Viene prima la parola o la cosa?


Giuseppe Cantarano, L’Unità, 27 Marzo 2000.


L’unità di Babele e delle sue lingue
Nel saggio del semiologo Paolo Fabbri “la storia critica dei linguaggi degli uomini, nati da sempre per raccontare le differenze degli uomini e non per separarle come vuole il mito. Perché – come diceva Heidegger – l’uomo è tale in quanto parla”

Paolo Fabbri, Elogio di Babele, Meltemi, pagine 166, lire 28.000

All’origine della nostra storia c’è la parola. La parola di Dio: “Sia la luce”, è scritto nella Genesi. E “la luce fu”. Soltanto dopo questa parola divina ha inizio la creazione. Le cose, per poter effettivamente essere, devono preliminarmente essere nominate. Le cose, per poter avere uno statuto ontologico, per poter essere veramente reali – hanno bisogno di essere pronunciate nella parola. In che lingua Dio ha pronunciato le sue parole, non ci è dato sapere. Sappiamo, però, che senza la parola non ci sarebbero state tutte le cose del creato. Tuttavia, nella tradizione filosofica occidentale, rovesciando l’interpretazione biblica, è prevalsa la tendenza a ritenere che nomina sunt consequentia rerum. Prima si danno le cose, dopo i loro nomi. Aristotele e Tommaso D’Aquino sono i due più autorevoli esponenti dì questo realismo filosofico.
Allora, prima la cosa o prima la parola? È un dilemma vecchio come il mondo. E altrettanto vecchia come il mondo è la ricerca dell’origine del linguaggio. Una ricerca che nel Cratilo di Platone raggiunge vertici speculativi assolutamente straordinari. Nonostante tutto, continuiamo a chiederci: perché gli uomini non parlano tutti una sola stessa lingua? Perché oggi nel nostro pianeta ci sono quasi cinquemila differenti lingue? Per colpa di Babele, si dice. I costruttori di Babele parlavano tutti la stessa lingua, quella dì Adamo. Ma la superbia trascina gli uomini a voler sfidare Dio, edificando una torre che arriva sino al cielo. Così Dio, per punire il loro orgoglio e impedire la costruzione della torre, confonde la loro lingua, in modo tale che gli uomini non possano più comprendere gli uni la lingua degli altri.
Ma Babele fu veramente una maledizione per gli uomini? Paolo Fabbri – presidente del Dams di Bologna, semiologo tra i più acuti, nonché stretto collaboratore dì Creimas – ritiene di no. Non solo Babele non rappresenta una maledizione, ma è grazie a Babele che gli uomini fanno esperienza per la prima volta di ciò che più li caratterizza: il linguaggio.
Del resto, lo diceva anche Heidegger: l’uomo è uomo in quanto parla. Fabbri propone una diversa interpretazione del mito di Babele. Una versione “nera”, egli la definisce. E vero, gli uomini hanno perso la loro unità organica, hanno frammentato l’unica suprema parola. Eppure, grazie a Babele, fanno esperienza per la prima volta di un evento straordinario.
Gli uomini, per la prima volta, assaporano la differenza dei linguaggi, la loro “disparatezza”. Per la prima volta gli uomini assaporano il linguaggio, “perché il linguaggio non ha senso che nella differenza dei linguaggi”. I babeliani superstiti, scrive ancora Fabbri, “gusteranno la disseminazione delle lingue, delle loro differenze che si somigliano. Disparazione che può essere vissuta senza disperazione, come una difficoltà felice”. Babele, dunque, non è la città della mitica unità definitivamente smarrita. Il invece quel luogo dove, proprio grazie alla confusione, è possibile tradurre reciprocamente tutte le lingue. E traduzione vuol dire innanzitutto reciproca comprensione.
Del resto, nella Babele delle nostre metropoli contemporanee, lo sperimentiamo quotidianamente nonostante la grammatica un po’ sgangherata, gli uomini e le donne s’intendono. La nostra comunicazione è dunque una sorta di traduzione incessante. E nell’opera di traduzione, se guadagniamo la comunicazione, perdiamo un po’ l’articolazione architettonica della lingua. Ma non è sempre detto che le lingue tradotte siano lingue più misere. Anzi, “sgrammaticare una lingua non è necessariamente impoverirla”. Nella traduzione invece la lingua si rimotiva continuamente. Rimotiva soprattutto la sua arbitrarietà. Perché, in quanto sistema aperto, la lingua tende a evolvere confliggendo contro la sua arbitrarietà, Per averne una prova, basti pensare alle lingue di bricolage, come le chiama anche Umberto Eco. A quelle lingue, cioè, che nascono spontaneamente dall’incontro di due civiltà di lingua diversa. Ad esempio, i pidgin sorti nelle aree coloniali. Sono proprio i pidgin a fornire infatti una rimotivazione alla lingua nel momento in cui si trasformano in creolo.
Ma qual è il fine di questa inarrestabile rimotivazione delle irriducibili disparità delle lingue? Secondo Paolo Fabbri questo fine corre verso una futura, ma inattingibile, unità. Se alle nostre spalle c’è la città di Babele, davanti a noi c’è la sua Torre. Ciò vuol dire – secondo Fabbri – che le cose vengono sempre dopo i loro nomi. Prima la parola che la nomina, poi la cosa. Insomma, il “reale è davanti al linguaggio, non alla sua origine”.

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