Maria Bettetini, Azione. Settimanale di informazione e cultura della Cooperativa Migros Ticino, 03/11/2014, p. 55.
Purtroppo il linguaggio odierno è caratterizzato da un uso sempre maggiore del turpiloquio – senza inventiva alcuna
Facciamo che per le prime righe di questo articolo mi sarà permesso il pudico e ipocrita uso delle x (sempre più sincero dei bip televisivi, che volutamente non si sovrappongono mai a ciò che dovrebbero coprire). È difficile altrimenti raccontare di una progressiva diffusione della volgarità che porta oggi le menti elette a implorare insulti più raffinati. Non andiamo subito nel Parlamento italiano, troppo facile, saliamo su un autobus nell’ora dell’uscita da scuola, o in un parco giochi familiare. Sei una testa di xxx, xxx mi sono dimenticato il pallone, speriamo che quella xxx di sua sorella non tiri il pacco… Chi usa queste brutte parole? Tutti. Uomini e donne (perché mai il genere dovrebbe impedire espressioni chiare come non rompere i xxx?), grandi e piccini. «Porca xxx, ho fame» geme la creatura di sette anni per attirare l’attenzione della madre crudele, intenta al gossip.
Le conseguenze della diffusione democratica della – lo diciamo? – ma sì, della Parolaccia, sono gravissime. Infatti se tra amici si dice «sei proprio uno xxx», intendendo quel prodotto sgradevole, nessuno si offende, basta aggiungere un’occhiata bonaria, una amichevole pacca, sei proprio uno stronzo. Visto? Non sembra nemmeno una Parolaccia. Si è persa così, purtroppo, l’arte della invettiva o dell’offensiva, quel saper dosare con intelligenza i termini in modo da ottenere la massima resa con le minime sillabe. La serva Italia, di dolore ostello, non era donna di province, ma bordello (termine oggi utilizzato dalle maestre d’asilo per invitare i bimbi a non far confusione o casino o bordello). A quei cattivoni dei Pisani, poi, Dante augurava una tremenda morte per affogamento, dovuta al fantascientifico movimento delle isole Capraia e Gorgona, invitate a muoversi fino a ostruire l’Arno. «Vai a morire ammazzato», si diceva popolarmente. Ora sublimato in «ti venga un cancro» (impossibile? No, sentito e più di una volta durante litigi altrui). Questa è però un’espressione poco corretta, politicamente, perché tocca ciò che riguarda tutti, la salute, e perché in fondo siamo anche superstiziosi. Quindi i governanti hanno ben pensato di fornirci di espressioni alternative. Qui non uso le x, perché riporto testi parlamentari, o comunque pubblici, dove chi parlava era rappresentante di parte del popolo: il nemico è assassino, infame, figlio di troika (grazioso giuoco di parole), smargiasso, fanfarone. Un buffone che merita la lupara bianca, un ebete, non merita la scorta quindi gli auguriamo morte violenta. Un inetto (riferimenti letterari a Svevo?), un omicida (a Dostoevskji?), è così grosso che per lui a Bruxelles dovranno allargare i bagni, è così grassa che la si può definire solo tramite il suo lato posteriore. Esagero? Ma no, per parlare meglio basterebbe solo «sciacquarsi la bocca con acido muriatico», come consigliato da un politico a un collega.
Il numero 54 della rivista «Il Verri» è dedicato alle parole offensive, il saggio introduttivo di Paolo Fabbri rimanda a utili elenchi, citando Sterne che racconta con ammirazione di un gentiluomo provvisto di una riserva di insulti mirati. Costui «con tutto l’agio compose delle formule d’insulto adatte a qualunque provocazione e le tenne sempre a portata di mano sulla mensola del caminetto pronte all’uso». Gli elenchi pronti potrebbero essere come quelli costruiti da Oriana Fallaci quando si arrabbiò con gli islamici (scemi, barbari, grulli, cani mordaci, conigli etc.), con i politici italiani (gelosi, biliosi, beoti, squallidi, falliti etc.), infine, perché no, con gli italiani tutti, piccole iene, voltagabbana, molluschi, inetti, parassiti, cani bagnati etc. Sulla sponda opposta, Gadda aveva scritto di Mussolini, senza mai nominarlo, qualche decina di insulti di nuovo conio, da sanguinolento porcello a mascellone, fezzone, super balano, naticone ottimo massimo e così via. Ottimi lavori, da destra e da sinistra, un po’ banali le espressioni della rabbia della signora.
Paolo Fabbri chiede «più inventiva nell’invettiva». Per non ridursi a dare la Parolaccia, chiedere la Parolaccia, passare la Parolaccia, aggiungere infine solo una Parolaccia, scambiare due Parolacce tra amici, come si teme ormai si debba dire in qualunque assemblea, dal Parlamento alla tavolata estiva. Conservare le vere e proprie Parolacce per il loro scopo, ossia la manifestazione di uno stato d’animo così adirato o sconvolto da poter trovare espressione solo in metafore poco fini. Le cose più tremende accadono quando si usano termini che non sconfinano, Francesca si ritenne offesa dal «modo» con cui Paolo le fu tolto, a noi viene trasmesso il senso di un’offesa profonda e inguaribile.
Per tornare alla politica, nel 1925 Mussolini si assunse la responsabilità del delitto Matteotti e proclamò di fatto la dittatura, senza uso di paroloni e parolacce: «Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!» e punto lì. Certo, non si può neanche esagerare in pudicizia, seguendo l’esilarante prova di Umberto Eco che ha ricostruito le versioni corrette di alcune espressioni non eleganti: «Taccia, Lei, il cui viso avrebbe potuto essere definito da un noto maresciallo dell’Impero nelle ultime ore della battaglia di Waterloo!»; «Ella ha una scatola cranica che più che alla speculazione sarebbe adatta alla riproduzione», e così via. Divertente, ma poco pratico. E se si attingesse alla ricchezza dialettale? Già fatto, tutti usano come Montalbano l’espressione che inizia per emme, di cui pochi sanno il significato. E ora non so più come xxx chiudere questo xxx di pezzo, e non ho detto niente degli altri contributi sul «Verri». Beh, mi avete xxx xxx, se volete leggeteli xxx, oppure xxx xxx xxx. Xxx!