebbe avuto il posto d’onore in Discours, figure“, oggi davanti al “purchessia” eclettico all’arte contemporanea c’è chi la afferma sdegnosamente Nulla (Jean Baudrillard). O la addita come il non luogo dove l’incertezza della verità si genera attraverso “l’assenza consumabile di ogni verità”. O prende partito per un'”inestetica” che può descrivere solo alcuni effetti strettamente intra-filosofici prodotti dall’esistenza indipendente di alcune opere d’arte (Alain Badiou).
Vano sarebbe ogni operare dell’arte sull’esistenza quando la realtà è intrisa di merci estetizzate e il senso comune, modellato dal marketing è destabilizzato fino a non esser oggetto d’esperienza ma di sondaggio (Jacques Rancière).
Quanto alla relazione etica, le arti contemporanee ci lascerebbero davanti all’alternativa impossibile tra pratiche di prossimità votate alla restaurazione improbabile del legame comunitario o alla testimonianza della catastrofe irrimediabile che sta all’origine di questo legame: arte relazionale (un servizio pubblico?) oppure testimonianza del tutt’altro, dell’inumano (una teologia dell’immagine?).
Eppure Baruchello, Sisifo felice, non cessa di declinare il suo progetto al presente e al futuro anteriore. Artista che ci riguarda, si colloca in questa paralogia per viverne i casi. I suoi segni d’intensità, enunciati con tutto l’attaccamento che sta nelle pieghe della sua sprezzatura, continuano a sperimentare “la figurazione del possibile”. (Non come contrario di impossibile né come relativo a probabile e neppure come subordinato a verosimile. Il possibile è soltanto un mordente fisico – genere vetriolo – che brucia ogni estetica o callistica, diceva Duchamp.)
Quella di Baruchello è una postura “modale” per confondere i generi dei nostri discorsi, parole e idee e darci l’ilare lezione, con i necessari esercizi, di mescidare le arti e le vite.
Sono e non sono solo, con lui: “del possibile, se no soffoco” (Deleuze).