Da: Arianna Agudo, AlfaDomenica, 20 maggio 2018.
www.alfabeta2.it/2018/05/20/georges-perec-le-parole-e-la-cosa/
Si apre con un elenco di mancanze La cosa di Georges Perec, articolo incompiuto (seconda mancanza) dedicato al free jazz (o new thing), redatto nel 1967 per una rivista – La ligne générale – che non vide mai la luce (terza mancanza). Pubblicato per la prima volta in italiano sulla rivista Musica jazz nel 2004 e ora sotto forma di libro da EDB, è accompagnato da una acuta ed esaustiva nota di lettura di Paolo Fabbri: talmente acuta ed esaustiva da rendere difficile aggiungere del nuovo alla «cosa», lasciando come unica possibilità (1) la ripetizione, (2) la citazione e, forse, (3) la possibilità del possibile.
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Si apre con un elenco di mancanze La cosa di Perec, articolo dedicato al free jazz di cui ammette di non conoscere quasi nulla, di non disporre di particolari competenze musicologiche né teoriche e, (Cit.) «per finire di scoraggiare il lettore», di non aver neppure mai letto alcunché a riguardo. Attraverso questa successione sistematica di frasi negative Perec sembra assumere la posizione dell’intruso, dell’impostore, di un occhio esterno ed estraneo che abita la non appartenenza: d’altronde questo sguardo straniato e straniante, così come la non appartenenza e la mancanza, sono sempre stati degli elementi costitutivi e originari della sua produzione artistica. Al centro di tutto è la mancanza, quella casella vuota che, più che permettere, costringe a uno sguardo laterale, obliquo e rivoluzionario nella duplice accezione del termine: infatti, come osserva Hannah Arendt in On Revolution (1963), la parola «rivoluzione» solo nei tempi moderni è passata a indicare un moto sovversivo, di rottura ma il primigenio significato astronomico indicava, al contrario, il movimento circolare degli astri, il loro girare attorno. Lo stesso moto che Perec, recuperandone la significazione originaria, attribuisce al termine «trovare» che, appunto, (Cit.) «equivaleva a girare, fare il giro, andare attorno […] trovare significa cercare attraverso il rapporto con il centro che è propriamente l’introvabile», la tessera mancante, il vuoto, ciò che lo induce a tracciare e mappare le vie del possibile.
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Nell’articolo incompiuto dedicato al free jazz, Perec non parla del free jazz: lo circumnaviga, lo sfiora obliquamente, lo usa pretestuosamente per parlare, lateralmente, di letteratura. Attraverso questo nesso tra le parole e La cosa, l’autore vuole «trovare» (Cit.) «la risposta che la scrittura ancora va cercando», soprattutto per quanto concerne il complesso e indissolubile rapporto tra costrizione e libertà: proprio perché la musica è forse, tra tutti i linguaggi, quello più vincolante, quello più intrinsecamente bisognoso di regole, la pretesa del free jazz di essere, appunto, free, di avere (Cit.) «come unica regola l’assenza di regole», offre un esempio parossistico del rapporto tra le due e, attraverso questa esacerbazione, evidenzia l’imprescindibilità della presenza di un codice, sia perché (Cit.) «affinché i musicisti suonino insieme è necessario che si diano delle regole», ma soprattutto perché la regola è condizione preliminare e necessaria alla libertà, perché è solo la norma a rendere possibile lo scarto, perché la previsione meticolosa è sempre suscettibile allo smacco della vita, al caso, all’inatteso, al possibile. Il 1967 è anche l’anno in cui Perec entra a far parte dell’OuLiPo – Ouvroir de Littérature Potentielle –, gruppo fondato a Parigi nel ’60 da Raymond Queneau e dal matematico François Le Lionnais e cui apparteneva anche Italo Calvino (il quale a Perec ha dedicato diversi scritti, alcuni dei quali sono riportati nel numero monografico che Riga nel ’93 gli dedicò, a cura di Andrea Borsari) e del quale ammirava proprio la capacità di darsi delle regole, dei vincoli, delle costrizioni, così inventando (Cit.) «il labirinto da cui trovare l’uscita».
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Si apre con un elenco di mancanze La cosa di Perec, articolo dedicato al free jazz (o new thing). E tuttavia questa non è la prima mancanza che si incontra nel corso del testo: ce n’è un’altra (mancanza zero), iniziatica, inaugurale, annidata nel titolo, ed è la sottrazione del new (nuovo) alla «cosa», sottrazione che l’assonanza con il più famoso titolo Le cose, romanzo d’esordio di Perec nel ’65, sembra celare attraverso questo gioco di rinvii e citazioni sovrapposte. A ben guardare è proprio in questa assenza nascosta dalla sua stessa assenza, è proprio in questa sottrazione del nuovo che risiede il nuovo. Quello che l’allievo di Roland Barthes vuole infatti evidenziare attraverso il free jazz è l’impossibilità costitutiva del radicalmente nuovo poiché ogni musicista, prima di iniziare un pezzo free, non avendo alcuna «istruzione per l’uso», ha dietro e davanti a sé nient’altro che la propria tradizione, ovvero proprio quel passato, quello stesso sistema che vorrebbe rinnegare. Di fronte al baratro della libertà assoluta, egli può solo attingere dalla parola d’altri, dalla memoria ereditata: non si tratta più di creare del nuovo ma di ricombinare il già esistente, non si tratta più di cancellare il passato ma di ri-crearlo, di scomporlo e ricomporlo al fine di verificarne e forzarne le possibilità. Risiede qui, forse, quel passaggio epocale che sancisce la rottura con ogni rottura, il momento in cui, per dirla con Rosalind Krauss, l’originalità dell’avanguardia si tramuta in mito.
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L’unica possibilità è [dunque] (1) la ripetizione (riff) e (2) la citazione (Cit.). La ripetizione, con la sua ricorsività e circolarità, costituisce non solo (Cit.) «la figura elementare della coesione», ma anche il terreno necessario alla produzione dello scarto, dell’inaudito, del singolare, della differenza, del nuovo: un luogo da abitare, scrive Anna Stefi nel suo Georges Perec del 2013, (Cit.) «come se soltanto così potesse emergere qualcosa come incontro inatteso», un luogo in cui coesistono, finalmente, entrambe le rivoluzioni.
La citazione, dice Perec, oltre ad essere (Cit.) «la figura privilegiata della connivenza», assicura la continuità con il passato, con la tradizione, quasi fosse lì a ricordare che «nessuno scrittore scrive nel vuoto», a rassicurare il suo cammino, scongiurando la vertigine prodotta dalla pagina bianca. Non è mai una parola morta, sterile, inerte ma, anzi, attraverso l’operazione di ricontestualizzazione essa viene continuamente ri-scritta, ri-generata, reinventata. In questa prospettiva, il riferimento a Le cose nel titolo non appare solo come una vacua e giocosa autocitazione, ma nasconde (e allo stesso tempo rivela) una connessione più intima tra La cosa e Le cose: in effetti i protagonisti del romanzo, Jérôme e Sylvie, sembrano invischiati nello stesso gioco di alternanza tra costrizione e libertà, tra desiderio di rottura delle regole e l’inevitabile adesione a un codice, tra il desiderio di libertà e la consapevolezza della sua illusione, tra l’assenza di passato e tradizione e l’impossibilità di sfuggire alla propria storia. Certo, alla fine i due aderiscono, si lasciano cullare dalla vita restando inchiodati, come scrive Anna Stefi, (Cit.) «a un presente senza spessore». Certo, Jérôme e Sylvie non fanno la rivoluzione, ma è proprio in questa resistenza alla resistenza che si insinua, lateralmente, il nuovo.
Coda (trasfigurazione della mancanza)
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Come osserva Paolo Fabbri nell’acuta ed esaustiva nota di lettura che accompagna il testo, l’articolo si conclude con la parola «invenzione», senza punto, ovvero non si conclude (seconda mancanza) ma resta aperto alle (3) possibilità del possibile. Premessa e promessa di ogni gioco e di ogni fiaba, l’inconclusione, l’imperfezione, la mancanza, la pagina bianca si trasformano così nel luogo del possibile: una «specie di spazio» dalla temporalità sospesa e, per sempre, un avvenire in essere che implica non tanto il futuro quanto il futuribile o, come afferma Henri Bergson nel Possibile e il reale del ’30, «il miraggio del presente nel passato». La sottrazione del nuovo (mancanza zero) e l’assenza di fine (seconda mancanza), segnalano non l’arrivo di tempi nuovi ma di una nuova forma di temporalità in cui al gioco del permesso si sostituisce quello, infinito, del possibile.
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L’articolo si conclude senza che un punto segua la parola «invenzione»
Georges Perec
La cosa
traduzione di Sabrina Sacchi, nota di lettura di Paolo Fabbri
Edizioni Dehoniane, 2018, 48 pp., € 6,50