L’assemblea desiderante


Da: (con U. Eco), U. Eco, Sette anni di desiderio. Cronache 1977-1983, Bompiani, Milano, 1983, pp. 68-77.


Negli ultimi tempi la direzione dell’Espresso ha ricevuto parecchie richieste d’aiuto da parte di lettori che sono portati, dalla loro attività specifica, a partecipare ad assemblee. E un incidente che può accadere a molti. Se nel 1968 si davano solo assemblee universitarie e assemblee di fabbrica, oggi può capitare di far parte di una assemblea di quartiere, di femministe, di inquilini di un condominio, di genitori di scolari (decreti delegati), di scuola (studenti e professori), di ospedale, persino di carceri. Senza contare le assemblee di donne, femministe o meno, di agenti di pubblica sicurezza, di omosessuali, di attori di una compagnia teatrale, di membri di una cooperativa, di impiegati di una casa editrice, eccetera eccetera. Per stendere questo articolo abbiamo riunito vari amici e collaboratori e indetto un’assemblea di persone che avevano avuto esperienze di assemblea. I dati di questo articolo sono il risultato di una votazione collettiva. I firmatari sono stati delegati a stenderlo fisicamente. Alla fine un firmatario ha delegato l’altro1.
Messa così la cosa potrebbe sembrare ridicola e c’è già chi ha parlato di mania assembleare e delle assemblee che pervadono il nostro paese come di una innocua seppur noiosa parodia dei soviet – mentre il potere continua ad andare per conto suo e i gruppi terroristici sostituiscono l’azione diretta e individuale (o oligarchica) alla finzione democratica dell’assemblea.
Tuttavia – anche se viviamo in un periodo in cui i marxisti del Sessantotto si vergognano di essere stati marxisti, gli ex professionisti di cortei stalinisti affermano che non gliene importa più niente della classe operaia, e le parole “classe” e “massa” stanno diventando termini poco educati – bisognerà avere il coraggio di dire che la proliferazione delle assemblee è stata ed è un fatto positivo.
Se uno slogan come “presa della parola” si carica ormai di tutte le ingenuità di chi lo pronunciava un tempo e permette argute trasformazioni del tipo “presa per il sedere”, occorrerà pur dire che la mania assembleare ha prodotto una maggiore partecipazione, ha messo in crisi almeno psicologicamente il principio di autorità, ha abituato molti al confronto delle idee, ha permesso a molte persone che non avevano il coraggio di esprimere le proprie opinioni di far sentire la propria voce. Ha portato molti a sentirsi “soggetti politici” anche quando parlano dei propri problemi personali. Insomma, noi che scriviamo preferiamo un paese con troppe assemblee piuttosto che un paese con nessuna assemblea.
Ma, detto questo, bisogna avere uguale coraggio per affermare che la disseminazione assembleare produce le proprie nevrosi, e che bisogna esserne coscienti.
L’assemblea è un fatto politico che cerca di coinvolgere anche coloro che non sono professionisti della politica. Ma è fatale che i professionisti della politica cerchino di strumentalizzare un’assemblea, usando tutti i trucchi (permessi e no) a loro disposizione.
Né si può dire che facciano male, almeno in linea di principio. Il problema degli altri – i meno preparati – è semmai quello di conoscere le stesse regole e partecipare al gioco. Ma quale è il gioco?
Esiste un’assemblea tipo, di cui dettare le regole di funzionamento “corretto”? La risposta è negativa. C’è differenza tra un’assemblea universitaria e un’assemblea di inquilini dello stabile di via Roma 6. Ci sono assemblee fatte per mettere sotto accusa una struttura giudicata superata, altre fatte per far funzionare democraticamente un apparato (quartiere, cooperativa, redazione di giornale extraparlamentare) sulla cui “bontà” tutti sono d’accordo, assemblee di gruppi uniti da una comune volontà rivoluzionaria, assemblee che mettono a confronto gruppi di diversa estrazione politica. Ci sono assemblee “polari” (studenti contro professori, inquilini contro amministrazione) e assemblee “omogenee” (membri di una cooperativa teatrale), assemblee leniniste e assemblee liberali.
Ci sono assemblee tipo 1968 e assemblee tipo 1977. E non è detto che l’assemblea alla Settantasette, che predomina nelle università, costituisca il tipo giusto per una scuola di paese dove per la prima volta i genitori discutono con la direttrice sull’acquisto dei libri di testo. Né è detto che in ogni università italiana del Settantasette ci siano state assemblee non sessantottesche.
Quindi la prima questione da chiarire è: a che tipo di assemblea sto partecipando? Cerchiamo allora di delineare tre tipi astratti di funzionamento assembleare, sapendo benissimo che le assemblee concrete saranno sovente una mistura di due o tre tipi. Starà ai partecipanti riconoscere la linea di tendenza della propria assemblea e sapere cosa vogliono. Nelle tabelle che corredano questo articolo abbiamo elencato per ciascun tipo le regole normali di funzionamento e gli artifici a cui di solito i “professionisti” delle assemblee ricorrono per controllarle. Non è detto che tutti questi “trucchi” siano necessariamente cattivi: ogni assemblea subisce le manipolazioni che si merita.
Il primo tipo di assemblea è quella Giudiziaria. La elenchiamo per prima perché storicamente le prime assemblee sessantottesche sono state di questo tipo. L’assemblea giudiziaria è polare, accusanti contro accusati. Possono essere gli studenti che si confrontano coi professori, gli inquilini di uno stabile che si confrontano con l’amministrazione, gli ammalati di un ospedale che si confrontano coi medici e così via. Il tempo grammaticale dell’assemblea giudiziaria è il passato: cosa avete fatto voi negli anni scorsi? L’assemblea giudiziaria vuole modificare i rapporti di forze, instaurare rapporti diversi, rompere delle relazioni consolidate d’autorità. La sua tecnica più consueta è quella processuale, l’impeto predomina, la veemenza delle accuse ne è la modalità fondamentale. Tuttavia l’assemblea giudiziaria non è un tribunale del popolo. Si ha tribunale del popolo quando una parte prende il sopravvento e distrugge la parte avversa: esempio, la rivoluzione francese. L’assemblea giudiziaria, invece, di solito, non intende negare i rapporti di forza esistenti: l’amministrazione rimane amministrazione, i professori rimangono professori, ma si tratta di formulare questi rapporti in modo diverso, mostrando che il comportamento di chi detiene il potere è sindacabile e correggibile.
Di diverso tipo è l’Assemblea Deliberativa. Essa di solito non è polare (bianchi contro neri, i bianchi rappresentano l’autorità indiscussa). Essa mette in gioco forze diverse ma che si confrontano ad armi pari. La registriamo per seconda perché storicamente consegue all’assemblea di tipo giudiziario. Per esempio gli studenti di una scuola iniziano assemblee giudiziarie nei confronti dei professori e poi ottengono due risultati possibili: o di riunirsi e di deliberare autonomamente sui loro problemi, o di riunirsi in una unica assemblea coi professori a parità di voti. L’assemblea deliberativa diventa allora omogenea (forze pari) senza per questo eliminare la sua natura conflittuale. Il suo tempo grammaticale è il futuro: si delibera su quanto si dovrà fare domani.
Il Settantasette ha visto però il prevalere di un altro tipo di assemblea, l’Assemblea Pulsionale, di cui si avevano peraltro esempi anche prima. L’assemblea pulsionale non verte né sul passato né sul futuro. Verte sul presente. In essa non si tentano né processi né deliberazioni: le forze in gioco si confrontano sul piano della confessione personale. Nell’assemblea pulsionale ciascuno mette in pubblico il suo io, il privato prevale sul politico, la confessione sul progetto. Le assemblee deliberative e giudiziarie usano il cosiddetto “sinistrese” (nella misura in cui, argomentazioni serrate, ricorsi a principi di autorità, il pensiero di Lenin o di Mao o di Stalin, il proletariato, la lotta di classe…). L’assemblea pulsionale usa invece un linguaggio che definiremo il “libidinese”, dove si manifestano flussi di desiderio, bisogni, impulsi a ruota libera, crisi liberatorie.
Nelle assemblee in sinistrese prevalgono la terza persona singolare indefinita o la prima persona plurale: si deve ritenere che, noi vogliamo che, è certo che la situazione attuale è la seguente… Invece nelle assemblee pulsionali prevale la prima persona singolare: io penso che, voglio dire che, permettetemi di dire che…
Il sinistrese è argomentativo e sillogistico, il libidinese è narrativo. Il sinistrese spiega quello che bisogna fare e dice le ragioni per cui, il libidinese invece spiega quello che uno sente e le ragioni per cui lo dice.
Il sinistrese parla o finge di parlare dopo aver molto parlato. Il parlante si propone come garante della verità di ciò che dice (sostenuta del ricorso all’autorità filosofica o politica – ricordate Godard? “Lenin a dit…”?). Invece il libidinese si propone di parlare o parla come se iniziasse a parlare per la prima volta: “Scusate compagni se non riesco a dire quello che vorrei, ho le idee confuse, è la prima volta che parlo in pubblico, sto andando in paranoia, ma vorrei dire quello che sento in questo momento…”. Il sinistrese si struttura in una serie di interventi e risposte, il libidinese in una serie di narrazioni e contronarrazioni (la mia esperienza contro la tua). Un discorso in sinistrese tende a instaurare una leadership, un discorso in libidinese a evitarla (l’assemblea pulsionale reagisce duramente contro le possibilità di instaurazione di una leadership). Varia ovviamente il ritmo. Nel sinistrese il ritmo è serrato, uguale a quello degli slogan da corteo, è il ritmo delle idee concatenate sillogisticamente. Il modello sintattico è Cicerone. Nel libidinese il ritmo è rallentato, oppure spezzato, il modello sintattico varia da Proust a Beckett.
Quello che non varia sono le interiezioni (cazzo, cioè perché dico compagni): attraverso queste costanze stilistiche sinistrese e libidinese si incontrano e si riconoscono. In termini tecnici diciamo che tra i due stili cambia il lessico e la sintassi, ma rimangono invariati i segni di interpunzione e i segnalatori “di contatto” (per cui tutti, pulsionali o deliberativi, si ritrovano uniti come parte dello stesso “movimento”).
Un’altra differenza è che nelle assemblee in sinistrese ci sono “gruppi” definiti in anticipo (Lotta continua, Manifesto, Movimento lavoratori per il socialismo) mentre nelle assemblee in libidinese si addensano e si disfano dei “crocchi” secondo pulsioni occasionali. L’assemblea pulsionale è attraversata da flussi di desiderio, è una macchina che taglia ed espelle senza programmi prestabiliti, non giudica ma avvinghia secondo che manda.
Le commistioni sono naturalmente molteplici, si danno bruschi cambiamenti di regime tra sinistrese e libidinese, rovesciamenti di fronte. Quando in un’assemblea a maggioranza libidinese appaiono interventi in sinistrese questi vengono derisi e “virgolettati” (le grida di “scemo, scemo” sono appunto una forma di virgolettatura). Un’assemblea in libidinese può risolversi in una delibera, ma di solito è la delibera di un corteo e il grido di “corteo, corteo!” sancisce la fine dell’assemblea, ma apre una nuova situazione di aggregazione pulsionale (il corteo in sinistrese viene invece deciso in anticipo, non è mai improvvisato). Per gli addetti ai lavori diremo che la struttura delle assemblee deliberative e giudiziarie in sinistrese è ad albero, mentre quella delle assemblee pulsionali in libidinese è a rizoma.
Cosa accade nelle assemblee pulsionali al leader? Apparentemente non esiste. Ci sono però dei leader storici che hanno una capacità di influenza anche sulle assemblee pulsionali. Ma mentre nelle assemblee deliberative il leader impone dei contenuti (“bisogna fare questo o quest’altro”) nell’assemblea pulsionale il leader potenziale, al massimo, manipola il passaggio tra due tipi di assemblee: “Compagni, dobbiamo arrivare a una conclusione” (trasformazione da pulsionale a deliberativa), oppure: “Compagni, non è necessario che si arrivi a una conclusione” (passaggio da deliberativa a pulsionale).
A questo punto è chiaro che è sciocco stabilire quale sia il tipo di assemblea da preferire. Un’assemblea è la risposta alle esigenze di una situazione. Certe situazioni richiedono il dispiegarsi libero e incontrollato di tutte le pulsioni in gioco e l’assemblea assume una funzione terapeutica (“finalmente possiamo stare insieme!”). Altre situazioni richiedono che si passi a decisioni concrete per non nevrotizzare il gruppo. L’arte del partecipare a un’assemblea consiste nel capire quale sia la posta in gioco.
Osservazioni finali? Almeno due. La prima è di natura politica. Negli ultimi anni si è vista una crescita delle assemblee di tipo pulsionale. Ma, sfuggite alle assemblee di massa, le funzioni di delibera e di giudizio sono state prese in carico da gruppi oligarchici: i gruppi terroristici coi loro tribunali del popolo non rifaranno a livello verticistico quello che molte assemblee non fanno più a livello di massa, giudicando e deliberando punizioni e interventi? E un problema su cui occorre riflettere.
La seconda osservazione è di natura biologica. Non bisogna cercare ragioni ideali per la trasformazione di molte assemblee da deliberative a pulsionali. Ci sono spiegazioni materiali. In situazioni come quella universitaria, dove in spazi ridotti si decidono riunioni sproporzionate, l’assemblea diventa fatalmente pulsionale, attraversamento non regolato di spazi da parte di gruppi casuali (quelli di oggi non sono quelli di domani, e tutti insieme non ci stanno). In assemblee di altro tipo (quartiere, fabbrica, scuola media) le leggi possono essere diverse proprio perché è diverso il rapporto spazio-partecipanti.
Quindi se un’assemblea è determinata anche da condizionamenti materiali, occorrerà calcolare come il rapporto tra situazione sociale, spazi fisici e reazioni psicologiche determini il tipo di assemblea che possiamo attenderci. Anche lo spazio che un’assemblea si sceglie (o che le viene imposto) costituisce un problema politico e psicologico.

L’ASSEMBLEA GIUDIZIARIA

OGGETTO: il passato; MODELLO: il tribunale; IDEALE: plutonico

Regole di funzionamento

  1. Richiedere che gli intervenuti chiarifichino i termini che usano e facciano esempi concreti affinché le accuse non siano generiche (rischio di trasformazione in assemblea pulsionale).
  2. Fare in modo che le accuse si trasformino in “cahier de doléances” (lista di difetti, responsabili, ingiustizie, eccetera) e che vengano presentate proposte di rimedi.
  3. La parte accusata, se ha accettato il confronto, deve fare una autocritica oppure criticare il cahier de doléances.
  4. La parte accusante deve consentire alla parte accusata di fare le proprie critiche, altrimenti la parte accusata si irrigidisce nelle proprie posizioni di resistenza e si blocca il dialogo. N.B. Le regole precedenti non valgono se l’assemblea giudiziaria è in effetti un tribunale del popolo in cui la parte accusante è in posizione di forza e vuole distruggere l’avversario. Ma questa situazione deve tener conto di una regola aggiuntiva.
  5. Non fare un finto tribunale del popolo se non si ha realmente una reale posizione di forza. Altrimenti gli accusati stanno al gioco ma dopo ristabiliscono il loro potere, e l’assemblea giudiziaria non è nemmeno un tribunale del popolo, ma una assemblea pulsionale manovrata dalla controparte.

Trucchi e soluzioni di forza

  1. Interventi veementi che mettono gli accusati in difficoltà psicologica. Esempio, se gli accusati eccellono nell’arte dell’ironia, gli accusanti devono fare interventi duri, senza sorriso, e bollare ogni tentativo di ironia come perversione borghese; oppure, se al contrario gli accusati non hanno senso dell’umorismo, gli accusanti devono sommergerli con interventi ludico-ironici. Se questo trucco ha successo, l’assemblea si trasforma in tribunale del popolo.
  2. Presentare prove di alto valore emotivo che mettono gli accusati in difficoltà psicologica, anche se non sono direttamente responsabili del fatto provato. Esempio: arrivo improvviso di un compagno ferito; testimonianze dirette di gravi ingiustizie subite; lettere da compagni in carcere.

Artifici d’interruzione

Valgono quelli dell’assemblea deliberativa.
Fatalmente trasformano l’assemblea da giudiziaria a pulsionale.

L’ASSEMBLEA DELIBERATIVA

OGGETTO: il futuro; MODELLO: il parlamentino; IDEALE: apollineo

Regole di funzionamento

  1. Fissare regole di intervento: durata degli interventi, numero di interventi per ogni mozione, durata complessiva.
  2. Fissare un ordine del giorno, con ampio spazio alle “varie ed eventuali”, dopo che i punti precedenti sono stati discussi.
  3. Eleggere una presidenza capace di fare osservare le regole 1 e 2.
  4. Non iniziare se non c’è il numero legale (chiunque potrebbe invalidare le decisioni prese).
  5. Distinguere le mozioni d’ordine da quelle di sostanza.
  6. Votare su punti separati ma dopo avere avuto sott’occhio tutte le proposte, in modo che la votazione di un punto non renda indecidibili gli altri punti.
  7. Possibilmente su ciascun argomento votare mozioni contrapposte così i votanti si accorgono di cosa accettano e cosa rifiutano.
  8. Quando la discussione diventa confusa interrompere per permettere l’aggregazione di gruppi di tendenza (o di commissioni elette) per preparare mozioni che partano già con un minimo di possibilità di consenso.

Trucchi e soluzioni di forza

  1. Tempo e culo di pietra. Chi resiste sino alla fine stancando gli altri, presenta la propria mozione finale quando la maggior parte degli avversari se ne è già andata.
  2. Confondere gli avversari con una raffica di mozioni a catena in modo che siano stanchi e confusi quando si arriva alla mozione decisiva.
  3. Far votare mozioni ambigue, apparentemente innocue, che però rendano vane le mozioni successive.
  4. Favorire la suddivisione in gruppi per l’elaborazione di mozioni, ma inserire propri rappresentanti in ogni gruppo per influenzare le mozioni nel senso voluto.
  5. Riuscire a far presentare da due gruppi fittizi due mozioni contrapposte che sostanzialmente ottengano lo stesso risultato. Gli avversari avranno l’impressione di aver scelto.

Artifici d’interruzione

  1. Per trasformare l’assemblea deliberativa in assemblea pulsionale:
    • happenings improvvisi
    • grida di “scemo scemo” a ogni intervento
    • grida di “corteo! corteo!”
    • risate, miagolii; accendere radioline; introdurre animali in sala; fingere contemporaneamente vari attacchi epilettici in diversi punti della sala.
  2. Per trasformare l’assemblea da deliberativa in giudiziaria:
    • mettere sotto accusa (veementemente) i metodi della presidenza
    • criticare il poco tempo concesso agli interventi, che favorisce le élites eloquenti e mette in difficoltà gli emarginati che si esprimono con difficoltà
    • chiedere la verifica del numero legale (per esempio: mancano gli studenti fuori sede)
    • arrivo consistente e improvviso di un gruppo di aventi diritto la cui assenza è giustificata da seri motivi (esempio, scontri con la polizia da basso) e che si dichiara in disaccordo con le decisioni prese (funziona se la presidenza non aveva verificato il numero legale).
  3. Per ristabilire l’unità morale dell’assemblea:
    • gridare: “ci sono i fascisti da basso!”
    • intonare l’Intemazionale (sono consentiti altri canti per assemblee adiste, di Comunione e liberazione, eccetera).

L’ASSEMBLEA PULSIONALE

OGGETTO: il presente; MODELLO: la festa; IDEALE: dionisiaco

Regole di funzionamento

Non ce ne sono, e se ce ne sono coincidono coi trucchi e gli artifici di forza. Ogni regola è sentita come un trucco. Esistono al massimo criteri di sopravvivenza o di equilibrio psicologico:

  1. Non diventare vittima delle tue regole tradizionali.
  2. Non attribuire agli altri le tue regole.
  3. Non credere che un’assemblea pulsionale sia deliberativa. Chi decide la uccide.
  4. Non credere che un’assemblea pulsionale sia giudiziaria perché non c’è divisione netta tra le parti in gioco (il tuo accusatore può essere il tuo alleato).

Esiste tuttavia una serie di criteri distintivi dell’assemblea pulsionale, ovvero un suo decalogo implicito – o regola della irregolarità:

  1. Il fine primario di un’assemblea è quell’assemblea.
  2. Non è necessario che l’assemblea termini prendendo decisioni e non è necessario che le decisioni prese diventino esecutive.
  3. Il fine secondario dell’assemblea è indire l’assemblea seguente. Le assemblee peraltro non sono cumulabili: l’assemblea seguente riprende da capo i problemi dell’assemblea precedente.
  4. L’assemblea definisce i gruppi che la costituiscono (non ci sono gruppi o tendenze precedenti l’assemblea, che definiscono la natura dell’assemblea. In altre parole, non si fa un’assemblea perché dei gruppi vogliono esprimersi ma dei gruppi vogliono esprimersi perché c’è l’assemblea).
  5. Fa parte di diritto dell’assemblea chi ne fa parte di fatto.
  6. Per far parte di fatto dell’assemblea occorre entrare fisicamente nello spazio dell’assemblea. Entrare non significa “starci”. Basta attraversarla.
  7. Ha diritto di voto nell’assemblea chi la sta attraversando in quel momento.
  8. Non sono possibili assemblee decentrate collegate da circuiti televisivi chiusi; nell’assemblea pulsionale non si dà bicameralità. Ogni altro spazio è un’altra assemblea, opposta alla prima.
  9. Sono espulse dall’assemblea due categorie di persone:
    • chi non c’è
    • chi tenta di darle regole e di imporre una leadership (ci può essere una leadership occulta e non politica, ovvero un modo di imporre delle determinazioni alla libera manifestazione pulsionale dei singoli; per questo di regola sono espulsi anche eventuali spacciatori di eroina e stupratori di ragazze denunciati dai gruppi femministi).

È proibito enunciare pubblicamente i nove punti di cui sopra, pena la morte dell’assemblea.

Artifici d’interruzione

Non ce ne sono, ovvero ogni modo di interruzione è quello giusto.
L’Espresso, 25 dicembre 1977


Nota

  1. Questo studio – nato da comuni esperienze universitarie – è stato pensato e discusso con Paolo Fabbri, che ne è co-autore a tutti gli effetti. torna al rimando a questa nota
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