Da: Alfapiù | Alfabeta2, 26 dicembre 2016.
Stella e chiavi
L’anno 2015, centenario della nascita di RB, correva sotto una cattiva stella. Tra i primi segni infausti, gli articoli di stampa con cui filosofi e letterati si affrettavano, con sufficienza e latente albagia, a deplorarne lo stile “danneggiato dallo strutturalismo”, lo spolverio di acutezze (Berardinelli), o a ridurne l’opera agli articoli giornalistici dei Miti d’oggi (Ferraris). Rottamatori di diverso patrimonio genetico, si presero la briga di malumori epigrammatici fondati su un’equa ignoranza. Con indagini sulle stimmate strutturaliste e giudizi di semiofobia catechizzata, di quelli che una volta ascoltati si dimenticano sempre. Replicando, senza saperlo, le riserve di Elio Vittorini che pensò fin dai primi anni Sessanta di espungere RB dal progetto di una rivista internazionale, Gulliver: era troppo ontologico (sic!) e troppo mistico per lo storicismo dialettico allora in voga e che proprio RB ha contribuito a disperdere. E soprattutto troppo vicino all’avanguardia letteraria, quella del gruppo 63 ed in particolare ad Arbasino, di cui RB ebbe a difendere, contro un pubblico restio, le originali regie liriche. L’esito inevitabile, inaridire il discorso critico, era prevedibile e forse scontato. Anche i semiologi, provvisori compagni di strada dello strutturalista di Critica e verità, si affrettarono a espungere e a esorcizzare, dichiarando l’inettitudine degli assunti di RB ai test scientifici dei laboratori cognitivi. È lo scotto che si paga alla celebrità: RB figurava persino nelle canzoni di Francesco Guccini (Via Paolo Fabbri, 43, 1976) e nei film di Federico Fellini (Toby Dammit, in Tre passi nel delirio, 1968)
Il castello di carta è imploso davanti alla pubblicazione dalla ponderosa biografia di Tiphaine Samoyault (Roland Barthes, Seuil 2015), ravvivata da giudizi illuminanti. E dal libretto di Isabella Pezzini (Introduzione a Barthes, Laterza 2014) che seguiva, testo per testo, l’evoluzione “punteggiata” d’una scrittura inimitabile. La pubblicazione indaffarata di testi disparati in più lingue e la rivisitazione teorica nel corso di molti convegni internazionali hanno messo a fuoco coesioni impreviste e coerenze occultate (l’orientalismo, il misticismo, il romanticismo, il gusto per gli ideogrammi, l’avversione per il cinema, la passione tenace per le storie di Michelet e l’inclinazione per le avanguardie, ecc.). E ancora: la centralità delle opere dell’anno di (sua) grazia 1967 (S/Z; L’impero dei segni, Sade, Fourier, Loyola). RB è sopravvissuto quindi alla prima disdetta e il libro di Gianfranco Marrone, Roland Barthes: parole chiave, conclude, se non ultima, l’inversione di segno di questo percorso ri-conoscitivo.
Nella pugnace introduzione il semiologo, curatore di gran parte delle opere di RB e autore del Sistema di Barthes (Bompiani 2003), traccia già i limiti della rivalutazione in corso: (i) il “tripudio di sedicenti analisi filologiche su liste della lavandaia”, (ii) lo “storicismo sterile delle divagazioni biografiche”, (iii) l'”estetizzazione forzata”. Per evitare il resistibile risultato – una critica epitetica e promozionale – Marrone estrapola dalla testualità barthesiana il lessico “improprio” di una cinquantina di lemmi – da Arbitrario a Segno, da Madre a Strutturalismo, da Frites a Utopia – di cui almeno la metà interdefiniti per opposizione (Saussure è il solo nome proprio). Non è una lista come piaceva a Umberto Eco, provvisoria e provvidenziale: è la ricostruzione sistematica d’uno sguardo formale e critico, penetrante e discontinuo. Non è un codice, ma un organon di massime e d’istruzioni. Per il suo genere lessicografico permette l’attualizzazione delle voci e l’inserimento di nuovo lemmi nei blancks che li separano. Mette in mano e in bocca al lettore le parole chiave di RB, in cerca di serrature per aprire le porte chiuse all’incompetenza allenata della critica contemporanea “Chiavi di senso – direbbe Dante – per li segni bui“.
Vedere i linguaggi
RB “vede” il linguaggio senza essere posseduto da demoni teorici, ma con senso di responsabilità verso le forme espressive e l’articolazione dei contenuti. Nelle sue ricerche sul vocabolario ottocentesco della classe operaia e della moda (sotto l’influenza di Greimas), nelle ricerche del CECMAS, il Centre d’Etudes sur la Communication de masse, fino agli insegnamenti all’?École des Hautes Études, “Sociologie des signes, symboles et répresentations” e “Sémiologie de la littérature”, al Collège de France (sostenuto da Foucault), RB non si è mai assentato dal “vasto cantiere strutturalista”. I Frammenti del discorso amoroso, Il piacere del testo, La camera chiara hanno aggiunto all’intelligenza semiotica una sensibilità fenomenologica (lo stile è “voce decorativa della carne”) per raggiungere “la regione paradisiaca dei segni sottili e clandestini: come una festa, non dei sensi, ma del senso” (ad vocem: Frammenti). La sua prospettiva, se non il suo scopo, è la conoscenza, senza il tenore di una scienza positiva; l’esperienza personale – la passione delusa, il lutto familiare – è messa alla distanza “neutra” di un’esposizione strutturale: l’enunciazione, non il soggettivismo, il punctum, il tilt, non l’effusione patetica. Le forme brevi e frammentarie sono simulazioni e variazioni per accedere alla differenza di significato al di fuori d’ogni essenza. Chi lo presenta pentito per gli eccessi formalistici della semiologia deforma il passato, lasciando il presente senza progetti per il futuro. L’insistenza di RB sulla nozione non strutturata di Connotazione – nota Marrone – non mira all’annullamento del senso, ma alla persistente ricerca che lo costituisce. “Il senso c’è a condizione di incalzarlo. E, una volta trovato, di saperlo depauperare”. Anche l’etichetta di “avventura semiologica”, come saltuario episodio di una ricerca filosofica, è un’invenzione editoriale. RB – nonostante un’irenica preferenza per Nietzsche nella versione di Deleuze – ha recisamente affermato che “mai un filosofo fu la mia guida”, anche se crescono di numero, se non di credibilità, quanti vogliono vederlo come un Monsieur Jourdain che fa filosofia senza saperlo. Non si può escludere tuttavia che RB sia stato il portatore sano di diversi virus teorici come la psicanalisi, a onta della sua avversione per i witz lacaniani.
Mitologie di Mitologie
Tra i lemmi del lessico di Marrone quello dedicato alle “Mitologie delle Mitologie” è un potente attrattore. Mentre i Miti d’oggi, per il loro carattere e destinazione giornalistica, esercitavano una suggestione costante sugli intellettuali – come Umberto Eco – RB dichiarava fin dal 1971, nella Mythologie aujourd’hui, la propria indisponibilità a proseguire il progetto. Non era venuta meno la materia mitica, anzi, “il mitico è presente ovunque si facciano delle frasi, ovunque si raccontino delle storie“. Era il metodo stesso di lettura – decostruire le connotazioni naturalizzate dell’arbitrario segnico piccoloborghese – a essere diventato mitico. La de-mitificazione degli stereotipi – purificare i segni – si era convertita in un enunciato catechistico, sprovvisto di emozione e valore. Ai semiologi RB proponeva quindi un impegno politico-culturale ancora valido: “ciò che la Semiologia deve attaccare non è più solamente, come ai tempi dei Miti d’oggi, la buona coscienza piccolo-borghese, ma il sistema simbolico e semantico della nostra civiltà nel suo complesso”. Una semioclastia generale e applicata.
Tuttavia, poiché nessuno è mai morto di contraddizione, RB ha ripreso le cronache settimanali del “Nouvel Observateur” che avevano originato i Miti d’oggi, nel breve periodo dal dicembre del ’78 al marzo del ’79. Tradotte nel 1986 in Mitologie di Roland Barthes, i testi e gli atti (a cura mia e di Isabella Pezzini, Pratiche 1986) erano destinate, nell’intento di RB, a opporre al frastuono dei media l’accento di una piccola sintassi curata, ad attenuare una griglia di intensità e a frenare l’impulso dei media a creare i propri eventi. Furono interrotte da RB che, in un testo sommesso quanto esemplare, dichiarava impraticabile l’univocità del tono giornalistico per la sua scrittura che ottunde e pluralizza, per poi sospenderlo, il senso ovvio degli avvenimenti.
Album di segni
Nella sferzante introduzione, Marrone include le divagazioni biografiche foraggianti un’editoria miope alla perenne ricerche di presunte novità”. Sono tentato di includervi anche l’Album di Inediti, lettere e altri scritti, col quale il Saggiatore traduce un dossier curato per Seuil da Éric Marty, l’animatore del seminario permanente su RB a Parigi. Il libro tradisce l’inesatta e pretenziosa bandella: “Album è l’opera che racchiude e unifica tutto il corso della vita e del pensiero di RB”. Si tratta invece di un centone utile per studi filologicamente appuntiti di critica genetica – fotografie e calligrafie – che poco aggiunge al già pubblicato e riconosciuto. Tra le varianti “adiafore”, per chi cerchi camminamenti di lettura, contano più la salienza dei metadati – i destinatari e i tempi delle lettere che la pregnanza dei dati – che il loro significato. Nell’ordine. Gli autori dell’avanguardia, come Robbe-Grillet e Butor (Mobile, opera-maquette concettuale che RB svilupperà nel suo corso sulla Preparazione del romanzo). Una lettera di RB a Maurice Pinguet che fu il suo mentore nel viaggio nell’Impero giapponese dei segni per “uscire dal recinto occidentale”. Un’aspra missiva di Lévi-Strauss – che rifiutò di essere il relatore di RB nella tesi di stato sulla Moda – dove il grande antropologo si pronunciava contro l’opera aperta e l’ermeneutica à la Ricoeur e a favore di un'”analisi strutturale di forme simboliche oggettivamente determinabili”. All’epistolario, per lo più irrilevante, mancano però gli scambi politici e letterari con Philippe Sollers, pubblicati per suo conto, e quelli con Pierre Klossowski non rintracciati. Per chi si riconosce nella proposizione che “un uomo di qualità dice in ogni momento quello che è stato e che sarà”, le lettere e gli scritti giovanili sono di qualche conforto: l’autore del Grado zero della scrittura scriveva fin dal 1946: “Non ci sarà una storia materialista della letteratura finché non sarà ricondotta all’esercizio del linguaggio”; e “dire che il contesto agisce sullo scrittore non significa nulla” (L’avvenire della retorica, 1946): traccia e testimonianza di un interesse costante per la discorsività al di là della frase, confermato dallo studio della tradizione retorica (La retorica antica, da me tradotto da Bompiani, 1972), prolungato nell’Album da un saggio incompiuto su Paul Valéry. Con un piacere terminologico, il punctum della parola ricercata che l’erudizione, lo studium, non illustra e non opprime.
Inattuale e intemporaneo
Nella prima pagina del suo libro necessario, Gianfranco Marrone ricorda che l’anniversario barthesiano si chiudeva con un “vistoso” colloquio al Collège de France, interrotto dai tragici fatti del Bataclan. Poiché ero il primo iscritto a parlare la mattina seguente all’attentato, in una Parigi deserta e asserragliata percorsa dalla polizia e dall’esercito, mi permetto una precisazione. Il gruppo dei relatori (come me e come Marty, il curatore dell’Album) che si riunirono in quel rischioso frangente per non permettere al terrore di tacitare la cultura e il pensiero, era tutt’altro che rassegnato. Nel lungo e teso incontro, fuori dai complicati origami delle mode culturali e sotto la tragica pressione del fanatismo, il ricordo di RB divenne l’immaginazione solidale dei presenti, testimoniata dal “Cahier Textuel” appena uscito. Come in un seminario barthesiano, emerse la possibilità di creare o di giustificare ricordi nuovi, al di là delle intercettazioni e intromissioni, lasciti involutivi e millanterie che avevano caratterizzato il Centenario. Per l’eterogenesi dei fini, l’aulica ricorrenza del Collège de France non poteva chiudersi in modo migliore.
Di qualcuno di cui si crede di saper tutto si finisce per ricordare solo ciò che si dimentica. Come l’impegno politico di RB, il suo brechtismo, la dura recensione alle Memorie di de Gaulle, l’utopia fourierista, le illusioni maoiste d’una società senza classi, il fastidio per la gesticolazione isterica dell’impegno sessantottino. Nelle imprevedibili condizioni degli attentati, RB ritrovava qualcosa della sua Inattualità, di contrattempo intellettuale a favore d’un futuro per ora inabitabile; un anacronismo rispetto alle attese; troppo presto o troppo tardi per l’attualità. Le Considerazioni inattuali di Nietzsche dovevano far parte d’un trattatello sui filistei della cultura che resta sempre, e senza meno, da scrivere. Un compito che si adatta allo stile semiotico di RB, un autore non soltanto contemporaneo, ma Intemporaneo.
Gianfranco Marrone, Roland Barthes: parole chiave, Carocci, 2016, 244 pp., € 19
Roland Barthes, Album. Inediti, lettere e altri scritti, a cura di Éric Marty, traduzione di Deborah Borca, il Saggiatore, 2016, 489 pp., € 35
Roland Barthes aujourd’hui, a cura di Nathalie Piégay e Laurent Zimmermann, “Cahier Textuel”, Hermann, 2016, 152 pp., € 20